[Con
questo articolo di Luca Manes prosegue la nostra collaborazione con l’associazione
Re:Common intorno alle imprese neocoloniali delle aziende
italiane in Africa. In questo caso si parla del Sudafrica e delle attività di
due ditte molto note a chiunque si interessi di Grandi Opere Dannose, Inutili e
Imposte: Salini-Impregilo e CMC. Quest’ultima, con
sede a Ravenna, è anche un prodotto d’esportazione del «modello economico
emiliano-romagnolo», di cui tanto s’è parlato negli ultimi mesi. Le fotografie sono
di Carlo Dojmi di de Lupis. Buona Lettura.]
Ladysmith è
una cittadina della provincia sudafricana del KwaZulu-Natal, a
metà strada tra Johannesburg e Durban, teatro di uno degli eventi più famosi
della Seconda Guerra Boera. Qui fra il 2 novembre del 1899 e
il 28 febbraio del 1900 le truppe boere assediarono quelle britanniche, senza
riuscire a espugnare l’avamposto nemico. Davanti al municipio di Ladysmith ci
sono ancora due dei cannoni usati in quei giorni, mentre il vicino hotel è una
sorta di museo non ufficiale di quel conflitto, che vide l’esercito di sua
maestà imporsi sui coloni boeri e vendicare l’onta della sconfitta nel primo
conflitto. Ma in tutta l’area intorno al centro abitato risuona ancora l’eco
delle sanguinose battaglie svoltesi sulle tante colline che movimentano il
panorama.
La più
celebre è la Spion Kop, su una collina che si
raggiunge tramite una stradina stretta e ripida dopo una mezz’ora di macchina
da Ladysmith. La strenua resistenza e le tante vittime (243), in buona parte
originarie del Lancashire, colpirono così tanto l’immaginario collettivo
inglese che molte “curve” degli stadi di calcio allora in costruzione furono
rinominate Spion Kop. Poi abbrevviate in Kop, come quella del Liverpool che
anche i meno appassionati di football conoscono.
Dalla
sommità della collina, in mezzo alle tombe e ai monumenti funebri che ricordano
quella battaglia, si ha una visuale perfetta di una immensa vallata che culmina
nell’invaso artificiale creato dalla diga di Woodstock. Una volta qui d’inverno
era tutto verde smeraldo, perché faceva abbastanza freddo e le precipitazioni
erano abbondanti. A causa dei cambiamenti climatici, le temperature sono più
miti e non piove più. È tutto secco, a tratti arido, come abbiamo potuto
constatare di persona proprio nella stagione invernale sudafricana – che
corrisponde alla nostre estate.
Sarebbe
tutto ancora più secco se questa area non fosse ricca di corsi d’acqua, che è
poi uno dei motivi che ci ha portato a oltre ottimila chilometri dall’Italia.
Spulciando
documenti e navigando sul web, abbiamo infatti scoperto che proprio al confine
tra KwaZulu-Natal e Free State c’è una mega-progetto idroelettrico che ha visto
in prima fila due aziende italiane e che ha fatto registrare una pletora di
problemi. Abbiamo così incrociato una vecchia conoscenza di noi di Re:Common:
la Salini Impregilo, le cui dighe nella Valle dell’Omo non siamo però riusciti
a vedere durante la nostra perigliosa missione in Etiopia – raccontata su Giap – e un progetto, poi
abortito, sulle montagne della Georgia.
Ma è stato
il partner della Salini-Impregilo che questa volta ci ha fatto drizzare le
antenne: la CMC di Ravenna. La Coop “rossa” – CMC sta per Cooperativa Muratori Cementisti – che tra le
altre cose si è occupata della progettazione e costruzione del cunicolo
esplorativo della Torino – Lione (si veda Un viaggio che non promettiamo breve). Nonostante i
numerosi appalti in Italia e in giro per il mondo, la CMC nei mesi che hanno
preceduto la nostra anabasi sudafricana – datata agosto 2019 – sui giornali
nostrani era data per moribonda. In concordato preventivo dal dicembre 2018 e con
debiti pari a 900 milioni di euro, era appena stata protagonista di uno
scandalo dalle vaste proporzioni. In Kenya la CMC
era accusata di aver pagato una tangente per ottenere gli appalti per
la realizzazione di tre dighe, il tutto con la “compiacenza” del ministro delle
Finanze del Kenya, pronto a ignorare soprattutto la disastrosa situazione
finanziaria della società italiana.
L’appalto
sarebbe stato aggiudicato per 170 milioni di dollari in più rispetto al contratto
originale di 300 milioni e il meccanismo di pagamento sarebbe stato costellato
da enormi illegalità. Inoltre, dai circa 450 milioni dell’appalto aggiudicato,
il piano finanziario avrebbe continuato a lievitare fino a quasi 600 milioni di
euro, finanziamenti pervenuti da banche consorziate europee con capofila
l’italiana Intesa-SanPaolo. Ciliegina sulla
torta, il tutto era stato garantito dalla nostra Agenzia di credito all’export
– la SACE. Quando delle dighe non si è vista neanche
l’ombra, è scoppiato il bubbone.
Al di là
delle beghe politiche all’interno dell’esecutivo di Nairobi – leggasi
regolamento di conti tra fazione vicina al primo ministro e quella più prossima
al titolare del dicastero delle finanze – sarebbe bastato dare un’occhiata a quanto
successo negli anni precedenti proprio in Sudafrica per farsi un’idea del modus
operandi della CMC.
Bastava
raccogliere informazioni sull’impianto di Ingula, per esempio,
e farsi una quarantina di minuti di macchina da Ladysmith per dare un’occhiata
all’opera. Così ci siamo finti turisti appassionati di Grandi Opere – sì,
ammettiamo che affermato da esponenti di Re:Common fa un po’ ridere – che
avendo sentito del mirabolante progetto portato a termine da due presunti
portabandiera dell’“aiutiamoli a casa loro”, volevano dare un’occhiata di
persona.
All’apparenza
non sembrerebbe impresa facile, perché l’unica strada di accesso è dotata di un
check-point a tre chilometri dall’impianto, che così di fatto è “nascosto”
dagli sguardi dei curiosi. Noi però abbiamo prenotato per tempo un tour guidato
della centrale (sic!) e siamo riusciti a passare con l’augurio di buon
divertimento da parte delle guardie armate.
L’impianto
di Ingula è una roba ben complessa: due dighe collegate da tunnel sotterranei
lunghi oltre due chilometri nei quali passa l’acqua che, tramite quattro
mega-turbine collocate in una centrale a 400 metri di profondità, dovrebbe
permettere la produzione di 1,2 gigawatt di energia. Un “prodigio
ingegneristico” costato fin troppo caro alla multi-utility statale sudafricana,
la Eskom.
Piccola
parentesi. Prima di partire per il KwaZulu-Natal, a Johannesburg abbiamo
seguito la conferenza stampa di presentazione del bilancio della Eskom. Un
lungo de profundis che ha visto il presidente Jabu Mabuza aprire
il suo intervento con l’ammissione di essere alla guida di una società
agonizzante, con una perdita di 20,7 miliardi di rand (1,3 miliardi di euro)
nell’ultimo esercizio di bilancio (19 in più rispetto all’anno precedente), un
debito schizzato a 440 miliardi di rand (27 miliardi di euro) e una prospettiva
a breve termine tutt’altro che rosea. Nemmeno i 59 miliardi di rand (3,60
miliardi di euro) iniettati dallo stato riusciranno a risolvere una crisi di
liquidità, uno dei principali motivi delle dimissioni dell’amministratore
delegato Phakamani Hadebe (il decimo dal 2010 a oggi). Buchi miliardari
provocati anche dal “prodigio ingegneristico” costruito dagli italiani.
Non a caso
appena giunti al Visitor Center di Ingula, il nostro Virgilio ci spiega subito
che la parte multimediale del tour sarebbe potuta essere più ricca, ma
purtroppo la società non naviga nell’oro, cosa che abbiamo già capito fin
troppo bene. Però il video che ci viene mostrato chiarisce come gli impatti
socio-ambientali siano stati tutto sommato limitati. Anzi, la Eskom si può
vantare di aver rilocato al meglio la dozzina di famiglie contadine presenti
nell’area e creato una riserva naturale, tutelando 350 specie di uccelli, tra
questi alcuni a rischio estinzione, anche grazie al progetto portato avanti
insieme alle organizzazioni conservazioniste Birdlife e Middlepunt Wetland. Di
conseguenze negative sulle comunità locali non ce ne sono state, anche perché
come abbiamo potuto constatare di persona qui la densità di popolazione è
bassissima.
Indossati
caschetto e giubbino di sicurezza, ci caliamo nel ventre del progetto, il
tunnel a 400 metri sotto terra dove nonostante la luce sia fioca, l’intrico di
tubature, cavi e macchinari è veramente impressionante. Riusciamo anche a
vedere due delle quattro turbine che sulla carta dovrebbero produrre energia.
Una funziona, l’altra no, con evidente imbarazzo della nostra guida. Non è una
sorpresa, dal momento che all’inizio del 2019 i media sudafricani raccontavano
di una produzione che non superava il 25 per cento della capacità
installata. Soddisfatti del nostro tour nel ventre della grande
opera, salutiamo riconoscenti la guida, evitando di porle una domanda che ci
frulla in testa da un po’: Ingula è stato un pessimo affare? Sembra proprio di
sì. A corroborare la nostra opinione ci pensano i documenti ufficiali della
Eskom, che parlano di “un difetto strutturale che impatta negativamente tutte e
quattro le turbine…una soluzione è già stata concordata con il contractor”,
ovvero il consorzio costruttore guidato da Salini-Impregilo e CMC.
Ma oltre il
danno la beffa. Non solo funziona male, l’impianto è costato pure uno
sproposito e ha subito un ritardo di oltre quattro anni, come ci ha spiegato la
giornalista Joy Summers del programma
tv Carte Blanche – l’equivalente del nostro Report.
“È anche colpa di voi italiani se la Eskom, e quindi il Sudafrica, visto che
parliamo di un’azienda pubblica, sta affogando nei debiti”. Oibò, Joy ha
ragione, il conto finale di Ingula è ancora solo provvisorio, ma già da tempo
fa tremare i polsi. Al momento si sa che nel 2005, data di inizio lavori,
l’opera sarebbe dovuta costare 8,9 miliardi di rand (554 milioni di euro),
mentre ad oggi siamo a oltre 36 miliardi (circa 2,3 miliardi di euro).
L’innalzamento dei costi si è registrato già dai primi mesi, come ci ha
illustrato un ex dipendente del consorzio costruttore, Mike Hall. “Mai vista una cosa del genere, appena si
verificava un problema i costruttori si rivalevano su Eskom, che pagava senza
fiatare anche quando le colpe erano del consorzio (e quindi di CMC e Salini,
ndr)”. Nel novembre del 2013, si è verificato un gravissimo incidente, in cui
hanno perso la vita sei operai. Secondo Hall, era una tragedia che si poteva
evitare e che sarebbe da imputare al consorzio per la mancata adozione di varie
misure di sicurezza. Ma per il quale Salini-Impregilo e CMC hanno lo stesso
preteso dei pagamenti dalla Eskom.
Anche
l’organizzazione anti-corruzione OUTA sostiene
che la storia del progetto sia a dir poco singolare. Tramite una richiesta di
accesso agli atti hanno ottenuto il contratto tra le imprese costruttrici e
l’Eskom e soprattutto la decina di addendum per i pagamenti dei bonus, che
dimostrerebbero varie anomalie.
Erich Neethling, uno dei direttori di OUTA, ci ha spiegato che tutta
la documentazione è stata inoltrata alla Special Investigating Unit (SIU),
l’unità anticorruzione sudafricana. “Ma loro non ci hanno ancora fatto sapere
nulla, al momento non abbiamo idea se stiano ancora investigando e soprattutto
fino a che punto siano arrivate le indagini”.
Una cosa
però è chiarissima, CMC ha iniziato la campagna sudafricana grazie alle buone
relazioni con il magnate delle costruzioni Philani Mavundla, a sua volta “grande amico” dell’ex
presidente Jacob Zuma, costretto alle dimissioni dopo lo scandalo Gupta (VEDI
NOTA). Mavundla era così amico di Zuma da pagare il conto per i costosi lavori
di espansione della sua villa a Nkandla.
Il
matrimonio CMC-Mavundla, rivelatosi così “fruttuoso” per Ingula, ha avuto
qualche intoppo in merito a un altro progetto da centinaia di milioni di euro,
quello per l’espansione del più grande terminal africano per container nella
città portuale di Durban è stato bloccato per accuse di frode nell’ambito di
una gara d’appalto, che coinvolgerebbero la joint venture denominata CMI
Emtateni. La CMI è composta proprio dalla CMC di Ravenna e da una società
denominata CMI Infrastructures, di cui sono condirettori Mavundla e Paolo Porcelli. Quest’ultimo è il direttore generale di
CMC, nei confronti del quale risulta emesso un mandato di cattura internazionale, legato
all’inchiesta per corruzione sulle dighe in Kenya. Per il titolare
dell’indagine, Taib Ali Taib, Porcelli è un
latitante (“a fugitive for justice“)
Badate bene,
noi crediamo fermamente nel principio della presunzione di innocenza e quindi
attendiamo i risultati delle varie inchieste in atto, augurandoci che quelle
che vanno a rilento possano trovare un pizzico di trazione in più. Però più
giriamo l’Africa e più ‘sto “aiutiamoli a casa loro” ci sembra una sonora presa
per i fondelli.
NOTA SUI GUPTA
In Sudafrica
il termine corruzione ha ormai come sinonimo il cognome di una famiglia indiana
originaria dell’Uttar Pradesh: i Gupta, al centro di
uno scandalo di vastissime proporzioni scoppiato nel 2016. Così esteso e
ramificato era il malaffare che è stato definito “State Capture”. Ovvero come
depredare impunemente e a piene mani le casse dello Stato e farla franca.
Almeno fino a un certo punto, perché il bubbone è scoppiato e ai tre fratelli
Gupta è toccato lasciare il Paese, dove erano arrivati nel 1993 per aprire una
piccola impresa di computer, per poi mettere su un impero che spaziava dal
comparto energetico a quello dei media. Sfruttando la forte “amicizia” con il
presidente Jocob Zuma, ma ormai sembra che intercorressero “buoni rapporti”
anche con i suoi predecessori Thabo Mbeki e Kgalema Motlanthe, i Gupta si sono
infiltrati in tutti i gangli dello stato, arraffando contratti per le loro
società e condizionando l’operato di grandi imprese pubbliche come Transnet ed
Eskom.
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