1. Archeologia del presente
Ci sono tre
testi che tutti quelli che parlano di Ilva-Mittal dovrebbero conoscere, e per
la più parte dicono di averli letti: le inchieste di Antonio Cederna del 1972 e di Walter Tobagi del 1979, e il romanzo La dismissione di Ermanno
Rea.
Cederna, con
due lunghi articoli sul Corriere della sera [«Taranto
in balia dell’Italsider», 13 aprile 1972; «Taranto strangolata dal “boom”», 18
aprile 1972], evidenziava il nesso fra l’insediamento industriale attuato senza
alcun rispetto per gli equilibri ambientali, la devastazione del territorio, e
un’urbanistica impazzita:
«Una città disastrata, una Manhattan del sottosviluppo e dell’abuso
edilizio, tale appare Taranto allo sbalordito visitatore. Stretta nella morsa
della speculazione privata e di un processo di industrializzazione che si
realizza al di fuori di qualsiasi piano di interesse generale, essa può ben
essere presa a simbolo degli errori della politica fin qui seguita per il
Mezzogiorno».
Tobagi
[Walter Tobagi, «Il “metalmezzadro” protagonista dell’economia sommersa al
Sud», Corriere della sera, 15 ottobre 1979, ora in Testimone scomodo (a c. Aldo Forbice), Franco
Angeli, 1989, pp. 117-120] sottolineava «la “contraddizione” tra l’enorme
concentrazione industriale di Taranto e il vuoto che c’è attorno», cogliendo le
linee essenziali del rapporto fra città e fabbrica: captazione della ricchezza
sociale all’interno della fabbrica, con l’impoverimento delle altre risorse del
territorio; mancata restituzione al territorio della ricchezza prodotta;
attitudine consociativa dei sindacati. In sintesi, scriveva,
«l’Italsider assicura una discreta quota di benessere medio, ma non ha
determinato quel decollo della regione che molti speravano quando si gettarono
le fondamenta di questa cattedrale della siderurgia. Le spiegazioni sono tante:
mentre cresceva la fabbrica nuova, decadevano i cantieri navali e l’arsenale,
che furono la prima base industriale della città».
Rea, infine,
dipinge la figura allucinata e alienata di Vincenzo Buonocore,
l’operaio che, incapace di concepire una vita senza la fabbrica, è disposto a
smontarla lui stesso per poterla poi ricostruire in Cina.
In questi
scritti, ad averli davvero letti e non solo spulciati, c’è tutto quello che ci
sarebbe da dire oggi, con buona pace di chi continua a recitare la fiaba del
(passato) modello di sviluppo trainato dal Centro Siderurgico, che con un salto
logico incongruo diventa la premessa all’ineluttabilità della sua esistenza,
dunque all’impossibilità di pensare un futuro per Taranto senza Fabbrica.
Da qui, le
petizioni di principio di enunciati nei quali l’impossibilità di liberarsi
dall’acciaio viene dato come presupposto, laddove sarebbe da dimostrare che sia
davvero necessario, a fronte di giganti della siderurgia che producono in
fabbriche di nuova costruzione a minore impatto ambientale, riciclando buona
parte del materiale ferroso invece di estrarlo, con una maggiore qualità del
prodotto finito, mantenere in vita un impianto produttore di acciaio di cattiva
qualità, prodotto con tecniche vetuste e altamente inquinanti non solo a valle,
ma anche a monte (con prelievi di minerali ferrosi inquinanti e senza controllo
in Brasile), in una fabbrica con materiale in scadenza. Per non parlare dei
molti pezzi usurati che, smontati per essere sostituiti, sono stati in realtà
riverniciati e riposizionati: la quantità di impianto da sostituire ex novo è quindi ben maggiore di quanto
“ufficialmente” non risulti, o di quanto si vorrà far risultare.
2. Alien
Per capire
Taranto e la sua dipendenza dalla Fabbrica assassina, basta allargare la
visuale e collocare la crisi del «polmone produttivo della Puglia» (così Nichi Vendola, in un memorabile intervento in un convegno, accanto a
Riva ed Emma Marcegaglia, qui a p. 22) all’interno dalla crisi, negli anni
Ottanta, dello Stato-crisi: della capacità di usare la crisi per ottenere una
plusvalenza politica e un equilibrio nello scambio tra produzione della merce e
salario.
Entro questa
crisi di sistema, la crisi del modello di sviluppo che, a fronte della
questione meridionale, incatenava la forza-lavoro meridionale alla catena che
estraeva ricchezza al sud indirizzandone i flussi al nord attraverso la
costruzione di cattedrali nel deserto governate da Torino, Genova, Milano. La
crisi diventa così condizione sociale ed esistenziale in sé, con la
precarizzazione dell’esistenza resa più acuta dal patto scellerato che delega
la governance del territorio alle cosche mafiose
(sovradeterminate dall’esterno: Campania e Calabria), ieri con pistole ed
eroina, oggi con la circolazione di capitale illegale all’interno delle
“lavanderie” locali.
La crisi a
venire era anticipata ed esemplificata dalla figura dell’imprenditore Emilio Riva, ex venditore di ferro usato che svolazzando
per il mondo alla ricerca di impianti in via di fallimento ha costruito un
impero industriale. Allo stesso tempo, le navi liguri che trasportavano
l’acciaio prodotto a Taranto, riterritorializzando altrove non solo i flussi di
ricchezza della produzione, ma anche del trasporto, facevano segno a una feroce
fuga dei cervelli, a una costante sottrazione dell’intelligenza collettiva
jonica, alla quale piccole realtà militanti ed ecologiste locali, talora
anch’esse contrassegnate dal va-e-vieni dei fuorisede, cercano di porre
rimedio.
La Fabbrica
– Italsider-Ilva-Arcelo Mittal – ha costituito per Taranto una sorta di Alien che, mentre la teneva in vita, le succhiava
ogni risorsa vitale, fino a ucciderla. Avvelenandone non solo l’aria, con
emissioni e polveri, e il sottosuolo, con scarichi dei quali tutt’ora si sa
poco – come l’affiorare di catrame alla gravina Leucaspide, o le
misteriose emissioni di gas nelle scuole del rione Tamburi –;
ma anche devastandone la struttura sociale, e imponendosi come la tetra forma
mentale di un destino al quale non si può sfuggire. Un mostruoso impasto
organico di metalli e carni umane che attira le vite al proprio interno e
chiede, come un moderno Minotauro, un tributo di morte in tumori e leucemie,
che invade con le proprie metastasi i corpi, saturando di polveri sottili bronchi
e polmoni.
È il prezzo
pagato al mito del progresso e al Moloch lavorista che vuole il senso della
vita coincidere con l’alzarsi tutte le mattine per andare a lavorare, fare i
turni, e andarsene a casa con un salario che ti costringe il giorno dopo a tornare
in fabbrica. Per crepare, se sopravvivi a quelli che ormai nessuno chiama più
«omicidi bianchi», sputando veleno o agganciato ai tubi delle flebo e alle
fiale di morfina.
Non serve
essere semiologi o sociologi, allora, per capire che la crisi dell’Ilva-Arcelor
Mittal è tutta interna al modello del valore-lavoro, del «lavoro bene comune»,
del paradigma lavorista novecentesco che è incapace di pensare la vita autonoma
dal lavoro salariato. Non serve essere fini analisti per capire il perché non
solo della compromissione con la fabbrica di partiti e politici chiara
filiazione padronale – dalla vecchia DC alla moderna Lega di Salvini –, ma
anche della subalternità di quei politici, partiti e sindacati «di sinistra» –
da Vendola alla FIOM, da Bersani a Landini e Cremaschi – legati a doppio filo
al modello lavorista e industriale.
3. Restare umani
Che Taranto
sia incatenata a un modello di sviluppo per il quale il sottosviluppo del
Meridione è prodotto da una accorta pianificazione – lo avevano dimostrato nel
1972 Luciano Ferrari Bravo e Alessandro Serafini in Stato e sottosviluppo, editato dapprima nella
“famigerata” collana «Materiali marxisti» Feltrinelli – lo dimostra oggi il
ruolo che a Taranto è stato assegnato nella gestione emergenziale dei flussi
migratori: essere il primo hub di smistamento dei migranti al di fuori della
Sicilia. Con accortezza, l’informazione giornalistica e televisiva evita di
collegare i diversi arrivi – ultimi, l’Ocean Viking il 16 ottobre, e la Alan Kurdi il 3 novembre, frammentando in una
narrazione episodica una continuità dell’emergenza di cui, con ammirevole
spirito non umanitario, ma umano, una parte della comunità tarantina si fa
carico, nonostante lo stato di crisi permanente.
C’è un
episodio, accaduto 5 anni or sono, che merita di essere ricordato: l’11 maggio
2014, 380 profughi siriani furono accolti e ospitati in una struttura scolastica
dismessa, adiacente a una scuola. Matteo Salvini, a
Taranto per un tour propagandistico, cercò di soffiare sul fuoco della
preoccupazione dei genitori degli studenti della scuola: «380 clandestini
sbarcati a Taranto verranno gentilmente alloggiati in un ex asilo, in una ex
scuola e in una palestra. Ovviamente a spese degli italiani. Dei genitori
stanno occupando per protesta la ex scuola. E fanno bene! Avanti così, saremo
noi i veri profughi…»
I genitori
entrarono nella palestra, presero visione dei profughi e delle loro condizioni,
e si organizzarono per portare loro coperte, materassini, latte caldo e
giocattoli per i bambini: dimostrando che quando il comune si organizza, la
Bestia fascio-propagandistica del razzista Salvini è una tigre di carta.
È da questo
terreno di pratiche che è stato elaborato, lo scorso anno, il
“Piano Taranto”, sottoscritto da Comitato Cittadini e Lavoratori
Liberi e Pensanti, FLMUniti – CUB, Giustizia per Taranto, Tamburi Combattenti,
Taranto Respira, TuttaMiaLaCittà, singole e singoli cittadine/i. In
conclusione del quale si legge:
«Taranto non può più essere il tappeto sotto al quale il Paese nasconde
la sua “polvere”: industrie tenute sul mercato unicamente dalla possibilità di
non rispettare norme ambientali e di sicurezza sul lavoro, di non innovare e di
non virare verso la transizione energetica. Né i tarantini e le tarantine
possono essere considerati sacrificabili per garantirne il profitto. Stando
così le cose è facile immaginare come la riconversione salvifica del
territorio non potrà essere proposta da quanti traggono i propri privilegi ed
il proprio potere dalla conservazione dello stato di cose. È in quest’ottica
che poniamo questo lavoro al centro del dibattito cittadino quale patrimonio di
riflessione comune e base per la programmazione di una riconversione in grado
di riscattare il nostro territorio e ridare dignità alle persone che lo
abitano. Da subito».
4. «Taranto non può vivere senza la Fabbrica»
Eppure, non
c’è formazione o leader politico che non abbia, non importa con quale buon uso
della lingua italiana, recitato il mantra del «Taranto non può vivere senza la
Fabbrica».
Un mantra
che fa di Taranto un luogo neutro e vuoto, una volta cancellato il tributo di
sangue e tumori pagato dai tarantini. Un mantra che, con un’altra capriola
logica, predica la ricerca del bravo imprenditore che risanerà la Fabbrica, o
del buono e bravo Stato che, nazionalizzandola, la risanerà: ignorando la
sostanza dell’imprenditoria orientata solo al profitto, o l’incapacità di una
pianificazione industriale, pubblica o privata che sia, di lungo periodo.
Nel quale,
peraltro, i tarantini saranno probabilmente tutti morti, e sepolti in un
cimitero nel quale le lapidi sono rosate, perché le bianche si tingono subito
della polvere rossa della Fabbrica: come in un incubo benjaminiano, neanche i
morti sono al sicuro, a Taranto, se questo nemico non smette di vincere.
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