mercoledì 26 febbraio 2020

Giorno della Memoria: il silenzio sui “triangoli rossi” - Dario Venegoni



Ogni anno da ormai un ventennio in occasione del Giorno della Memoria su tutti i media sembra non si parli d’altro. Si potrebbe dire che in questo periodo nessun argomento abbia una copertura così capillare. Televisioni, social network, carta stampata si diffondono sull’importanza della data, per non parlare delle iniziative nelle scuole, nelle università, nei circoli, nei Comuni. Se ne parla tanto, eppure la confusione resta sovrana. Inesattezze, semplificazioni, vere e proprie fantasie trovano spazio per dispiegarsi, a dispetto delle importanti ricerche storiche e delle moltissime testimonianze dei protagonisti. Si consolidano in questo modo tesi infondate, dure a morire.
Il problema ha origini lontane, e non è di facile soluzione.
Un esempio che forse chiarirà di cosa parliamo. Al termine di tre giorni di viaggio all’interno del sistema dei campi di concentramento che i nazisti avevano allestito attorno a Mauthausen, l’Aned da anni diffonde tra i ragazzi partecipanti un questionario per avere un giudizio sull’organizzazione del viaggio e anche un riscontro sulla comprensione delle informazioni trasmesse in quei tre giorni intensi.
Nell’ultima edizione di questo questionario sono state raccolte oltre 800 risposte di ragazzi dai 13 ai 19 anni. Alla domanda specifica sui numeri della deportazione italiana nei campi nazisti, quasi tutti gli intervistati hanno risposto che vi furono certamente “moltissimi” ebrei tra i deportati dalla penisola. A seguire, in termini strettamente quantitativi, omosessuali, Rom e Sinti, testimoni di Geova. Ultimi in questa classifica, partigiani e operai scioperanti.
La realtà è stata decisamente diversa. La stragrande maggioranza degli italiani nei campi di Hitler rientrava nella grande e variegata categoria dei “politici”, che rappresentarono circa i tre quarti del totale (mentre non vi fu neanche un omosessuale deportato in quanto tale).
Chi erano questi “triangoli rossi” nei campi del Terzo Reich? Possiamo dire, in poche parole, che si trattava di una fedele rappresentanza della Resistenza italiana. Tra loro c’erano innanzi tutto i partigiani combattenti e gli antifascisti militanti di più generazioni. Diverse decine di perseguitati nel corso del ventennio fascista, schedati da tempo nel Casellario Politico Centrale, reduci dalle galere e dal confino del fascismo terminarono in Germania tra gli stenti, la fame e le torture la propria esistenza di militanti antifascisti.
(da https://www.smemoranda.it/giornata-della-memoria-i-triangoli-del-dolore/)
Accanto a loro troviamo una nutrita rappresentanza di quei lavoratori che con gli scioperi del marzo 1944 diedero una spallata potente alla Rsi, la Repubblica sociale italiana, e allarmarono definitivamente i nazisti, che videro in quegli scioperi la dimostrazione concreta che larga parte degli italiani era ormai schierata apertamente contro di loro. Anche questa, a ben vedere, era una peculiarità della Resistenza italiana, che aveva proprio nelle fabbriche alcuni dei suoi terminali più importanti. A conti fatti, la percentuale degli operai nel complesso dei deportati italiani era significativamente superiore a quella degli operai nel complesso della società italiana (che comunque conservava all’epoca un’economia prevalentemente agricola).
Accanto a questi lavoratori, gomito a gomito, sul piazzale dell’appello dei principali Lager c’erano intellettuali, professionisti, casalinghe, sacerdoti, sarti, studenti, falegnami… rappresentanti di tutti i ceti, di tutte le categorie sociali, di tutti gli orientamenti politici e ideali, allo stesso modo in cui tutte le categorie sociali erano parte di quel vasto movimento che va sotto il nome di Resistenza, Gli oltre trentamila “triangolo rossi” italiani erano in altre parole un pezzo significativo del movimento di liberazione in Italia; uomini e donne che della repressione e della violenza nazifascista hanno conosciuto il volto peggiore, più disumano, più umiliante.
Nel corso della lotta di Liberazione, come noto, vecchi rappresentanti dell’antifascismo del primo dopoguerra lavorarono fianco a fianco con ragazzi cresciuti sotto la dittatura fascista, del tutto digiuni di ogni formazione politica. Molti tra loro abbandonavano le proprie case e le caserme pur di non rispondere alla leva della Repubblica sociale italiana. Per molti di questi ragazzi la montagna fu una scuola di vita e di formazione. E tanti di loro, partiti da casa solo con l’obiettivo di sottrarsi alle camicie nere, furono poi protagonisti di veri e propri atti di eroismo partigiano.
Lo stesso accadde per coloro che furono arrestati e deportati. Non sempre, per esempio, gli arresti che fecero seguito agli scioperi colpirono i veri organizzatori del movimento; non tutti i fermati avevano avuto il medesimo ruolo nello sciopero. Eppure, diversi anche tra i più inconsapevoli si distinsero per solidarietà, per coraggio, per resistenza alle angherie delle camicie nere e delle SS, nelle carceri e poi nella deportazione.
I deportati nei Lager di Hitler, insomma, erano persone, per usare l’espressione cara alla senatrice Liliana Segre, che avevano fatto “la scelta di non essere indifferenti” in un periodo in cui questa scelta poteva costare letteralmente la vita.
Resistendo al processo di spersonalizzazione dei prigionieri pianificato dalle SS; tenendo viva la solidarietà tra persone dei più diversi Paesi; rifiutando di trasformarsi in carnefici dei propri compagni queste donne e questi uomini tennero viva l’idea della Resistenza anche in quelle condizioni estreme. Pensiamo agli uomini – e alle donne soprattutto – che a Fossoli e a Bolzano alimentarono l’organizzazione clandestina che tenne i contatti con il vertice del Clnai di Milano, che organizzò delle fughe e fece circolare informazioni e aiuti materiali per i più bisognosi. Pensiamo a Ferdinando Zidar – alla cui memoria quest’anno sarà piantato un albero commemorativo a Buchenwald – che in quel campo fece parte della struttura di comando del comitato clandestino che prese possesso del Lager prima ancora dell’arrivo degli alleati. Pensiamo ancora alle donne italiane che strinsero un’alleanza con le francesi e tennero viva la solidarietà e la resistenza a Ravensbrück. Pensiamo a chi riuscì a conservare la propria integrità di persona in quelle condizioni estreme; a coloro che a Mauthausen come negli altri campi recitavano a memoria poemi e poesie, o riuscivano a discettare di storia e di filosofia anche mentre erano piegati sotto il peso del lavoro nelle cave delle SS. Pensiamo infine ai tanti che in quell’inferno seppero progettare un’Europa nuova, di pace, di solidarietà e di amicizia tra i popoli.
Questi deportati non erano generiche “vittime”; erano irriducibili combattenti antifascisti. Forse a ben vedere è proprio per questo che su di loro, sul loro immane sacrificio, in questi anni è calato colpevolmente il silenzio. Di questi tempi il loro esempio suscita ancora imbarazzo.

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