…Il 25
agosto 1992, poco dopo la mezzanotte, i nazionalisti serbi spararono le prime
bombe incendiarie sulla Vijećnica dalle colline che circondano la città. La
Biblioteca Nazionale fu bombardata per tre giornate intere. La precisione dei
lanci non lasciava dubbio che il bersaglio fosse proprio la Vijećnica.
Il fuoco dei cecchini o delle armi antiaeree colpiva i
vigili del fuoco, i coraggiosi bibliotecari e i volontari che avevano formato
una catena umana cercando di salvare i libri. La giovane bibliotecaria Aida
Buturović perse la vita in quell'occasione.
"Salvavano solo i libri degli autori
musulmani", affermò un tale Miroslav Toholj, scrittore di Sarajevo
scappato a Belgrado.
Tre mesi prima della Vijećnica, i nazionalisti serbi
avevano distrutto in modo identico l'Istituto Orientale a Sarajevo. Era la più
grande collezione in Europa Sud-Orientale di manoscritti e testi rari, spesso
documenti unici, in arabico, persiano o ebraico, che testimoniavano 500 anni di
storia della Bosnia Erzegovina. Consapevoli di questa perdita erano soprattutto
gli scienziati.
Ma quando bruciò la Biblioteca Nazionale, il dolore lo
sentirono tutti i cittadini, compresi quelli che non avevano mai presso un
libro in prestito dalla Vijećnica.
"Quel palazzo bellissimo, il simbolo della città,
bruciava. E ho pensato che questa era proprio la fine. Presto, pensavo, ci sarà
il nostro turno", ricorda Zlata Huseinćehajić, una commessa.
Lo scrittore bosniaco Goran Simić guardava dalla finestra
la Biblioteca in fiamme e, disperato, scriveva: "Liberàti dalla canna
fumaria, i personaggi girovagavano per la città, mescolandosi con i passanti e
le anime dei soldati morti. Ho visto Werther seduto sul recinto del cimitero
distrutto; Quasimondo dondolante sul minareto di una moschea; Raskolnikov e
Mersault sussurravano, per giorni, nella mia cantina; Yossarian già commerciava
con il nemico; il giovane Soyer era pronto a vendere, per pochi soldi, il ponte
Principov."
L'immagine-simbolo della distruzione della Vijećnica è
quella del violoncellista Vedran Smajlović. Ha sfidato i barbari suonando nella
Biblioteca distrutta. I giornalisti lo fotografavano. Smajlović ha smesso di
suonare, per un attimo, per asciugare le lacrime. Finito il lavoro, i fotografi
gli hanno detto: "Stop, basta, abbiamo finito". "Credevano che
facessi finta di piangere per il servizio fotografico. Ma io piangevo davvero,
per la disperazione", ha raccontato poi Smajlović.
La Vijećnica era stata costruita nel 1894. E' un palazzo
maestoso, di stile pseudo moresco, realizzato dagli austro-ungarici che
all'epoca governavano la Bosnia. L'edificio fu eretto ai piedi delle colline
dove, nel Medioevo, nacque Sarajevo. La Vijećnica si pone in netto contrasto
con le case piccole, le viuzze strette e tortuose della parte ottomana della
città. Come se gli austriaci avessero voluto dire che, con quel palazzo,
nasceva una città moderna e cominciava una nuova epoca.
Il progetto della Vijećnica fu affidato ad un certo Karl
Paražik, ma al governatore austriaco a Sarajevo, Kalaj, il disegno non piacque.
Incaricò un altro progettista, Alexander Witek. Quello, dicono, fu talmente
preso e tormentato dall'impresa che prima di finire i lavori si suicidò. Fu
Ćiril M. Iveković, architetto serbo-bosniaco, a finire i lavori. La Vijećnica
fu ufficialmente aperta nel 1896.
Una delle ultime foto dell'Arciduca Francesco Ferdinando
e di sua moglie Sophie fu presa proprio sulla scala esterna della Vijećnica, il
28 giugno 1914. Poco dopo, furono uccisi.
Quella foto fa anche parte della storia della mia
famiglia. La zia materna, Emla, era la ragazza che, vestita in costume
nazionale, in quell'occasione consegnò i fiori agli ospiti. Il fatto non fu
molto pubblicizzato e nessuno in famiglia se ne vantava, visto che fine aveva
avuto la visita reale a Sarajevo e le conseguenze che l'assassino dell'Arciduca
avevano avuto per tutto il mondo.
Dopo la Seconda guerra mondiale, la Vijećnica diventò
sede della Biblioteca Nazionale e Universitaria. Ci hanno studiato intere
generazioni di studenti provenienti da Sarajevo, dal resto della Bosnia
Erzegovina e da tutta la Jugoslavia. Ci sono passati anche tanti scolari che
arrivavano da Paesi poveri e lontani. Arrivavano a Sarajevo sostenuti dal
governo jugoslavo, in omaggio alla solidarietà con i Paesi non allineati.
L'aula principale della Vijećnica era enorme, sembrava un
salotto reale, o una grande chiesa trasformata in sala di lettura. Le finestre
alte, di vetro intarsiato, davano sul fiume Miljačka e sul monte Trebević.
Dentro c'erano file di panchine, sedie e scrivanie di
legno massiccio. Emanavano un odore misto di polvere, anni passati e del grasso
che si usava per conservare il legno. Ci si entrava con cautela, in silenzio,
con il fiato sospeso, cercando di attutire il rumore dei propri passi.
L'importanza del posto proveniva dalla bellezza e grandiosità del palazzo e dal
fatto che, da noi, il libro era considerato un oggetto sacro.
Siamo stati educati, in famiglia, a scuola e nelle varie
associazioni, a considerare il libro come "il migliore amico". Le
biblioteche erano ovunque, si facevano le gare per stabilire chi aveva letto di
più.
Ancora oggi ricordo il mio primo libro nuovo. Me l'hanno
comprato quando ero in seconda elementare. Tutti gli altri erano di seconda
mano, o ereditati dalle sorelle più grandi. Tuttora posso rievocare l'odore
della stampa fresca, le pagine lisce e satinate che sfogliavo delicatamente,
per non rovinarle. Per lungo tempo quel libro è rimasto l'oggetto più prezioso
che avevo.
Alla Vijećnica c'era un'atmosfera affascinante. Ci
piaceva l'ambiente, ci dava la sensazione di far parte di un mondo importante,
saggio, e bello. Da là, eravamo convinti, si aprivano le porte dell'ignoto,
diverso, lontano, insomma, tutto quello che poteva essere il futuro migliore.
Era il luogo dove nascevano e si sviluppavano le simpatie, gli amori e le
passioni non solo per la conoscenza o per il sapere, ma anche per un'altra
persona.
Là iniziavano le nostre paure per il prossimo esame, si
progettavano le battaglie, si pianificavano le sfide, si pronunciavano le
promesse, a se stessi e agli altri. E' là, in un piccolo bar, gestito dalla
signora Alema, che festeggiavamo i successi, o ci consolavano, quando le cose
non andavano proprio come avevamo sperato.
Alla Vijećnica a volte si andava anche solo per riscaldarsi, perché tanti non avevano il riscaldamento a casa propria.
Alla Vijećnica a volte si andava anche solo per riscaldarsi, perché tanti non avevano il riscaldamento a casa propria.
Anche per quelli (rari) che non avevano mai messo piede
alla Vijećnica, il posto era importante. Ci si andava per fare le foto
espressive, o per vantarsi davanti agli amici che venivano a visitare la città.
Le cartoline di Sarajevo portavano la sua immagine con la scritta obbligatoria
"Saluti da Sarajevo". Per tutte queste ragioni, e per quelle intime
mai pronunciate, la distruzione della Vijećnica fu vissuta come "la fine
del mondo".
"Tutta la città fu coperta da brandelli di carta
bruciata. Le pagine fragili volavano in aria, cadendo giù come neve nera.
Afferrandola, per un attimo era possibile leggere un frammento di testo, che un
istante dopo si trasformava davanti ai tuoi occhi in cenere". Così ricorda
quei giorni il bibliotecario, dr. Kemal Bakaršić…
…Vedran Smailovic ha suonato all'Opera di Sarajevo,
nella Sarajevo Philharmonic Orchestra, nella Symphony Orchestra RTV
Sarajevo e nel National Theatre of Sarajevo. Sopravvisse all'assedio di
Sarajevo, durante la guerra in Bosnia, tra freddo, carenza di cibo e acqua,
cecchini sparsi in città e pesanti bombardamenti.
Nel 1992, Smailović ha suonato sul suo violoncello l'Adagio in sol minore diTommaso Albinoni in diverse ore del giorno per 22 giorni, per onorare la memoria di 22 civili uccisi mentre facevano la fila per il pane. Smailović inoltre suonò gratuitamente a diversi funerali in città, incurante delle presunte storie circa il fatto che i funerali fossero presi di mira dalle forze serbe. Lasciò la citta alla fine del 1993, dedicandosi come compositore, direttore ed esecutore a diverse iniziative in campo musicale. Attualmente Smailović vive a Warrenpoint, nell'Irlanda del Nord…
da qui
Vedran Smailovic, il violoncellista di Sarajevo –Aldo Fiorenza
Vedran Smailovic, all’anagrafe…
da Sarajevo defunta…
oggi?... redivivo in Irlanda!
Mi porto ancora dentro il cuore
la mia patria
come il mio fiore all’occhiello
una patriottica, pur se defunta ghirlanda.
Intonai l’Adagio di Albinoni
per 22 giorni consecutivi
all’interno della Biblioteca Nazionale
sventrata…uniche mie amiche:
le macerie
- niente rumori e suoni -
giacevano in silenzio sepolcrale
fra le rovine delle umane miserie.
Non smuovevano più
nemmeno un granello di polvere
e manifestavano silenziosamente
d’ogni guerra tanti sfracelli,
tanti morti in serie.
Se avessi smesso di suonare,
mi supplicavano i miei vicini,
Sarajevo sarebbe caduta.
Ed io, fin da quel primo momento
tutte le miserie umane ripresi
- con la corda del mio violino
straordinariamente acuta -
eppur silenziosamente in pianto
a provare a far dimenticare.
Sarajevo!
Era già marcia
come il più oscuro medioevo!
Una mattina me ne stavo alla finestra
con la paura nel cuore a dialogare.
22 persone il fila per il pane,
corteggiavano ancora la vita
come si può odorare un fiore di ginestra.
Osservavo quel paradiso violato
del mondo circostante
Una granata lo risucchiò tutto,
all’istante!
Rimasi con gli occhi fissi, incollati
all’oblò della morte.
Per non perdere il senno
presi proprio la morte a…sviolinare!
Intonai l’Adagio di Albinoni
per 22 giorni consecutivi
alla stessa ora di quel giorno
come tant’altri giorni insensati.
Poi ancora quattro anni d’assedio…
ormai dimenticati…
come un incubo da scacciare.
Per conto mio non ho mai smesso
l’adagio di Albinoni
e un pensiero maledetto di morte
a corteggiare.
Mai il nostro mondo è stato dei buoni...
mai, se non falsi proclami d’amore
e per i morti d’ogni tempo, d’ogni guerra
soltanto la memoria d’un’ipocrisia infinita.
Mi son detto: a che serve il cuore
e l’umana poesia della vita?
Proprio a nulla…
può darsi che non ci sia scelta
inutili pentimenti, inutili perdoni,
ma contro la miseria umana
ho deciso che suonerò fino alla morte
l’Adagio di Tommaso Albinoni.
Anche la sua opera fu ritrovata in frammenti
e ricomposta
tra le macerie d’una Libreria di Stato…
Dresda!... anche i tuoi morti erano morti buoni.
Nel 1992, Smailović ha suonato sul suo violoncello l'Adagio in sol minore diTommaso Albinoni in diverse ore del giorno per 22 giorni, per onorare la memoria di 22 civili uccisi mentre facevano la fila per il pane. Smailović inoltre suonò gratuitamente a diversi funerali in città, incurante delle presunte storie circa il fatto che i funerali fossero presi di mira dalle forze serbe. Lasciò la citta alla fine del 1993, dedicandosi come compositore, direttore ed esecutore a diverse iniziative in campo musicale. Attualmente Smailović vive a Warrenpoint, nell'Irlanda del Nord…
da qui
Vedran Smailovic, il violoncellista di Sarajevo –Aldo Fiorenza
Vedran Smailovic, all’anagrafe…
da Sarajevo defunta…
oggi?... redivivo in Irlanda!
Mi porto ancora dentro il cuore
la mia patria
come il mio fiore all’occhiello
una patriottica, pur se defunta ghirlanda.
Intonai l’Adagio di Albinoni
per 22 giorni consecutivi
all’interno della Biblioteca Nazionale
sventrata…uniche mie amiche:
le macerie
- niente rumori e suoni -
giacevano in silenzio sepolcrale
fra le rovine delle umane miserie.
Non smuovevano più
nemmeno un granello di polvere
e manifestavano silenziosamente
d’ogni guerra tanti sfracelli,
tanti morti in serie.
Se avessi smesso di suonare,
mi supplicavano i miei vicini,
Sarajevo sarebbe caduta.
Ed io, fin da quel primo momento
tutte le miserie umane ripresi
- con la corda del mio violino
straordinariamente acuta -
eppur silenziosamente in pianto
a provare a far dimenticare.
Sarajevo!
Era già marcia
come il più oscuro medioevo!
Una mattina me ne stavo alla finestra
con la paura nel cuore a dialogare.
22 persone il fila per il pane,
corteggiavano ancora la vita
come si può odorare un fiore di ginestra.
Osservavo quel paradiso violato
del mondo circostante
Una granata lo risucchiò tutto,
all’istante!
Rimasi con gli occhi fissi, incollati
all’oblò della morte.
Per non perdere il senno
presi proprio la morte a…sviolinare!
Intonai l’Adagio di Albinoni
per 22 giorni consecutivi
alla stessa ora di quel giorno
come tant’altri giorni insensati.
Poi ancora quattro anni d’assedio…
ormai dimenticati…
come un incubo da scacciare.
Per conto mio non ho mai smesso
l’adagio di Albinoni
e un pensiero maledetto di morte
a corteggiare.
Mai il nostro mondo è stato dei buoni...
mai, se non falsi proclami d’amore
e per i morti d’ogni tempo, d’ogni guerra
soltanto la memoria d’un’ipocrisia infinita.
Mi son detto: a che serve il cuore
e l’umana poesia della vita?
Proprio a nulla…
può darsi che non ci sia scelta
inutili pentimenti, inutili perdoni,
ma contro la miseria umana
ho deciso che suonerò fino alla morte
l’Adagio di Tommaso Albinoni.
Anche la sua opera fu ritrovata in frammenti
e ricomposta
tra le macerie d’una Libreria di Stato…
Dresda!... anche i tuoi morti erano morti buoni.
E in una notte di vent'anni fa a Sarajevo bruciarono
un milione e mezzo di libri, seicento anni di percorsi di convivenza. «S'alzano
i roghi al cielo, s'alzano i roghi in cupe vampe» cantavano i CSI parlando
della Vijecnica, la biblioteca di Sarajevo bombardata e
incendiata dagli obici e dai mortai dei cetnici, i
nazionalisti serbi che volevano distruggere la città e i suoi abitanti. Era
la notte tra il 25 e il 26 agosto 1992. Oggi, a distanza di vent'anni,
l'edificio è quasi interamente ricostruito, dopo anni e anni di restauro reso
difficile dalla mancanza di risorse.
La Vijecnica era stata costruita nel 1892-94 dagli austriaci, che da una decina d'anni amministravano la Bosnia: ospitava il Municipio di Sarajevo, lo stile architettonico "moresco" evocava l'Oriente, ma era estraneo alla tradizione locale ed era anche una rivendicazione del ruolo dell'Austria (nella foto: l'arciduca Francesco Ferdinando e la moglie escono dalla Vijecnica, pochi minuti prima dell'attacco di Gravilo Princip). Dopo la Seconda Guerra Mondiale divenne "biblioteca nazionale e universitaria della Bosnia Erzegovina". Nel 1992 - a cent'anni dalla nascita - divenne uno dei primi obbiettivi delle artiglierie dei cetnici serbo-bosniaci, con una scelta simbolica profonda: i nazionalisti volevanodistruggere la città come luogo della convivenza e dell'incontro tra i popoli e le culture. E la Biblioteca era il simbolo maggiore di quella convivenza, della città pluralista.
Tra le mura della Vijecnica era custodita - fino a poche settimane prima -l'Haggadah di Sarajevo, il più antico documento ebraico d'Europa, portato dagli ebrei sefarditi cacciati dai pii regnanti di Spagna e accolti in terra turca, nella "città serraglio" fondata da un governatore musulmano. Dopo l'inizio della guerra nell'aprile 1992, l'Haggadah - opera trecentesca, di valore inestimabile - era stata messa al sicuro nel caveau della banca nazionale di Bosnia, così sopravvisse alle fiamme. Non era la prima volta che era stata in pericolo: dopo il 1941 i nazisti diedero la caccia al prezioso documento, prova della presenza dei giudei in Europa. La salvò il capo bibliotecario Dervis Korkut: il funzionario d'origine albanese dal nome musulmano nascose l'Haggadah, la portò sui monti dove fu custodita da un imam in un villaggio della Bosnia rurale, nella modesta bibioteca della sua umile moschea. Oggi l'Haggadah è custodita in una stanza blindata al Museo di Storia, la si vede da uno spioncino (ma al museo d'arte ebraica, nell'antica sinagoga sefardita, se ne può sfogliare una copia). Il bibliotecario Dervis Korkut è considerato da Israele uno dei "giusti", perché oltre all'Haggadah salvò anche alcuni ebrei sarajevesi.
"S'alzano i roghi in cupe vampe": nell'incendio causato dai nazionalisti serbi bruciarono un milione di volumi, 155mila rari o preziosi, 478 manoscritti unici. Alcuni cittadini e bibliotecari furono uccisi o feriti dai cecchini, mentre tentavano di salvare i libri dal rogo. Rimasta per anni abbandonata, oggi la Biblioteca è fasciata dalle impalcature: le sue mura guardano da un lato il bazar della Bascarsija e le grandiose moschee, dall'altro i ponti in pietra sul fiume Miljacka, al di là dei quali stanno i quartieri Latinluk e Bistrik. Nell'arco di poche decine di metri lo sguardo coglie iminareti, il campanile della chiesa dei Francescani, la ciminiera della fabbrica di birra Sarajevsko, bevanda simbolo della città, in un Paese e in una città a maggioranza musulmana. A breve distanza, la sinagoga Ashkenazita, quella ancora usata per il culto dai 700 ebrei rimasti in città. Nel corso della guerra tutti i luoghi di culto finirono sotto il tiro degli assedianti, furono danneggiate persino la Cattedrale Ortodossa e la Chiesa vecchia (nella foto, il campanile ancora segnato), le chiese di quell'ortodossia a cui si rifacevano i nazionalisti serbi che volevano cancellare la città multiculturale. "Urbanicidio", lo chiamarono alcuni: non scontro tribale, non etnia contro etnia, ma campagna contro città, identità e fondamentalismo religioso contro sociatà aperta e multiculturale. A Sarajevo come a Vukovar, nell'estate del 1991. Sarajevo, dentro, la difesero in migliaia: cittadini musulmani, croati, "jugoslavi", anche serbi (come il generale Jovan Divjak). La difesero con i kalashnikov e i razzi anticarro Zolja, ma anche con le mostre d'arte e i concerti e il teatro e il festival del cinema.
Oggi musulmani, cattolici, ortodossi, ebrei, atei, "jugoslavisti" vivono ancora a Sarajevo insieme. Basta per dire che il multiculturalismo ha resistito? I partiti identitari - serbi, croati, musulmani - hanno guadagnato posizioni in Bosnia, complice l'architettura istituzionale inventata da USA ed Europa, per cui persino la presidenza della Repubblica è triplice, con un croato, un musulmano e un serbo che si alternano (alla faccia di chi non si riconosce nelle tre categorie). La società civile di Sarajevo - giornali, associazioni - combatte spesso le battaglie per il multiculturalismo in solitudine, arginando la spinta nazionalista rimasta dopo la guerra e dopo la divisione della Bosnia in due "entità", la Federazione e la Repubblica Serpska. Sarajevo sembra la capitale di un'Idea, più che di un Paese: ricostruire è difficile, la ricostruzione materiale - oggi la città è piena di turisti, i segni della guerra si vedono sempre meno - è più facile che non la ricostruzione degli animi e della cultura.
Anche la Biblioteca lo racconta: a inizio agosto 2012 - mancano ancora un paio di anni a finire il tutto - dietro le impalcature l'intonaco dei muri color senape e mattone è perfetto, un operaio lima già la lastra di marmo all'ingresso (nella foto). Ma la biblioteca vera e propria è ancora da ricostruire, come luogo di cultura - "i libri ricopiati a mano, possibili percorsi" cantati dai CSI. Ci lavora la società civile, ci lavorano le Ong europee e americane e quelle turche. C'è chi con la Bosnia ha un legame particolare e dà il suo contributo, come lo stimato avvocato di Vicenza che ha appena donato 1300 volumi. C'è spesso chi dice che è simbolico il ritardo nella ricostruzione: chiese e moschee restaurate in pochi anni, centri commerciali nuovi di zecca, ma ancora quel luogo d'incontro è da ricostruire. Crescono in Bosnia nuove moschee nate dal nulla, ma intanto chiude la Galleria Nazionale, rimasta senza soldi: anche in questa estate 2012 davanti al museo un grande cartello bianco-rosso grida lo sdegno dei sarajevesi. Per un certo periodo - il lustro dopo l'11 settembre - i media occidentali hanno dato manforte, dipingendo ossessivamente la Bosnia come luogo nelle mani degli integralisti islamici, con tanto di immancabili "foto shock" e servizi televisivi "shock".
Ma Sarajevo - nel 2012 come durante l'assedio - rimane un baluardo contro gli integralismi e i nazionalismi che la comunità internazionale ha sdoganato con gli accordi di Dayton del 1995 e che le campagne incarnano, con le loro divisioni e i villaggi etnici. Altre città, come Mostar, appaiono ormai irrimediabilmente divise in due. Sarajevo resta un baluardo per la Bosnia e forse anche, simbolicamente, per l'intera Europa, che ha ceduto molto al nazionalismo, alla chiusura identitaria, al tentativo di demonizzare ciò che altro da sè.
I turisti fanno le foto sulla sniper alley, davanti al celebre Holiday Inn e ai palazzi bombardati. Lo spirito della città esiste ancora, anche se la città è fragile. È la banale normalità delle relazioni umane: nonostante i nazionalisti, nonostante i mille partiti etnici, al tramonto - tra i minareti di Bistrik e il campanile di Latinluk - la ciminiera della fabbrica di birra Sarajevsko fischia vapore acqueo verso il cielo, nei bar si beve caffè turco e si stappano bottiglie. Mentre il muezzin annuncia la fine della giornata di Ramadan.
La Vijecnica era stata costruita nel 1892-94 dagli austriaci, che da una decina d'anni amministravano la Bosnia: ospitava il Municipio di Sarajevo, lo stile architettonico "moresco" evocava l'Oriente, ma era estraneo alla tradizione locale ed era anche una rivendicazione del ruolo dell'Austria (nella foto: l'arciduca Francesco Ferdinando e la moglie escono dalla Vijecnica, pochi minuti prima dell'attacco di Gravilo Princip). Dopo la Seconda Guerra Mondiale divenne "biblioteca nazionale e universitaria della Bosnia Erzegovina". Nel 1992 - a cent'anni dalla nascita - divenne uno dei primi obbiettivi delle artiglierie dei cetnici serbo-bosniaci, con una scelta simbolica profonda: i nazionalisti volevanodistruggere la città come luogo della convivenza e dell'incontro tra i popoli e le culture. E la Biblioteca era il simbolo maggiore di quella convivenza, della città pluralista.
Tra le mura della Vijecnica era custodita - fino a poche settimane prima -l'Haggadah di Sarajevo, il più antico documento ebraico d'Europa, portato dagli ebrei sefarditi cacciati dai pii regnanti di Spagna e accolti in terra turca, nella "città serraglio" fondata da un governatore musulmano. Dopo l'inizio della guerra nell'aprile 1992, l'Haggadah - opera trecentesca, di valore inestimabile - era stata messa al sicuro nel caveau della banca nazionale di Bosnia, così sopravvisse alle fiamme. Non era la prima volta che era stata in pericolo: dopo il 1941 i nazisti diedero la caccia al prezioso documento, prova della presenza dei giudei in Europa. La salvò il capo bibliotecario Dervis Korkut: il funzionario d'origine albanese dal nome musulmano nascose l'Haggadah, la portò sui monti dove fu custodita da un imam in un villaggio della Bosnia rurale, nella modesta bibioteca della sua umile moschea. Oggi l'Haggadah è custodita in una stanza blindata al Museo di Storia, la si vede da uno spioncino (ma al museo d'arte ebraica, nell'antica sinagoga sefardita, se ne può sfogliare una copia). Il bibliotecario Dervis Korkut è considerato da Israele uno dei "giusti", perché oltre all'Haggadah salvò anche alcuni ebrei sarajevesi.
"S'alzano i roghi in cupe vampe": nell'incendio causato dai nazionalisti serbi bruciarono un milione di volumi, 155mila rari o preziosi, 478 manoscritti unici. Alcuni cittadini e bibliotecari furono uccisi o feriti dai cecchini, mentre tentavano di salvare i libri dal rogo. Rimasta per anni abbandonata, oggi la Biblioteca è fasciata dalle impalcature: le sue mura guardano da un lato il bazar della Bascarsija e le grandiose moschee, dall'altro i ponti in pietra sul fiume Miljacka, al di là dei quali stanno i quartieri Latinluk e Bistrik. Nell'arco di poche decine di metri lo sguardo coglie iminareti, il campanile della chiesa dei Francescani, la ciminiera della fabbrica di birra Sarajevsko, bevanda simbolo della città, in un Paese e in una città a maggioranza musulmana. A breve distanza, la sinagoga Ashkenazita, quella ancora usata per il culto dai 700 ebrei rimasti in città. Nel corso della guerra tutti i luoghi di culto finirono sotto il tiro degli assedianti, furono danneggiate persino la Cattedrale Ortodossa e la Chiesa vecchia (nella foto, il campanile ancora segnato), le chiese di quell'ortodossia a cui si rifacevano i nazionalisti serbi che volevano cancellare la città multiculturale. "Urbanicidio", lo chiamarono alcuni: non scontro tribale, non etnia contro etnia, ma campagna contro città, identità e fondamentalismo religioso contro sociatà aperta e multiculturale. A Sarajevo come a Vukovar, nell'estate del 1991. Sarajevo, dentro, la difesero in migliaia: cittadini musulmani, croati, "jugoslavi", anche serbi (come il generale Jovan Divjak). La difesero con i kalashnikov e i razzi anticarro Zolja, ma anche con le mostre d'arte e i concerti e il teatro e il festival del cinema.
Oggi musulmani, cattolici, ortodossi, ebrei, atei, "jugoslavisti" vivono ancora a Sarajevo insieme. Basta per dire che il multiculturalismo ha resistito? I partiti identitari - serbi, croati, musulmani - hanno guadagnato posizioni in Bosnia, complice l'architettura istituzionale inventata da USA ed Europa, per cui persino la presidenza della Repubblica è triplice, con un croato, un musulmano e un serbo che si alternano (alla faccia di chi non si riconosce nelle tre categorie). La società civile di Sarajevo - giornali, associazioni - combatte spesso le battaglie per il multiculturalismo in solitudine, arginando la spinta nazionalista rimasta dopo la guerra e dopo la divisione della Bosnia in due "entità", la Federazione e la Repubblica Serpska. Sarajevo sembra la capitale di un'Idea, più che di un Paese: ricostruire è difficile, la ricostruzione materiale - oggi la città è piena di turisti, i segni della guerra si vedono sempre meno - è più facile che non la ricostruzione degli animi e della cultura.
Anche la Biblioteca lo racconta: a inizio agosto 2012 - mancano ancora un paio di anni a finire il tutto - dietro le impalcature l'intonaco dei muri color senape e mattone è perfetto, un operaio lima già la lastra di marmo all'ingresso (nella foto). Ma la biblioteca vera e propria è ancora da ricostruire, come luogo di cultura - "i libri ricopiati a mano, possibili percorsi" cantati dai CSI. Ci lavora la società civile, ci lavorano le Ong europee e americane e quelle turche. C'è chi con la Bosnia ha un legame particolare e dà il suo contributo, come lo stimato avvocato di Vicenza che ha appena donato 1300 volumi. C'è spesso chi dice che è simbolico il ritardo nella ricostruzione: chiese e moschee restaurate in pochi anni, centri commerciali nuovi di zecca, ma ancora quel luogo d'incontro è da ricostruire. Crescono in Bosnia nuove moschee nate dal nulla, ma intanto chiude la Galleria Nazionale, rimasta senza soldi: anche in questa estate 2012 davanti al museo un grande cartello bianco-rosso grida lo sdegno dei sarajevesi. Per un certo periodo - il lustro dopo l'11 settembre - i media occidentali hanno dato manforte, dipingendo ossessivamente la Bosnia come luogo nelle mani degli integralisti islamici, con tanto di immancabili "foto shock" e servizi televisivi "shock".
Ma Sarajevo - nel 2012 come durante l'assedio - rimane un baluardo contro gli integralismi e i nazionalismi che la comunità internazionale ha sdoganato con gli accordi di Dayton del 1995 e che le campagne incarnano, con le loro divisioni e i villaggi etnici. Altre città, come Mostar, appaiono ormai irrimediabilmente divise in due. Sarajevo resta un baluardo per la Bosnia e forse anche, simbolicamente, per l'intera Europa, che ha ceduto molto al nazionalismo, alla chiusura identitaria, al tentativo di demonizzare ciò che altro da sè.
I turisti fanno le foto sulla sniper alley, davanti al celebre Holiday Inn e ai palazzi bombardati. Lo spirito della città esiste ancora, anche se la città è fragile. È la banale normalità delle relazioni umane: nonostante i nazionalisti, nonostante i mille partiti etnici, al tramonto - tra i minareti di Bistrik e il campanile di Latinluk - la ciminiera della fabbrica di birra Sarajevsko fischia vapore acqueo verso il cielo, nei bar si beve caffè turco e si stappano bottiglie. Mentre il muezzin annuncia la fine della giornata di Ramadan.
25/08/2012 Roberto Morandi
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