Sotto una piccola Sindone, il suo autoritratto, c’è quella scritta sul muro:
Ousmane Sylla
Se morissi vorrei che il mio corpo fosse portato in Africa, mia madre ne
sarebbe lieta. I militari italiani non capiscono nulla a parte il denaro.
L’Africa mi manca molto e anche mia madre, non deve piangere per me. Pace alla
mia anima, che io possa riposare in pace.
E quando c’è una scritta così non c’è più niente da aggiungere, l’esercizio
stesso della scrittura resta esercizio. È quello che si prova visitando gli
archivi di Pieve Santo Stefano, scendendo giù nei ricoveri della seconda guerra
mondiale ricavati dai tunnel borbonici a Napoli, quello che sentiamo andando a
Via Tasso a rileggere i messaggi lasciati dai condannati a morte dai nazisti,
non lontano da questa nuova lapide del Centro Permanenza e Rimpatrio di Ponte
Galeria, in cui non si riesce a entrare, su cui da giorni si rincorrevano
allarmi, e infatti, poi, eccolo. Ha lasciato una scritta semplice e
incancellabile, quella scritta dice. Una scritta non è una cosa qualunque, una
scritta è sempre un manifesto quando fatta su un muro, sta sempre a urlare agli
altri anche quando ci sembra intima, come questa.
Quella scritta dice. Dice quello che tutti sempre vogliamo, quello che ogni
migrante sogna, andare, vedere, vivere, lavorare, aiutare chi abbiamo lasciato,
tornare.
E poi dice che il suicidio è l’unico spazio di libertà, l’ultima capriola
concessa nell’angolo della reclusione. Che è insieme un atto di disperazione,
ma anche un atto di liberazione e di speranza. Gli altri, i liberi, restano e
per gli altri quel gesto deve valere come condanna.
L’impiccagione non è un suicidio qualunque: è un’accusa – Antigone si
impicca con i veli che l’avrebbero dovuta vedere sposa – spesso l’unica accusa
a cui possono ricorrere i ristretti. E dice che i sistemi di reclusione in
Italia ci rappresentano bene come una società incapace e disamorata:
abbandonati a loro stessi, luogo di dolore sia fisico che mentale, luoghi in
cui fatica a entrare non già il concetto di speranza, ma quello di
sopravvivenza. Dice che i centri per il rimpatrio tengono chiuse dentro persone
innocenti, in attesa di cosa.
Quelle frasi sono la nostra condanna, il suo atto di accusa per noi perché
qualunque persona libera è responsabile per qualunque recluso. L’insostenibile
paradosso di trovarla in un centro per il rimpatrio è che dice anche di un
nostos negato.
Mentre scriveva aveva ancora ventuno anni, e viveva – e vive – di parole
bellissime: Vorrei. Mia madre. L’Africa. La mia anima. Pace. Cinque passaggi
dal mondo ingiusto a quello giusto.
Ousmane Sylla muore consegnandoci un messaggio che splende tutta l’umanità
che non gli abbiamo saputo dare: lui, mentre lo uccidevamo, la custodiva.
Se un funerale nobile dovesse esserci oggi in Italia dovrebbe essere per
Ousmane Sylla, poi, dopo: quella parola rimpatrio sotto cui è rimasto, sospeso
in vita, sospeso in morte, sarebbe l’unico tardivo atto di pietà.
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