Lula riceve WikiLeaks e chiede libertà per Julian Assange – Lorenzo Poli
Ho chiesto loro di inviare la mia solidarietà. Possa Assange essere liberato dalla sua ingiusta prigionia”, ha dichiarato il neopresidente eletto del Brasile, Lula.
Luiz Inácio Lula da Silva ha chiesto il rilascio del giornalista Julian Assange dopo aver incontrato il caporedattore di WikiLeaks Kristinn Hrafnsson e l’editore Joseph Farrell.
“Ero con Hrafnsson, caporedattore di WikiLeaks, e l’editore Joseph Farrell, che mi ha informato sulla situazione sanitaria e sulla lotta per la libertà di Julian Assange”, ha scritto Lula, che assumerà l’incarico di capo di stato brasiliano il prossimo 1 gennaio.
“Ho chiesto loro di inviare la mia solidarietà. Possa Assange essere liberato dalla sua ingiusta prigionia”, ha detto l’ex presidente (2003-2011).
L’islandese Hrafnsson sta girando diversi paesi dell’America Latina alla ricerca di governi progressisti per fare pressione sulle autorità degli Stati Uniti al fine di ottenere la libertà del giornalista australiano.
Intervistato dai media locali, il caporedattore di WikiLeaks ha riconosciuto che la recente ondata di vittorie elettorali per i politici di sinistra in America Latina lo ha portato nella regione, con lo scopo di cercare sostegno politico per il rilascio di Assange.
Il 17 giugno, il ministro dell’Interno britannico Priti Patel ha approvato l’estradizione di Assange negli Stati Uniti, dove potrebbe essere condannato a 175 anni di carcere.
Washington chiede l’estradizione di Assange dal Regno Unito, dove è detenuto dal 2019, per processarlo per 17 presunti reati in violazione dell’Espionage Act del 1917 e uno di intrusione informatica.
Le accuse riguardano la divulgazione e la pubblicazione di rapporti militari sull’Iraq, l’Afghanistan e la base illegale di Guantanamo, nonché rapporti diplomatici che rivelano crimini di guerra e altri abusi da parte di funzionari e autorità statunitensi.
Julian Assange non è più solo. I media contro l’estradizione – Vincenzo Vita
Nyt, Guardian, Le Monde: l’appello del network di giornali che ha lavorato con l’attivista
Forse siamo di fronte ad una svolta decisiva. Gli editori e la redazione di New York Times, Guardian, Le Monde, Der Spiegel, El Pais hanno scritto un appello assai importante sul caso del fondatore di WikiLeaks «…è tempo che il governo degli Stati uniti ponga fine alla causa contro Julian Assange per aver pubblicato segreti di stato…». Si tratta di una pagina rilevantissima della sequenza che iniziò nel 2010, quando i cinque giornali internazionali (un network cui parteciparono gli italiani Espresso e la Repubblica nel periodo in cui sulle testate scriveva Stefania Maurizi, autrice del recente volume Il potere segreto) pubblicarono molte rivelazioni nate dal lavoro del gruppo diretto dal giornalista australiano. Com’è noto, le notizie riguardavano i misfatti delle guerre in Iraq e in Afghanistan, nonché una serie di 251.000 messaggi riservati del dipartimento di Stato Usa. Il cosiddetto Cablegate svelava brutture e arcani indicibili, ivi comprese gesta italiane non commendevoli. I GIORNALI in questione, pur blasonati e interni alle élite internazionali, abbassarono la testa già nel 2011, quando le onde cominciarono ad incresparsi. E Assange fu lasciato solo, salvo l’impegno della citata Maurizi e di pochi altri. Secondo le logiche spietate della repressione, la mannaia non tardò a calare sulla testa di un perfetto capro espiatorio, del nemico pubblico costruito a tavolino. COME SI EVINCE dal testo pubblicato dal Guardian, il coraggioso navigatore dei mondi oscuri delle democrazie occidentali (Russia e Cina sono oggetto della polemica sulle libertà più agevoli e consueti) passò sul banco degli accusati. E, con somma ignominia del mondo dell’informazione che lo abbandonò per viltà, venne escogitata l’inverosimile minaccia di condanna per spionaggio in base ad una lontana legge del 1917. Quindi, non essendo riconosciuta l’appartenenza alla categoria professionale, Assange non si vide riconosciuto il trattamento pur con fatica riservato ai protagonisti dei Pentagon Papers ai tempi della guerra del Vietnam: allora il primo emendamento della Costituzione di Washington fu lo scudo salvifico, mentre il ricorso all’Espionage Act travolse ogni certezza ne e del rapporto con la ricerca della verità. Ora i quotidiani fratelli-coltelli fanno un’autocritica operosa, chiedendo alla all’amministrazione Biden di non incriminare Assange, come decise Obama per non vessare i principali organi di stampa coinvolti. In realtà, è una versione alquanto edulcorata della storia, perché i guai giudiziari cominciarono proprio in quella stagione, ancorché fosse poi l’età di Trump a precipitare verso la coercizione, per procura: grazie ai servigi della Svezia con le accuse di violenza sessuale poi ritrattate, e in virtù dell’azione poliziesca della fida Gran Bretagna. Proprio a Londra avvenne l’arresto il 12 aprile del 2019. Assange è rinchiuso nel carcere speciale di Belmarsh nel Regno unito e si stanno definendo proprio in questi giorni le procedure dell’appello contro l’estradizione oltre oceano, grazie al collegio difensivo di cui è componente la moglie avvocata Stella Morris. Sono intervenuti contro la condanna (175 anni in un apposito penitenziario) i presidenti del Brasile Lula e del Perù Pedro. Molteplici voci della cultura si sono levate a favore di Assange e numerosi comitati sono in piena attività. LA FEDERAZIONE internazionale della stampa e la gemella italiana hanno assunto come propria l’iniziativa e l’ordine dei giornalisti ha consegnato al padre John Shipton – in occasione del premio dedicato a Roberto Morrione tenutosi in ottobre a Torino- la tessera professionale ad honorem. Proprio tale riconoscimento, unito all’appello dei quotidiani, costituisce la premessa per la restituzione alle garanzie proprie del diritto di cronaca della vittima sacrificale. Insomma, se una rondine non fa primavera, un’ammissione di colpa così forte da parte di chi ha alimentato le volontà delle istituzioni colpevoli è una rottura della continuità feroce degli ultimi anni. JOE BIDEN ASCOLTERÀ? Quanto peserà sulle sue sensibilità l’orrore della guerra in Ucraina con le geopolitiche segnate dal conflitto? Troppo per un’immediata decisione. Tuttavia, all’establishment democratico non è certamente sfuggita la morale delle recenti elezioni di midterm: se si vuole frenare la parabola della destra repubblicana, qualche segnale dovrà pure uscire dalla Casa Bianca. A proposito, ma la Repubblica si associa o no ai vecchi compagni di ventura?
Il diritto a migrare è sancito dalla Dichiarazione Universale dei diritti
umani. Tuttavia, questo diritto è limitato da un’asimmetria che riguarda il
riconoscimento del diritto alla libertà di movimento e le leggi che gli Stati
impongono sull’immigrazione. L’emergenzializzazione delle migrazioni infatti,
non solo è un fenomeno che, soprattutto a livello politico e mediatico,
contribuisce a una visione distorta delle stesse ma non arriva ai punti
cruciali della questione che vanno dalle ragioni dietro alle quali le persone
decidono di andarsene dal proprio Paese al numero esiguo di vie legali che
queste persone possono scegliere di prendere.
Risulta ormai evidente che l’approccio che gli Stati Membri dell’Unione
Europea (UE) adottano nei confronti di coloro che attraversano le frontiere sia
basato sul securitarismo: la
creazione di muri sui confini; la riduzione dei canali di ingresso sicuri per lo spostamento di persone
provenienti da Paesi terzi; l’adozione di metodi coercitivi – come la detenzione
amministrativa o l’utilizzo della sorveglianza biometrica − il rimpatrio forzato, il respingimento
sistematico di persone alla frontiera, in violazione degli obblighi
internazionali in materia di diritti umani − che, a differenza della
Dichiarazione sopra menzionata, sono vincolanti. L’ultimo Action Plan sul
Mediterraneo 1 presentato dalla
Commissione Europea, per esempio, non propone un nuovo approccio alle
migrazioni. Si tratta di un piano di 20 misure destinate a colpire “l’immigrazione
irregolare” e, nonostante all’interno siano previste anche misure volte
all’implementazione della “solidarietà volontaria tra Stati” nella gestione
delle migrazioni e dei soccorsi in mare, non mancano riferimenti al
rafforzamento della cooperazione con Paesi quali la Libia, la
Tunisia e l’Egitto per il controllo delle frontiere – con uno
stanziamento di 580milioni di euro.
Non c’è quindi alcuna intenzione di allontanarsi da quell’esternalizzazione
delle frontiere che da più parti nell’ambito dei diritti umani, dal mondo
accademico a quello giuridico, è stata ampiamente sviscerata per dimostrarne
l’incompatibilità con il rispetto dei diritti delle persone migranti che
vengono sistematicamente respinte o catturate dalle milizie o dalle guardie
costiere dei Paesi terzi in questione. Sul caso della Libia, ad esempio, le violenze
e gli abusi sistematici 2 che avvengono
nei centri di detenzione in cui vengono rinchiuse persone adulte e minori –
catturate in mare per impedirne la partenza oppure all’arrivo, come
ultima tappa del loro percorso migratorio – sono ormai note da
tempo e denunciate dalle maggiori organizzazioni internazionali di tutto il
mondo. Tuttavia, il Memorandum d’Intesa stipulato dall’Italia nel 2017, e che è
stato recentemente rinnovato, continua a essere annoverato tra i modelli di
gestione delle migrazioni, con politiche sempre più discriminatorie ed
escludenti.
Quando nasce l’ennesimo dibattito mediatico e politico sull’immigrazione,
tutto viene ridotto a una polarizzazione priva di complessità e approfondimento
sulla mobilità umana, gli effetti che le leggi vigenti nel Paese di arrivo
hanno sulle persone migranti e una riflessione sulla quantità di vie che sono
effettivamente percorribili per chi decide di affrontare il viaggio verso
l’Europa. A questo proposito occorre porsi la domanda sulla motivazione per cui
una persona proveniente dalla Nigeria o dal Ghana che non necessariamente fugge
da una particolare situazione di instabilità o guerra, sia comunque costretta
ad affrontare un lungo viaggio in cui le probabilità di rischiare la vita sono
alte.
Quali e quante sono le vie legali per
entrare in UE?
Uno dei problemi principali è che la richiesta di asilo è diventata, di
fatto, l’unica via legale realmente percorribile per potersi spostare,
considerando lo scarso numero i visti di ingresso rilasciati. Infatti l’Italia,
oltre a chiudere i porti, chiude anche gli aeroporti: secondo una ricerca effettuata dal Tortuga Think Tank nel 2019, per i Paesi dell’Africa
occidentale come Senegal, Costa d’Avorio, Nigeria e Ghana il numero di visti
rilasciati è molto basso. Il tasso di rifiuto del visto in Italia è passato dal
10% nel 2010 al 22,5% nel 2017. A ciò si aggiunge la disuguaglianza abissale
che separa i passaporti di serie A di Paesi occidentali e ricchi (come
Stati Uniti e Paesi UE) e i passaporti di serie B del Sud del mondo, come viene
ampiamente dimostrato dal Global Passport Power
Rank.
Chi ha un passaporto tedesco, ad esempio, ha accesso al diritto alla
libertà di movimento – senza necessità di chiedere un visto – verso molti più
Paesi rispetto a chi ha un passaporto tunisino o pakistano. Un esempio recente
su questa disuguaglianza di viaggio è stato il rifiuto quasi sistematico di rilasciare un visto di ingresso
ai familiari di Alika Ogorchukwu, ottenuto dopo due mesi dal suo assassinio a
Civitanova Marche. I funerali sono stati più volte posticipati per via del muro
burocratico che non permetteva ai familiari di raggiungere l’Italia.
Senza visti da ottenere e una richiesta di asilo che con ogni probabilità
verrà rigettata – specie se nel proprio Paese di origine non vi è alcuna guerra
o non si è perseguitati – le alternative sono sostanzialmente due: la Carta Blu
UE e il ricongiungimento familiare. Ottenere la Carta Blu UE per accedere allo
spazio Schengen è strettamente legato a un privilegio di tipo economico in
quanto riguarda unicamente lavoratori e lavoratrici altamente qualificati che,
almeno fino a maggio 2021, dovevano presentare un contratto di almeno 12 mesi.
Con “altamente qualificata” si intende una persona che, ad esempio
per il caso italiano, svolge il lavoro di: dirigente, legislatore,
imprenditore, professionista del settore scientifico e ingegneristico. Con una
recente riforma della Commissione Europea, la soglia salariale per i
richiedenti è stata ridotta da un minimo del 100% fino al limite massimo del
160% del salario medio annuo lordo dello Stato membro di arrivo (rispetto al
precedente 150% minimo senza limite massimo), e il contratto da presentare è
ora di 6 mesi.
Nonostante l’approvazione della riforma sulla Carta Blu – con requisiti
leggermente meno stringenti – un membro del gruppo europarlamentare dei
Socialisti e Democratici ha affermato che è necessario un allargamento anche nei confronti di persone che
non necessariamente ricadono nella categoria di “altamente qualificato”.
Tuttavia, finora la Carta Blu si è confermata la via legale meno utilizzata:
nel 2019 solo l’1,6% dei permessi di soggiorno rilasciati a cittadini di Paesi Terzi
rientravano nell’ambito della direttiva della Carta Blu; nel 2020, secondo
i dati Eurostat, solo 12 mila lavoratori extra UE altamente qualificati hanno ricevuto una
Carta blu UE.
Il ricongiungimento familiare è un secondo percorso legale che consente
alle persone immigrate già residenti nell’UE di portare i loro coniugi e figli.
Ogni Stato membro ha le proprie norme in materia ricongiungimento e riguardano
l’età dei coniugi e dei figli, il salario del partner o genitore ospitante, le
condizioni di vita e assicurazione. Anche se il ricongiungimento rimane una via
importante in particolare per i rifugiati che cercano di riunire le loro
famiglie dopo essere state separate a causa di persecuzioni o conflitti nel
loro paese di origine, non è abbastanza inclusiva perché, ovviamente, per
accedere a questa misura ogni singolo migrante deve avere la fortuna di avere
un parente o un partner che risiede in uno Stato membro dell’UE.
Il caso italiano: l’ingresso per lavoro
Le attuali politiche migratorie in Italia che riguardano l’ingresso per
lavoro sono regolate dalla legge Bossi-Fini del 2002. Anche in questo caso è
possibile parlare di politiche fallimentari che di fatto hanno peggiorato le
condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici migranti, costringendole a vivere
in un limbo di irregolarità e sfruttamento.
La Bossi-Fini fu creata proprio per vincolare il permesso di soggiorno a un
contratto di lavoro, eliminando la figura dello “sponsor”, un metodo
che, prima dell’adozione di questa legge, permetteva alla persona di origine
straniera di entrare legalmente in Italia con un visto per cercare lavoro
grazie alle garanzie economiche offerte da un familiare, un conoscente o un
altro garante. Questo strumento però è stato abolito. Come spiega l’avvocato Livio Neri dell’Associazione per gli Studi Giuridici per
l’Immigrazione (ASGI):
Occorre superare i punti critici, uscendo dalla stretta connessione tra
soggiorno e lavoro, riabilitando quell’intuizione intelligente della
sponsorizzazione, sanando l’irregolarità che è stata prodotta in questi anni
non con provvedimenti di emersione spot, che sono totalmente zoppi, ma con
meccanismi che portino le persone integrate nel tessuto sociale alla ‘luce’.
Questa legge ha poi in sé un paradosso: la persona straniera che
desidera ottenere il permesso di soggiorno per lavoro è tenuta a restare
nel proprio Paese di origine fino alla conclusione
della lunga procedura di ingresso, “non
essendo ammissibile la richiesta di
assunzione presentata nei confronti di un soggetto che già si
trovi in Italia”, spiega William Chiaromonte, ricercatore di Diritto del
Lavoro, nel libro “Ius Migrandi”.
Inoltre, continua Chiaromonte, questo si scontra con il fatto
che “la procedura tipica di assunzione
si fonda sul meccanismo della chiamata nominativa, la quale ovviamente
presuppone che il datore di lavoro
abbia già una conoscenza diretta dello
straniero, nonostante che – è bene
ribadirlo – questi debba necessariamente
ancora trovarsi all’estero”.
Nella pratica, infatti, è molto frequente che la persona
straniera faccia ingresso tramite vie informali in Italia
nella speranza di regolarizzarsi nel corso del tempo. Quando però il numero di
lavoratori e lavoratrici straniere che riempiono le sacche del lavoro sommerso
non è più ignorabile, si procede con le regolarizzazioni (o “sanatorie”). L’ultima, promossa dall’ex ministra
dell’agricoltura Teresa Bellanova del governo Conte, continua ad essere
un insuccesso visti i ritardi della burocrazia e l’esclusione di diverse categorie
lavorative per cui lavoratori e lavoratrici straniere continuano a vivere nella
precarietà, senza documenti e contratti validi. «Le regolarizzazioni stesse», scrive l’avvocato Gianfranco Schiavone di ASGI «pur inevitabili, hanno
rafforzato un sistema malato e crudele in ragione della scelta che ha quasi
sempre caratterizzato tali provvedimenti ovvero quella di basarsi sulla sola
volontà del datore di lavoro di fare emergere o meno il rapporto di lavoro
irregolare». Di conseguenza, anche in questo caso, il lavoratore o la
lavoratrice straniera diventano soggetti passivi e senza diritti effettivamente
riconosciuti.
Conclusioni
Possiamo riassumere il tutto dicendo che ci troviamo di fronte a un
razzismo istituzionale che va dalla disuguaglianza sistemica nel diritto alla
libertà di movimento alle leggi che poi ogni stato membro dell’UE – che
assume i connotati di una vera e propria fortezza – adotta in materia di
immigrazione.
Innanzitutto il presupposto errato più importante è la convinzione che i
confini d’Europa possano e debbano essere chiusi ai cosiddetti “migranti
economici”. È questa convinzione che ha reso quasi impossibile per molte
persone provenienti dai Paesi del continente Africano, ad esempio, emigrare
legalmente verso la maggior parte dei paesi europei. Sono necessarie politiche
di apertura, offrendo un ampio allargamento delle politiche sui visti,
annullando politiche migratorie restrittive e illegali (come
l’esternalizzazione delle frontiere e i respingimenti sistematici). ll diritto
a migrare può essere garantito solo con una seria attuazione della tutela dei
diritti umani dei migranti, tenendo anche in considerazione il diritto di
scegliere il proprio percorso. Come spiega Nazzarena Zorzella, avvocata di ASGI, su Altreconomia, sul caso
italiano:
Negli ultimi vent’anni e oltre le persone straniere in Italia non hanno
avuto il diritto di scegliere in quale percorso amministrativo e giuridico
immettersi per il diritto di soggiorno e di residenza in Italia. Aver negato
l’esistenza di visti per ricerca di lavoro con un tempo ragionevole […] ha
costretto tante persone non solo ad affidarsi ai trafficanti ma anche a entrare
nel sistema della protezione internazionale.
Il sistema di protezione internazionale però, come abbiamo visto, viene
applicato alle fattispecie che rientrano nella Convenzione di Ginevra delle
Nazioni Unite sui rifugiati. Chi intraprende un viaggio per questioni
socio-economiche – tenuto conto delle innumerevoli variabili del percorso che
comportano la detenzione in Libia o cadere nel circuito della tratta di esseri
umani – non rientra in quelle fattispecie.
A oggi, non vi è quindi alcun percorso legale alternativo che sia
effettivamente praticabile per le persone che provengono dal Sud del mondo.
Infine, sulle politiche interne dell’Italia, persone come Omar Baldeh, Soumaila
Sako, Mohammed Ben Ali, Becky Moses e molte altre decedute o/e sfruttate nei
ghetti per braccianti, e non solo, non sono “effetti collaterali” ma
conseguenze di un sistema profondamente diseguale e strutturalmente discriminatorio
basato su leggi che, di fatto, criminalizzano, escludono e penalizzano le
persone migranti.
Occorre non solo uno stravolgimento del dibattito sulle migrazioni – che
non può concentrarsi solo sugli sbarchi – ma anche un modo innovativo e radicalmente
diverso di concepire la mobilità umana che non deve essere un privilegio per
pochi.
* Dottoressa in Relazioni Internazionali. Contributor freelance che si
occupa di migrazioni, razzismo e cittadinanza.
Qualche giorno fa è scomparsa Hebe de Bonafini, una madre che ha
trasformato la sua vita in pietra di inciampo per i collusi con la dittatura
argentina. A fine anni ‘90 la intervistai per un programma televisivo che
andava in onda nel cuore della notte, ma che mi lasciava molto tempo a
disposizione per affrontare la complessità delle persone che hanno segnato
un’epoca. Non fu un’intervista facile davanti a questa donna argentina con un
carico di dolore immenso.
Le Madri di Plaza de Mayo davanti alla Casa Rosada sono una delle immagini
più angosciose del secolo scorso per chi ha una vera coscienza democratica. Fu
dal 30 aprile 1977, da quando una feroce dittatura sottrasse loro e mai più
restituiti un figlio, un nipote, un fratello, che queste donne si riunivano ogni
giovedì della settimana. Donne che volevano sapere che fine avevano fatto i
loro cari e che questo atto più crudele di un assassinio dichiarato sia rimasto
impunito anche con il ritorno della democrazia.
Con il ritorno e il fallimento di Peron e del suo regime, con l’uscita di
scena di Isabel Peron prese il potere Videla il capo dell’Esercito che,
insediandosi alla Casa Rosada, fece scattare, lo stesso giorno in una
repressione selvaggia, una dittatura sanguinaria durata 7 anni. Le forze di
repressione arrivavano, bloccavano il traffico, creavano una zona proibita, poi
arrestavano o torturavano. I vicini tenevano la radio accesa per non sentire le
urla. Si seppe ben presto che i desaparecidos erano più di 30mila, due
generazioni di ragazzi. Spesso era sufficiente il numero di telefono trovato
sull’agenda di un compagno di scuola per condannarli al nulla: “Non pianga
signora, lo prendiamo per interrogarlo, poi glielo rendiamo” erano soliti dire.
I due figli di Hebe de Bonafini non gliel’hanno più resi:
“I miei figli sono in Africa, in America Latina, ovunque stiano lottando.
Loro sono tutti miei figli. Non importa i loro nomi, tutti lottavano e volevano
la stessa cosa. Io li ricordo sempre allegri, ricordo i loro canti, i sogni, le
loro speranze, quelle risate, quel “ciao mamma” la mattina, quel “come stai”?
Eravamo una famiglia molto allegra. Mio figlio Jorge lo presero a casa, all’una
del pomeriggio. La scomparsa è una cosa orribile: non si trova da nessuna
parte. Io ho sperato per molto tempo, sapevo che qualcuno era nei campi di
concentramento. In Argentina ce n’erano più di 300. Lasciavamo sempre la casa
aperta, ma poco a poco abbiamo preso coscienza che non sarebbe più ritornato
nessuno perché la repressione era brutale e gli assassini non erano soli, erano
appoggiati da parte della Chiesa, dai grandi imprenditori. L’abbiamo saputo
poco a poco, non ce ne rendevamo conto, non capivamo, sbattevamo la testa al
muro, non sapevamo cosa succedeva, ma poi lo abbiamo saputo con tanto dolore.
Quando è sparito Raul, il mio secondo figlio, non avevo ancora perso la
speranza, anche se due giorni dopo si presero pure le mogli e alcune madri, tre
tra cui Azucena Villaflor, nel ’77, la fondatrice delle Madri di Plaza de Mayo.
Lei, con alcune di noi, aveva firmato un esposto rivolto a Videla dove c’era un
elenco di tutte le persone scomparse. Un giornale di destra lo pubblicò,
ovviamente a pagamento e quando Azucena andò a comprare il giornale, la
sequestrarono e non la vedemmo più. Volevano distruggere il Movimento. Abbiamo
discusso molto se continuare a uscire nelle piazze o restare a casa, ma dato
che continuavano a sequestrare i nostri figli, era difficile stare con le mani
in mano. Il movimento è nato quando scomparve il primo figlio, ma il 30 aprile
del ‘77 con quell’esposto, nacque l’attività politica del Movimento stesso”.
Italo Moretti e Arrigo Levi furono i giornalisti di punta della Rai che
avevano realizzato dossier su quanto avveniva in Argentina: raccontavano di
giovani donne incinte fatte partorire in ospedale e case di cura e subito dopo
riportate nelle tanti prigioni clandestine che Esercito, Marina, Aviazione e
Esercito federale avevano allestito negli anni della repressione. Si sa che
molti bambini furono dati in adozione a molte famiglie di militari in una sorta
di meccanismo perverso. Arrigo Levi, per capire la loro logica, intervistò nel
’90 il generale Domingo Bussi che spiegò: “Noi affrontammo la guerra,
l’aggressione marxista su due fronti contemporaneamente: quello militare e
quello politico. Miravamo cioè alle cause della sovversione, così abbiamo fatto
nella regione di Tucuman che era stata scelta dai delinquenti marxisti
leninisti come epicentro della loro azione e abbiamo vinto. Del resto abbiamo
usato gli stessi metodi che personalmente ho visto applicati in Vietnam.
Bisogna capire una cosa: il successo in una guerra va a chi compie maggiori
violenze, chi fa più morti ha più possibilità di vincere. Parlare di eccessi
non ha perciò senso, noi d’altronde siamo incapaci, anche per la nostra formazione
cristiana, di superare certi limiti morali”. E il governo Menem all’epoca
scelse proprio Bussi come governatore della provincia di Tucuman ed è per
questo che Hebe de Bonafini si è sempre considerata dura e implacabile contro
di loro e contro chi si è voltato dall’altra parte ho ha accettato compromessi.
Guadagnarono l’attenzione della stampa mondiale quando decisero di andare a
parlare con un funzionario americano e quel giorno occuparono la piazza. I
militari volevano convincerle a non andare, non volevano che l’Argentina
facesse una brutta figura, e invece, in venti, si aggrapparono a un palo della
luce e rimasero lì, accerchiate dagli uomini in divisa. Uno urlò: “puntate!” e
le Madri gridarono insieme: “fuoco!”.
In quell’urlo di disperazione i media si resero finalmente conto che cosa era
la repressione in Argentina. La stampa cominciò così a proteggere le loro vite.
Il loro primo copricapo è stato un pannolino, poi un vero e proprio fazzoletto
bianco con il nome dei propri figli, fino ad arrivare alla scritta “Aparicion
con vida”. Erano diventate, con quella scritta, le madri di tutti, non solo dei
loro figli. Molte di loro si sono ammalate, altre hanno trasformato il dolore
in lotta: “E’ difficile ma non impossibile. Questo ci ha fatto sentire più forti
e più unite e siamo madri radicalizzate perché riconosciamo i nostri figli come
rivoluzionari. Con il tempo li abbiamo capiti meglio, più profondamente,
sapevamo cosa volevano, perché lottavano, perché amavano il loro prossimo. Le
mamme che sono rimaste nell’associazione sono quelle che hanno capito cosa i
nostri figli volevano insegnarci. Noi veniamo da famiglie comuni, ma a volte
molto egoiste, individualiste. Mio figlio mi diceva: “No mamma, bisogna
condividere tutto quello che abbiamo, bisogna dare il meglio che abbiamo, il
migliore letto, il mio cibo, il miglior vestito”. Quando uno impara ad
ascoltare i propri figli, soprattutto dopo queste atrocità, mi dico no, non
posso essere egoista, non posso lottare solo per mio figlio, non posso andare
per strada solo in suo nome, mio figlio deve essere tutti. Ogni figlio
rappresenta gli altri, i bambini di strada e quelli morti di fame o per
malattia, i disoccupati, i diseredati e questo per una madre ha un valore
enorme e riuscirci è molto importante”.
Più di mille giovedì alle 15,30, con il sole più spietato o le piogge più
fredde, le madri sono andate in piazza affrontando il carcere, i pestaggi dei
militari e il cinismo dei loro complici. Qualcuno ha detto: “Tempo di carnefici
come Suárez Mason, Astiz, Masera, Videla, tempo di prigionieri lanciati vivi
nei mari o bruciati nei pozzi profondi, tempo di intellettuali ipocriti che
serbarono il silenzio finché non arrivò il tempo della democrazia, di medici
che assistevano alla tortura e di sacerdoti che chiedevano collaborazione ai
prigionieri”. Era come se l’Argentina, in quel periodo, era entrata in un
girone dell’inferno: “Ma i nostri figli hanno sofferto di più, la cosa più
tragica l’hanno subìta loro, perché speravano di trasformare l’oppressione e il
dolore di un popolo in un mondo solidale e più giusto. Questo era quello che
volevano e noi abbiamo innalzato le loro bandiere. E quando abbiamo un’idea
chiara come la nostra, non importa il tempo o in quale mondo staremo, però
l’assassino deve essere chiamato assassino e il complice, complice. Le denunce
che abbiamo sempre fatto sono contro la politica sindacale, le imprese, i
politici che furono complici, contro i militari che si prepararono in America
Latina per reprime opprimere e annientare l’oppositore politico, essi stessi
servi del sistema capitalista che non perdona il popolo che resiste, si
ribella, che non vuole più essere povero e emarginato.
Ci sono molti figli dei nostri figli scomparsi che si sono riuniti in
un’organizzazione per lottare, Hijos (por la Identidad y la Justicia contra el
Olvido y el Silencio) nata nel 1995, e che, come noi mamme, stanno cercando di
rivendicare i loro genitori e si sono inventati, come metodo di lotta, lo
“sputtanamento”, l’hescrache. Organizzano manifestazioni che si fermano proprio
davanti alle porte degli assassini rimasti impuniti, lì davanti vengono lette
le accuse ad essi rivolte, oppure vengono diffuse in tutto il quartiere tramite
l’affissione di manifesti. Lo scopo è quello non solo di sopperire alle mancanze
della giustizia, ma anche quello di avvertire i vicini che un uomo del ex
regime vive tra loro e quindi che si senta in una prigione grande quanto tutta
l’Argentina, una prigione fatta del disprezzo e della condanna di tutta la
società (1).
Oggi siamo felici che i nipoti stiano bene, e siamo tristi quando vediamo che
alcuni figli vogliono stare nelle famiglie adottive, ma le Mamme, noi, abbiamo
una posizione diversa rispetto alle Nonne, che lavorano con il governo di
Menem. Noi pensiamo che i figli, una volta cresciuti come esseri umani, hanno
diritto di scegliere, anche se sarà doloroso per noi. Il fatto è che sono stati
molto esposti, tirati di qua e di là. Sono feriti, quasi nudi e si sono
ribellati a una disgrazia nella disgrazia più grande di loro. Bisogna dare loro
tempo per scegliere e sono convinta che se si dà loro del tempo, faranno la
scelta giusta.”
Hanno detto di lei che era una donna esagerata, maleducata, che ha usato
parole di disprezzo contro la Chiesa e il Papa di allora, Giovanni Paolo II:
“Inizialmente decidemmo di riunirci in chiesa e pregare, ma ci spegnevano le
luci e ci cacciavano. Alcuni preti non ci volevano. Non avevano paura, no,
erano complici, perché quando i militari ci correvano dietro, tentavamo di
rifugiarci nella cattedrale, ma il vescovo di allora faceva chiamare la polizia
perché ci cacciasse via. Da quel luogo ci hanno portate via e arrestate molte
volte. Se noi chiedevamo una messa per i defunti la dicevano, ma per i
desaparecidos non hanno mai accettato di dirla, perché se la Chiesa avesse
detto messa per i nostri figli scomparsi avrebbe riconosciuto quello che ha
sempre negato. Quando andavamo per aiuto e per un po’ di pietà, i preti ci
“rassicuravano” con le stesse parole offensive dei militari e cioè che i nostri
figli erano andati a spasso con le donne o scappati da casa. Pio Laghi era il
nunzio apostolico di allora, il delegato del papa e sapeva tutto. Molti hanno
tentato di giustificare parte del clero, c’è chi ha detto che è stato ordinato
loro di comportarsi in questa maniera, in realtà, sapevano benissimo cosa
succedeva e hanno permesso che tutto avesse luogo”.
Hebe de Bonafini, la Madre di Plaza de Mayo, la pazza, come la chiamavano in
troppi, la dura e l’implacabile come si è autodefinita, ma in realtà è stata
una donna carica di sdegno e decisa a non accettare nessun compromesso per i
troppi scomparsi che lei, nella sua vita, ha voluto ricordare e difendere
dall’oblio e dalla ingiustizia per l’indulto, e l’impunità di cui hanno goduto
in troppi: “I diritti umani si violano non solo quando si viene torturati, ma
quando si perde il lavoro, quando si perde la casa, quando si vive emarginato,
quando non c’è istruzione, quando aumenta l’analfabetismo, la povertà. Angela
Boitano, che ha pure testimoniato al processo di Roma contro militari
responsabili di sequestri, torture e uccisioni di cittadini italiani, si è
allontanata dal movimento perché ha accettato il risarcimento economico del
governo Menem. Noi abbiamo sempre la stessa linea: “aparicion con vida”, non abbiamo
cambiato, non possiamo negoziare la vita, non possiamo contrattare il sangue
con un governo che parla di impunità e di perdono e poi paga 100mila dollari
per ogni desaparecido. Noi abbiamo detto no. Speriamo sempre che gli assassini
possano essere condannati, senza però fare la lotta per l’indennizzo in denaro.
A me pare profondamente giusto condannare gli assassini, la giustizia è un
messaggio molto forte per un popolo, ma è triste che le stesse persone che
chiedono giustizia poi chiedano un indennizzo economico. Noi Madri ci siamo
separate come Movimento su questo tema: chi pensa che la vita di qualcuno vale
denaro, chi invece pensa che invece vale vita perché loro l’hanno data per un
popolo.”
Il 1985 in Argentina è stato l’anno dei processi che si fecero secondo il
codice di giustizia militare nei tribunali civili senza l’assassino sul banco
degli imputati. La legge “Punto final” sancì la prescrizione di ogni azione
penale per i reati commessi dai membri del regime, mentre la legge di
“Obediencia debida” scagionò tutti i militari che avevano commesso delitti
durante la dittatura per il fatto che stavano ubbidendo a ordini ai quali non
potevano opporsi. Hebe de Bonafini, sdegnata, in quel processo le fu richiesto
di levarsi il suo fazzoletto dalla testa, e lei, prima di ritirarsi dal
processo sdegnata, disse: “Perché non fate levare il cappello ai militari?
Questo fazzoletto bianco sarà l’unica condanna in questo processo”.
Hebe de Bonafini non si è mai data pace, c’era in lei uno sdegno profondo che non
si era mai sopito: “Ho molti momenti di serenità, quando sono con i miei figli
che amo molto, quando sono con mia madre; a volte ci incontriamo con altre
madri a casa, chiacchieriamo ma, per quando riguarda la politica e
l’ingiustizia permanente e costante di questo mondo allora mi ribello. Non la
tollero, non la sopporto. Non ho nessun rimedio se non diventare dura e
implacabile, come dicono in tanti, però ci sono momenti di pace. Momenti molto
teneri. I più bei momenti della mia vita, i più dolci, i più grandi li vivo con
i miei figli adesso e li ho vissuti con i miei figli prima. E questo che mi dà
la forza e mi dà l’amore verso gli altri. Quando si amano molto gli altri che
soffrono bisogna essere implacabili e duri, non si può accettare nessun compromesso.
Altrimenti tutto diventa mediocre”.
fonti citate:
1) Mariana E. Califano, “Escrache, resistenza non violenta nell'Argentina del
dopo terrorismo di Stato”, Storicamente 1 (2005) , nr. articolo 65. http://dx.doi.org/10.1473/stor294
Il libro spiega cosa è la letteratura working
class, nella quale la classe lavoratrice (quella dei lavori umili e malpagati),
non solo è oggetto delle narrazioni, ma anche il soggetto che narra fa parte
della working class (almeno come provenienza).
Molte volte sono i primi che hanno "studiato", cioè al contrario dei loro padri sono andati a scuola o anche all'università - come Alberto Prunetti, Francesco Guccini nell'Avvelenata, e tanti dagli anni ’60 - a raccontarsi e sentirsi orgogliosi della loro famiglia working class.
Studiare era possibile con borse di studio, case
dello studente, pasti in mensa a 350 lire, finanziati con l’accumulazione di
risorse del miracolo economico, prodotto dallo sfruttamento dei lavoratori,
che, grazie alle lotte operaie, sopratutto dagli anni sessanta agli anni
ottanta, ha migliorato le condizioni economiche dei lavoratori e delle loro
famiglie.
Alberto Prunetti affronta poi il problema delle case
editrici e dell’industria culturale, che contribuiscono a formare l’immaginario
delle persone. In quelle stanze la working class è vista come oggetto delle
storie, magari un po’ strappalacrime, raramente il punto di vista dei
lavoratori e delle lavoratrici manca, d’altronde chi lavora in quelle stanze,
se pure, per caso, è di provenienza working class, si tratta di intellettuali
che per essere accettati si vergognano delle loro origini e le rinnegano.
Alberto descrive lo stato della letteratura
working class in Italia, in Francia e in Gran Bretagna.
La Gran Bretagna è la maestra della letteratura
working class, l’autore lo dimostra con ricchezza di argomenti e titoli di
romanzi di lingua inglese, e anche la Francia ha tanto da insegnare a chi
volesse imparare qualcosa della scrittura working class.
Infine Alberto racconta di un recente viaggio a
Bristol, città nella quale ha pulito cessi (scusate, era un toilet cleaner)
qualche decennio prima.
Altre due cose sono importanti nel libro, la
visione di un documentario di Jean-Gabriel Périot, intitolato Retour à Reims (Fragments),quiuna recensione del film,
e il ritratto
coinvolgente di Joseph Ponthus, morto a soli 42 anni, autore di un libro
impossibile da non leggere, Alla Linea.
Il libro si
conclude con una ricca e necessaria bibliografia sulle scritture working class.*
Una lettura che non annoia mai, un saggio che
fila come un romanzo, promesso.
Ricordo una storia vera, ma non ritrovo chi e
quando: ai tempi dei governi del criminale di guerra Tony Blair, abusivamente laburista,
quando furono introdotte o aumentate di molto le tasse universitarie, un
ministro o parlamentare laburista si dimise perché, disse, lui, figlio di
operaio, aveva potuto studiare solo grazie alla gratuità dell’istruzione
universitaria, e non poteva votare una schifezza così.
Un vero politico working class, no?
*La bibliografia è ricchissima, mi viene in mente
un libro che Alberto non cita, Padre padrone di Gavino Ledda, chissà se ci sta
bene nella sua lista.
e un poeta operaio cinese, QUI le poesie di Xu Lizhi (1990-2014)
Tralasciando il cinema inglese e
francese (solo per non appesantire la lista), ecco otto film, più uno, working
class (in varie accezioni) che arrivano dagli Usa, ma non solo:
…Con
questo libro, Alberto Prunetti propone un gesto di verità, consapevole del
fatto che “l’intellettuale
è sempre al bivio tra solitudine e allineamento”, perché finalmente in un testo si mette a nudo
tutto il classismo che aleggia dietro e dentro il mondo del libro. In forma
anfibia, tra indagine sulla letteratura working class, analisi dell’industria
editoriale, racconto in prima persona (“saltando dalla padella alla brace ero
finito a fare il cleaner e il magazziniere a Bristol, senza prendere nessun ascensore
sociale”) e critica letteraria, Prunetti sviluppa il nocciolo concettuale
racchiuso in una nota stilettata di Audre Lorde: “una stanza tutta per sé sarà
pure un requisito per scrivere prosa, ma altrettanto necessarie sono risme di
carta, una macchina da scrivere e grandi quantità di tempo”.
Si
tratta di riconoscere dunque che chi dispone di tempo – per formarsi, leggere,
e scrivere di sé – può farlo solo perché qualcun altro non può (“Loro
inventano mondi perché siamo noi a pulire i loro piatti”); e chi del tempo viene derubato sembrerebbe
destinato a fare la sua vita senza passare dal via dell’autorappresentazione:
Persone che non riescono a raccontare la propria storia
perché troppo occupate a fare tre lavori […] Persone che puliscono le case
delle persone che scrivono libri o che pubblicano libri.
E
se chi ha il tempo di scrivere parla del proprio ambiente, chi si prenderà
l’incarico di mettere giù le storie di quelle persone che non hanno tempo? È
piuttosto probabile che la mancanza di rappresentazione di alcune istanze
sociali allontani chi in quelle condizioni ci vive quotidianamente, e se, per
quanto riguarda le questioni di “genere” e “razza” comincia a essere pacifica
l’idea che dentro un libro o una serie tv il primato del protagonista maschio
bianco eterosessuale è in crisi, non la stessa attenzione viene concessa alle
storie working class. E non perché un asse di oppressione debba prevalere sugli
altri: “Mettendo race e gender contro class,
si corre il rischio di far passare l’idea che la working class sia solo bianca
e maschile”: basta guardare alla composizione tanto dei ceti creativi e
culturali oggi quanto dei settori cosiddetti a basso valore aggiunto per
rendersi conto di quanto razza e genere siano fondamentali; il lavoro sfruttato
si è “femminilizzato” ed “etnizzato” e bisogna tenere insieme tutte e tre le
dimensioni se si vuole dar conto delle condizioni della classe lavoratrice
odierna…
…“È working class la scrittura che ruota attorno al
tema del lavoro, salariato o domestico, e di una accurata, ma non
necessariamente realistica, rappresentazione della vita working class, della
sua cultura e resistenza al potere”, scritta dall’”interno”, meglio da chi non
vuole uscire dalla miseria individualmente, “lasciando gli altri indietro, a
salvarsi il culo da soli: vogliamo combattere la miseria e lo sfruttamento e
‘sortirne tutti insieme, che è la politica’, contro il privilegio, che è
‘sortirne da soli’”. I capitoli hanno densità e pregnanza, cognizione e rigore,
che sorprendono. Dialogano con ricerche affini, come quella di Valerio
Evangelisti e dei Wu Ming (interessante la dialettica con il volumetto
sulla New Italian Epic*, che ormai ha oltre quindici anni).
Hanno come bussola L’orda d’oro, di
Nanni Balestrini e Primo Moroni. È un libro per tutti, benché in alcuni
capitoli si parli di teorie letterarie, anche perché è scritto volutamente
rispettando il “test del babbo” e la lezione del metodo della scuola di
Barbiana. È un libro che sa alternare racconto e saggio. E riesce a rendere il
libro avvincente. Che definizione, avvincente, per un saggio! Ma è proprio
così. Se anche la “bibliografia (o inventario dell’armadio delle scritture
working class)” finale è utilissima, è necessario segnalare le appendici: il
bruciante “Piccolo manifesto personale di scrittura working class” e gli
importanti dialoghi con tre scrittori: Anelli Jordhal, svedese; Kike Ferrari,
argentino; Anthony Cartwright, britannico; che dimostrano l’estensione
planetaria della nuova sensibilità working class e la “causa comune che
accorcia le distanze”…
Chiudo questa appendice con tre
consigli per aspiranti scrittrici e scrittori working class. Lasciano il tempo
che trovano e non prendetemi per il grillo parlante. Se non vi convincono,
tirateli ai maiali. Prima però vi racconto la storia di una scrittrice working
class americana.
Probabilmente avrete visto Maid,
la serie Netflix, ma il memoir di Stephanie Land a cui si ispira è ancora più
bello. Al contrario di quel che succede nella serie Netflix, nel racconto di
Land nessuna donna ricca ed etnicamente caratterizzata salva la protagonista.
Stephanie si fa il culo da sola e si salva con l’aiuto di qualche persona
amichevole e una borsa di studio per studenti poveri (quanto sono importanti le
borse di studio!). Al massimo dai ricchi ottiene qualche piccolo regalo,
qualche atto di gentilezza, ma sono i poveri quelli che più l’aiutano. Il
centro di assistenza per donne vittime di violenza nella serie Netflix è un
posto paradisiaco, la signora anziana e nera che lo gestisce è una figura che
offre sicurezza e la musica della colonna sonora ogni volta che lei compare
sullo schermo si eleva su un timbro quasi spirituale. Nel romanzo invece
Stephanie parla di un posto piccolo e sudicio in cui il fatto di essere povera
la espone a controlli notturni polizieschi sulle proprie urine (se sei povera
devi essere per forza anche alcolista e tossica).
Leggetelo, quel libro. Stephanie
Land racconta cosa significa essere una donna povera nell’America dei nostri
giorni. Racconta cosa significa prendersi cura delle case dei ricchi senza
riuscire ad avere una casa per sé che non sia un monolocale muffoso. Cosa
significa non poter dedicare attenzioni alla propria figlia e tirarla su da
sola perdendosi nei mille ricatti dei programmi di assistenza sociale e di
workfare. Ne esce. Come, nel libro lo capiamo poco. La solidarietà di altre
donne povere conta. L’amore per sua figlia le fa fare sforzi disumani. La
scrittura l’aiuta. Oggi è una scrittrice working class nota in tutto il mondo,
grazie soprattutto al successo della serie Maid. Ma quando era
povera se provava a leggere un libro le persone middleclass la guardavano male,
perché quelle come lei che non hanno i soldi per curare l’otite della figlia e
fanno la spesa con gli aiuti sociali non si meritano di leggere libri.
Figurarsi se possono scrivere e pubblicarli. Ecco come ricorda quei giorni:
Era come se certi membri della
società cercassero l’occasione buona per giudicare e rimproverare i poveri per
quello che, a parere loro, non si meritavano. […] Di sicuro qualcuno teneva
d’occhio quel che facevo io. A volte avevo l’impressione che lo facessero anche
in quella che doveva essere l’intimità della mia casa. […] Era come se starmene
seduta volesse dire che non stavo facendo abbastanza, la pigra beneficiaria di
sussidi pubblici che si presumeva fossi. Poltrire a leggere un libro sembrava
una concessione eccessiva; come se un tale lusso fosse riservato a un’altra
classe sociale. Io dovevo lavorare di continuo.
Stephanie scrive il suo libro
rubando le ore al sonno, piena di ibuprofene per non sentire i dolori alla
schiena causati dai turni estenuanti di pulizie di cessi. Racconta la durezza
della sua vita e quanto sono stronzi i padroni delle case che pulisce. Oggi
quel libro è un capolavoro working class. Chiamatelo anche in Italia col suo
nome. Un fottuto bestseller di letteratura working class.
Detto questo, il primo consiglio è
fare quello che ha fatto lei: leggete nonostante tutto. Leggete tantissimo.
Leggete nel bus mentre andate al lavoro. Chiudetevi nel cesso simulando una
diarrea e leggete. Leggete a lavoro se capite che stanno per licenziarvi.
Leggete sempre, prima di scrivere. Assumerete per osmosi le strutture del
racconto. E, soprattutto, leggete la letteratura working class. Nel corso degli
ultimi anni ho accumulato una serie di titoli in svariate lingue, assieme ad
alcuni saggi sulla letteratura di classe lavoratrice. Queste opere hanno
occupato un’intera libreria, che ho chiamato l’armadio dei libri working class.
Alcuni titoli li avete già incontrati nei capitoli precedenti, ma li
ritroverete tutti, insieme a molti altri, nelle prossime pagine, in cui faccio
l’inventario di quell’armadio, senza preoccuparmi troppo di discernere tra le
lingue in cui le opere sono state scritte o dividere tra saggi critici e opere
letterarie o tra monografie, riviste, antologie eccetera. Ho aggiunto alcuni
titoli che pur non essendo letteratura working class mi hanno fornito degli
attrezzi utili a scandagliare il fondo della mia ricerca. Quell’armadio è
l’impalcatura su cui ho cstruito una buona parte del mio lavoro ed è a vostra
disposizione. Prendete da lì e cominciate a leggere.
Secondo consiglio: oltre a leggere
tantissimo, dovete fare qualcosa di importante. Non credete alle stronzate
romantiche che i ricchi si sono inventati sugli scrittori poveri chiusi in una
camera d’albergo a immaginare mondi di fantasia. Cazzate. Neanche gli scrittori
fighetti di classe media stanno chiusi nella torre d’avorio a fare i vati,
ormai. Per scrivere dovete tenere il naso e il culo nel mondo. E dovrete aprirvi
al mondo. Facile a dirsi, lo so, per chi non se ne sta murato vivo in un
ristorante. Purtroppo in certi lavori il mondo non entra. Nelle cucine ad
esempio, che sono carceri coi fornelli e la lavastoviglie. Sforzatevi però di
frequentare sindacati, centri sociali, associazioni di base. Andate alle
manifestazioni, fate attivismo. Leggete i giornali. Sono cose che servono per
stare coi piedi dentro la realtà. È lì che troverete l’ingrediente che manca
alle vostre storie di fame e di rabbia. Serve il lievito della ribellione e
della solidarietà a far sollevare le nostre storie.
Detto questo, facciamo due conti:
lavorate dieci ore al giorno. E vi ho appena detto che per scrivere un libro
dovete leggere tanto, e pure fare attivismo, e ancora a scrivere non avete cominciato.
È un macello. È questa una delle ragioni per cui siamo fuori dai giochi della
narrativa. Però se riuscite a rubare ore al sonno, si può fare. Tutta questa
fatica, questa rabbia, questa dedizione vi torneranno indietro. Infine, non
vergognatevi di scrivere. Ci hanno raccontato che scrivere è roba da iniziati
(ossia da privilegiati), ma in realtà gestire una cucina in linea con trecento
persone in sala è difficile tanto quanto scrivere un racconto breve. Mandate un
qualsiasi scrittore laureato il sabato sera nella cucina di un ristorante e
getterà la spugna dopo cinque minuti. Scrivere è più facile che spedire dieci
comande in sala in tempi da cucina express. Quindi non abbattetevi e provate,
provate, provate. Scrivete non per vanità, ma per fare il culo al capo. O alla
professoressa snob che vi umiliava. O al fighetto con la villa che andava in
settimana bianca che vi bullizzava a scuola. Ce la farete. I piedi nella
realtà, il culo sulla sedia, la penna sulla carta. Dategliene secche.
Stephanie Land, mentre ancora
lavorava come donna delle pulizie, se l’era tatuato sulle dita della mano
destra: «s-o-w-r-i-t-e», «E allora scrivi», lettera per lettera, una per ogni
dito. Therry White, scrittrice working class britannica, lo dice così: «I’ve
read and heard a lot of writing advice over the years, and the only advice that
actually makes any real sense/works is just write the fucking thing». Tradotto:
scrivi quel cazzo di libro, maremmacane! E ha ragione lei: è l’unico consiglio
che conta.
Con le nostre
storie working class non vogliamo che il lettore ci venga a battere lacrimevoli
pacche sulle spalle. Niente autocommiserazione. Rappresentiamo i proletari di
rado come vittime, piuttosto come attori e protagonisti di movimenti sociali,
di un periodo storico, di cambiamenti e trasformazioni radicali. Più che
l’alienazione, raccontiamo l’orgoglio e la strafottenza di appartenere alla
working class. Al tono dolente, contrapporre l’esuberanza turbolenta dei
subalterni, di chi finalmente riesce a raccontare la propria storia senza farsi
raccontare dagli altri. Occhio però a non brandire l’abuso patito come una
clava, cercando la zona di comfort della vittima e alla fine depoliticizzando
il trauma: bisogna saper guardare ai traumi degli altri più che ai propri, per
fare scritture working class degne di questo nome.
2.
Umorismo di contrasto
Se facciamo
commuovere i lettori, non bastano le loro lacrime. Se li facciamo ridere, non è
perché vogliamo intrattenerli. Mescolare tragedia e commedia, l’umorismo e la
tensione emotiva del dramma. Usare l’ironia per ribaltare i contesti, per
smontare le pesantezze retoriche dell’ideologia, per fare il sì dov’era
il no. Quando la classe lavoratrice è raccontata dall’esterno,
emergono la tristezza, l’alienazione, la sofferenza. Dall’interno, bisogna
raccontare le zone d’ombra e quelle di luce. E non aver paura di legare gli
opposti con l’umorismo, che è il brodo di cultura popolare in cui siamo
immersi. La vita operaia è fatta di opposti e serve tutta la forza di un
saldatore per tenerli assieme. Questa è anche una tecnica di lotta. Pensate ad
Alì contro Foreman. Vi faccio venire sotto. Vi lancio un aneddoto, ridete. Vi
siete scoperti: destro d’incontro con legnata emotiva al fegato. Accusate il
colpo, incassate a fatica. Cambiate di guardia, fingo con un’altra battuta e vi
lancio a sorpresa un rapido job di sociologia: siete rimasti sguarniti da lato
del materialismo storico. Andate a terra. Se cadete knock-out, è perché siete
ancora vivi. Quel dolore è la vostra umanità.
3.
Responsabilità
Se parliamo di noi
e delle nostre famiglie, non è narcisismo. Quello che per alcuni è narcisismo,
per altri è autorappresentazione. Così le storie personali di chi sta nei coni
d’ombra della narrativa diventano storie esemplari. Se diciamo «io», non è per
culto della personalità, ma per un’assunzione di responsabilità su quel che
raccontiamo. Quando usiamo la prima persona, lo facciamo per asserire che noi
siamo dentro al racconto, dentro alla classe, al lavoro, allo sfruttamento. La
terza persona serve al narratore esterno che sceglie uno sguardo più oggettivo.
Noi però stiamo dentro all’enunciazione e all’enunciato, al racconto e al
vissuto. Solo speriamo che quella prima persona da soggettività singolare si
faccia plurale: dov’è l’io, fare il noi.
[…]
5. Meglio
le narrazioni ibride…
…che il
romanzo-romanzo. Del resto il romanzo è stata la forma espressiva in cui la
borghesia si è rappresentata, da Defoe in avanti. Ma è anche una forma
elastica, che nasce già ibrida (penso a Laurence Sterne) e che può essere usata
in forme diverse da quelle scelte dal canone letterario consolidato o anche
solo dal mainstream editoriale degli ultimi anni. Intrecciamo quindi opere di
finzione con memoir, autofiction, etnografia della classe, inchiesta operaia,
diari e materiali d’archivio. Moltiplichiamo non solo i registri e i generi ma
anche le forme dell’esposizione (descrittiva, di invettiva, poetica). E infine
diamo forza perlocutiva ai nostri scritti: usiamoli per fare cose nella realtà,
per trasformare il mondo.
[…]
8.
Mimetismo e sperimentazione
Al solito: i
borghesi possono prendersi il lusso della sperimentazione, dell’espressionismo,
del gioco formale, dell’avanguardia. Ai poveracci tocca replicare
cacofonicamente le loro sfighe. Ritengo invece che per restituire al meglio la
complessità del linguaggio e delle esperienze delle persone di classe operaia
sia necessario suonare registri distinti, dosare un complesso impasto
linguistico, ricorrere a sperimentazioni, spingere l’acceleratore del
simbolismo e dell’allegoria. Fare del testo un cantiere aperto, replicando in
narrativa il lavoro della carpenteria industriale. Bisogna ibridare, non come
un artista, ma come un saldatore che da sempre assembla strutture non omogenee
per creare architetture di carpenteria sedimentate e stratificate. Da qui deriva
anche la tensione verso l’iperrealistico, il caricaturale, il grottesco. Senza
fare i fighetti che se la menano col postmodernismo: se vogliamo essere capiti
dai pensionati del circolo Arci, dovremo allora essere pronti a tornare su una
lingua piana. Dipende cosa vogliamo dire e a chi vogliamo parlare.
Molto spesso però
il realismo rischia di diventare una catena che ci imbriglia, una zona di
confino.[i]
[…]
12. Uso
del linguaggio tecnico dell’industria
Il linguaggio
tecnico e settoriale del lavoro industriale può essere una delle
caratteristiche della narrativa working class. Contrariamente a quel che si
pensa, molti lavori operai richiedono competenze, sapere, studi: l’immagine
dell’operaio dequalificato, che compie solo mansioni semplici e frammentate, è
fuorviante. Per costruire il lessico tecnico del lavoro serve esperienza sul
campo. Faccio una semplice osservazione. Quando una persona comune, magari con
laurea, entra in un ferramenta, spesso si trova priva di parole per designare
gli oggetti. Sono tutte cose che cosando cosano. Per fortuna
l’addetto alle vendite è spesso un buon semiologo (anche se ha fatto l’Iti o il
professionale) e cercherà di tradurre quella richiesta generica in un oggetto
specifico. Al contrario, un operaio in ferramenta si trova nella propria zona
di comfort. Ogni cosa su quegli scaffali ha un nome e una misura specifici. E
lui li conosce. Adesso portiamo questa competenza linguistica dal banco della
ferramenta in narrativa. Prendiamo Inox, il romanzo di Eugenio
Raspi che racconta il lavoro nelle acciaierie di Terni. Qui il linguaggio
tecnico diventa davvero il punto di forza della narrazione. Ci sono storie operaie
che non si possono raccontare senza le parole del gergo tecnico. E questo
racconto può farlo decentemente solo un operaio.
13.
Raccontare il disastro industriale e ambientale
Bisogna anche far
convergere le lotte. E quelle operaie devono essere legate a quelle ambientali,
che a loro volta devono essere connesse alle lotte per la salute sul posto di
lavoro. La classe operaia ha lavorato a rischio per decenni. Sull’orlo della
malattia professionale e dell’incidente, sul baratro della nocività, a un passo
dal disastro industriale e ambientale. Il lavoro a rischio va raccontato fino
alle sue estreme conseguenze: dagli infortuni personali fino ai disastri
ambientali e industriali. Senza logiche vittimarie: prima che vittime, i vecchi
operai sono testimoni di un abuso patito sulla propria pelle. Da Taranto a
Bhopal, da Marcinelle a Casale Monferrato, bisogna raccontare i disastri
imposti dalle logiche del profitto alla salute e all’ambiente, bisogna mettere
sotto la lente della scrittura il lavoro nocivo e la deindustrializzazione
selvaggia che si lasciano alle spalle inquinamento e bonifiche mai realizzate.
Uno storytelling del disastro che metta assieme questioni ambientali e
questioni di classe, chiedendo la giustizia climatica accanto a quella sociale,
laddove le retoriche mainstream tendono a separare i temi per meglio
imbrigliarli, spingendo poi i lavoratori con le spalle al muro, a scegliere tra
occupazione o inquinamento. Ossia a non scegliere ma a subire politiche
industriali devastanti e fallimentari.
Tra le retoriche
che infestano il discorso pubblico, c’è quella che dipinge l’ambientalismo come
un lusso per ricchi. In realtà, le prime vittime dei disastri industriali sono
sempre le persone comuni. I poveri sono i primi a pagare la crisi climatica creata
dall’industrialismo, i cui vantaggi finiscono come profitti nelle tasche della
classe dei super-ricchi. È interesse degli operai, esposti per primi alle
nocività industriali, lottare per ottenere il pane e le rose, entrambi non
avvelenati, senza polveri sottili e benzopirene. Di qui la necessità di lottare
(e scrivere) unendo le rivendicazioni sul lavoro e quelle sull’ambiente.
Bisogna far convergere i punti di vista: unire le rivendicazioni in una
prospettiva di ambientalismo working class. […] Lo storytelling dal basso può
servire a smontare le logiche delle retoriche tossiche imposte dall’alto, che
finiscono per spingere i lavoratori a scegliere tra pane e salute: una finta
scelta, un arrocco imposto dal padrone che ha già messo sotto scacco i lavoratori
nel momento in cui distrugge i cavalli operai dell’immaginario e spinge in
avanti le torri della ristrutturazione industriale, con la classe media che fa
da peoni e i sindacati che a volte non si capisce da che parte giochino.
[i] […] Prendiamo Bryan Stanley
Johnson, l’autore di In balia di una sorte avversa. B.S. Johnson
ha tutte le carte in regola per essere un working-class hero della
letteratura: nato nelle Midlands inglesi, impegnato nel sindacato, scrive
spesso di lavoratori e di conflitti sociali con prospettive di sinistra. Pare
abbia anche un caratteraccio. Ma … ma è troppo sperimentale! Il romanzo del
1969 di B.S. Johnson gioca con le forme espressive come farebbe un autore del
Nouveau Roman: è formato da ventisette capitoli rinchiusi in una scatola il cui
ordine viene liberamente deciso dal lettore. Una cosa del genere non può averla
fatta uno sfigato o un poveraccio. La narrativa operaia deve essere inchiodata
al realismo. I proletari non possono essere modernisti, o espressionisti, o
lanciarsi nella sperimentazione avanguardistica. Lo sanno tutti: sono dei bruti
che scrivono di maschi che fanno a cornate fuori dal pub! Su Bryan Starnley
Johnson consiglio la biografia scritta da Jonathan Coe: Come un
furioso elefante. La vita di B.S. Johnson in 160 frammenti.