Ci sono delle buone ragioni per sperare? Oppure, detto più prosaicamente ma anche in modo maledettamente più concreto, “perché ci si alza la mattina?”. Se nella notte ci si è rigirati insonni nel letto era proprio perché quella domanda non sembrava trovare risposta. La speranza in certe ore notturne è proprio come morta. “Perché ci si alza allora la mattina?” chiede il filosofo Ernst Bloch nella sua conversazione del 1964 con Theodor W. Adorno, da lui chiamato amichevolmente Teddy (Qualcosa manca… sulla contraddizione dell’anelito utopico contenuta in Ernst Bloch, Speranza e utopia, Conversazioni 1964-1975, a cura di R. Traub e H. Wieser, Mimesis, Milano 2022). Quali sono le radici metafisiche di quella folle speranza in un giorno migliore senza la quale l’esistenza sarebbe intollerabile? Il curatore italiano del libro Eliano Zigiotto, come Laura Boella, che lo correda con una breve e intensa post-fazione (dal titolo: Il coraggio di sperare e di disperare) insistono nel “datare” queste conversazioni: sono, ripetono, di cinquanta – sessanta anni fa quando il mondo era profondamente diverso, quando la guerra fredda imperava e la filosofia era praticata come atto critico e sovversivo.
Bloch e Adorno (per non parlare di
György Lukács, compagno di studi filosofici del giovane Ernst, anche lui
fugacemente presente in questi dialoghi) erano filosofi che
nell’hegelo-marxismo avevano il loro orizzonte di riferimento teorico e nel
socialismo quello pratico. Le loro strade certo divergono, anche
drammaticamente, ma tutti condividono la speranza in una trasformazione
radicale dello stato di cose, anzi il loro dissidio nasce proprio dai diversi
modi in cui questa comune speranza può essere declinata.
Ora, quel mondo è indubbiamente
tramontato al punto che nemmeno chi si propone di rinnovare la malmessa
sinistra italiana osa pronunciare quella parola, “socialismo”, che per Ernst
come per Teddy era pressoché un’ovvietà. “Socialismo” era per loro “il sogno di
una cosa” latente nel “processo storico”, di cui si poteva discutere la
praticabilità ma non certo la “necessità”.
Eppure quella domanda, “perché ci si
alza la mattina?”, rimbomba più che mai nella nostra testa frastornata. Ciò si
deve, forse, al fatto che quella domanda non ha a che fare con il tempo lineare
degli eventi, piuttosto va alla radice del tempo, chiede di qualcosa che non è
più tempo, qualcosa che se ne sta fuori dal tempo, come il celebre exaiphnes di
cui parlava il Parmenide immaginato da Platone, un “improvviso” (così
bisognerebbe tradurlo) che del cambiamento è l’origine senza essere parte del
tempo (per questo la sua traduzione con “istante” è fuorviante).
Nella prima delle conversazioni raccolte
nel volume (anch’essa del 1964), l’intervistatore Jurgen Rühle fa una domanda a
bruciapelo a Bloch. Una vera domanda “giornalistica”. Gli chiede: lei che ha
scritto Il Principio speranza (1959), lei che ha rimesso in
circolazione la necessità dell’utopia, una nozione che gli stessi marxisti,
volendo essere “scientifici”, disprezzavano, lei ci sa dire in due parole “qual
è l’idea di fondo della sua filosofia?”.
Bloch non esita a rispondere. Da vero
filosofo sa che ogni pensiero vivente si nutre di una sola intuizione sebbene
occorrano migliaia di pagine e un’intera esistenza di ricerca per comunicare al
mondo la sua ineffabilità di principio. Quel punto, dice, è l’“oscurità
dell’attimo vissuto”, quel punto è la strana natura del presente, del “qui e
ora”. Non bisogna alzare gli occhi al cielo per cercare il mistero. Ciò che è
massimamente vicino, perché io lo sono, adesso,
è in realtà l’enigma.
L’immediato, come lo chiamano i
filosofi, è l’enigma, l’immediato è la sorgente costante dello stupore. “Una
vita” denota il tempo speso nel tentativo di decifrarlo e la “storia degli
uomini”, con i suoi conflitti, con le sue catastrofi e con le sue rivoluzioni,
è il succedersi degli “esperimenti”, quasi sempre fallimentari, con cui
l’umanità ha cercato di risolvere quella X incognita nell’equazione del
presente vissuto. Il presente, a ben considerarlo, ha infatti una ben strana natura.
Il presente è intimamente aporetico, è un vicolo cieco.
Ad esso non posso sottrarmi – provatevi,
se ci riuscite, a fuoriuscire dal suo orizzonte claustrofobico… –, in esso
tutto passa e, tuttavia, il presente resta a me, mentre lo sono,
ignoto: per vedere qualcosa, per sentire qualcosa, per
sapere qualcosa non bisogna forse fare sempre un passo
indietro, articolare una distanza, esiliarsi in un “punto di vista”
necessariamente esterno alla “cosa” che si ha di fronte? Come recita il
proverbio tedesco, ai piedi del faro che illumina il mare c’è il buio e la
visione, spiegano i fisiologi, è debitrice di una macchia cieca al fondo della
retina. “Utopia” è allora il nome “preciso” che la speranza umana ha dato al
momento apicale in cui quell’equazione sarà finalmente risolta, all’attimo
immenso in cui il presente potrà dirsi veramente vissuto in pienezza. È un nome
“preciso” perché utopia significa al contempo nessun luogo (ou-topos) e
il luogo del bene (eu-topos).
Bloch, nelle sue conversazioni, non cita
Proust, ma a Proust quella dinamica era assai familiare. Il motore della Recherche non
è forse l’“oscurità dell’attimo vissuto”? La memoria involontaria non è una
facoltà a disposizione del soggetto. La memoria è il laboratorio nel quale si
conducono esperimenti, degni di un dottor Frankenstein, per estrarre dal
presente opaco quel senso o quell’aroma spirituale che mentre era in atto non
era “dato”. Come ben sa il lettore di Proust, occorrono migliaia di pagine
perché il tempo finalmente ritorni e il “perduto” sia “ritrovato”.
Immediatamente il presente è cieco. Mentre scorre si perde come neve al sole.
Per farlo permanere occorre, come scrive Bloch, che “ruoti fuori”, che faccia
segno di sé in un altro.
In Proust l’infanzia si dà così a vedere
in un biscotto intinto nel thè da un adulto, “i mattini di Doncières (il
passato) nei gorgoglii (presenti) dei nostri caloriferi ad acqua”. Nel filosofo
marxista Bloch ad essere ritrovato nella lotta del proletariato per il
socialismo era la speranza oscuramente insistente nella esperienza di
generazioni di oppressi nel passato e nelle loro vane ribellioni. Per entrambi
l’immediato contiene una latenza di futuro che spetta alla prassi esplicitare:
nel caso di Proust a incaricarsene sarà la scrittura “messa in forma” dalla
memoria involontaria, in quello di Bloch sarà l’azione trasformatrice dello
stato di cose presente “messa in forma” dal pensiero critico.
Per entrambi Il cerchio del tempo da
qualche parte deve chiudersi e ciò che pareva perso deve
essere integralmente restituito, senza che vi siano residui che screzierebbero
il cristallo. Entrambi sanno anche, però, che tutto questo è solo il “sogno di
una cosa” e non la “cosa stessa”. Ci sono in Proust reminiscenze che non
portano da nessuna parte e che lasciano all’esperienza che sembrano evocare la
sua cecità di principio, proprio come avviene, scrive Proust, quando ci
protendiamo verso “quegli oggetti situati troppo lontano di cui le nostre dita,
allungandosi in cima al braccio teso, sfiorano solo per un istante l’involucro
senza arrivare a prendere nulla”. Ci sono, insomma, tempi per sempre perduti e
mai ritrovati. E a Bloch, filosofo della speranza, è chiaro, come ripete
sovente in queste conversazioni, che la delusione sia l’habitat naturale della
speranza. Una speranza che non potesse essere anche delusa non sarebbe infatti
tale.
Ne risulta uno statuto tutto
sommato deludente per l’utopia blochiana. Ridotta a semplice
ideale regolativo dell’azione, non si capisce come possa infiammare gli animi,
competendo, come Bloch auspica in pagine di raro acume storico, con la
demagogia dei nazisti di ieri e, si potrebbe aggiungere, dei “sovranisti” di
oggi. Certamente non è con un’arida razionalità ristretta all’“economico” che
si può contendere nell’arena politica con i dispensatori di suggestioni
identitarie, ma l’utopia è arma spuntata quando si presenta “razionalmente”
come “principio speranza” anche se a colorarla emotivamente sono le fiabe e le
luci del luna-park così care a Bloch. Per l’oratore nazista, della cui performance
Bloch era stato testimone, “sangue e suolo” non è affatto utopia ma solidissima
realtà (si veda la conversazione su Non-contemporaneità. Provincia e
propaganda). Se il suo pubblico resta affascinato e da socialista che era
diventa immantinente nazista è perché gliela fa toccare con mano, mentre è
difficile toccare con mano quella che resta, dopotutto, un’idea generata dal
pensiero critico. Bisognerebbe riflettere su quanto “frigida” sia una speranza
che è divenuta un “principio” nel senso quasi fichteano del termine…
Allora perché continuare a sperare?
Perché alzarsi alla mattina? Curiosamente a fornire elementi per una risposta
ancora positiva a questa domanda è l’amico Adorno, il maestro del pensiero
critico-negativo. Guidato dalla sua incontenibile vis dialettica,
ma anche dalla simpatia che provava per Ernst e per il suo anelito utopico,
Teddy va subito al dunque, vale a dire all’elemento propriamente scandaloso e
raramente enunciato del principio utopico.
“La domanda sull’abolizione della
morte”, dice, è il “punto nevralgico” dell’utopia. L’utopia rivoluzionaria è
molto spinoziana (e, aggiungerei, per niente critico-negativa…): è l’utopia di
una vita che vive, qui e ora, e che della morte, del negativo, del nulla, non
ne sa proprio nulla. “Lo possiamo constatare molto facilmente – continua Adorno
–, basta sollevare qualche volta la questione della possibilità di abolire la
morte con i cosiddetti «benpensanti»”, la reazione sarà la stessa che si
avrebbe “se si lanciasse un sasso contro un commissariato di polizia”.
L’indignazione è infatti generalizzata, non solo per l’enormità della pretesa
avanzata, ma perché ad essere minacciato è un principio d’ordine, che nel memento
mori ha il suo cardine metafisico.
“Direi che questo tipo di reazione
rappresenta il massimo contrasto con la coscienza utopica. L’identificazione
con la morte oltrepassa di gran lunga e prolunga l’identificazione degli esseri
umani con le condizioni sociali esistenti”. E Adorno non può esimersi a questo
proposito da una stoccata al suo avversario di sempre, Martin Heidegger,
responsabile con la sua ontologia della finitezza di aver “consacrato” e
“assolutizzato” la morte, fornendo alla parte maggioritaria della filosofia
novecentesca il pensiero-guida. Ancora oggi, del resto, a quale istanza sovrana
fanno riferimento, “in ultima analisi”, i “benpensanti” quando stigmatizzano il
presente denunciando la rimozione o l’oblio della finitezza che lo
caratterizzerebbe? Se c’è una lezione da apprendere dalla pandemia, dicono
tutti, concordemente, da destra a sinistra, senza quasi eccezioni,
questa lezione magistrale non è altro che il vecchio e caro memento
mori, eterna legge trascendente che regola ogni comunità umana.
Dimenticarlo introdurrebbe, secondo
loro, all’anarchia e l’anarchia è il peggiore dei mali, peggiore del morire che
dell’anarchia è il rimedio naturale. Inutile dire che lo stesso pensiero di
Adorno avrebbe potuto trarre beneficio dalla iniezione di una siffatta
coscienza utopica perché è proprio al suo côté critico-negativo
che i “benpensanti” attingono a piene mani per screditare un presente u-topico
e immemore del morire (la falsa promessa di immortalità generata dal sogno
tecnologico, la società dello spettacolo, la mutazione antropologica,
l’imperativo capitalista del godimento ecc. ecc.).
Perché allora ci si alza la mattina?
Perché ci si affida ciecamente alla potenza irrazionale della “speranza”
nonostante le lezioni di duro realismo che la notte ci ha impartito? Perché
l’oscurità dell’attimo vissuto, alla quale, in quanto viventi, non possiamo
sottrarci, si dice contemporaneamente in due sensi. Da un lato è certamente la
latenza del possibile, la tensione verso il futuro del suo compimento (verso il
“tempo ritrovato”), che Bloch ha meravigliosamente descritto nei suoi libri (soprattutto
in Experimentum mundi del 1975). L’immediato è il suo
trascendersi, è il suo protendere verso una pienezza di soddisfazione, che
molto spesso sarà mancata. L’immediato è storia in nuce.
Dall’altro, però, l’oscurità dell’attimo vissuto è, proprio a causa della
cecità al senso che lo caratterizza, l’indice e la certezza di un radicamento
nell’essere che niente potrà scuotere (se stiamo a Cartesio, nemmeno le
macchinazioni di un Dio onnipotente che ci vuole male lo potrebbe).
L’immediato, in questo caso, è attualità per
la quale non c’è opposto e che letteralmente non muore mai. L’immediato è
immanenza assoluta, è utopia realissima, quotidianamente frequentata. Che
questa non sia una sofisticheria generata da una ipertrofia intellettualistica
(o, come si suole dire, una “sega mentale”…) lo verifica il fatto semplicissimo
che noi al mattino ci alziamo, magari per abitudine, magari
controvoglia, sicuramente disillusi, ma ci alziamo. E per
quanto invecchiando, ammalandoci e consumandoci procediamo a grandi falcate
verso la meta stabilita, è nell’immediatezza del presente immemore del morire
che restiamo sempre saldamente installati fino alla fine. Da quel
presente senza confini trae alimento una speranza che non ha nel tempo il suo
orizzonte e nella morte la sua smentita.
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