Ogni anno da ormai un ventennio in
occasione del Giorno della Memoria su tutti i media sembra
non si parli d’altro. Si potrebbe dire che in questo periodo nessun argomento
abbia una copertura così capillare. Televisioni, social network, carta stampata si diffondono
sull’importanza della data, per non parlare delle iniziative nelle scuole,
nelle università, nei circoli, nei Comuni. Se ne parla tanto, eppure la
confusione resta sovrana. Inesattezze, semplificazioni, vere e proprie fantasie
trovano spazio per dispiegarsi, a dispetto delle importanti ricerche storiche e
delle moltissime testimonianze dei protagonisti. Si consolidano in questo modo
tesi infondate, dure a morire.
Il problema ha origini lontane, e non è di
facile soluzione.
Un esempio che forse chiarirà di cosa
parliamo. Al termine di tre giorni di viaggio all’interno del sistema dei campi
di concentramento che i nazisti avevano allestito attorno a Mauthausen, l’Aned
da anni diffonde tra i ragazzi partecipanti un questionario per avere un
giudizio sull’organizzazione del viaggio e anche un riscontro sulla
comprensione delle informazioni trasmesse in quei tre giorni intensi.
Nell’ultima edizione di questo
questionario sono state raccolte oltre 800 risposte di ragazzi dai 13 ai 19
anni. Alla domanda specifica sui numeri della deportazione italiana nei campi
nazisti, quasi tutti gli intervistati hanno risposto che vi furono certamente
“moltissimi” ebrei tra i deportati dalla penisola. A seguire, in termini
strettamente quantitativi, omosessuali, Rom e Sinti, testimoni di Geova. Ultimi
in questa classifica, partigiani e operai scioperanti.
La realtà è stata decisamente diversa. La
stragrande maggioranza degli italiani nei campi di Hitler rientrava nella
grande e variegata categoria dei “politici”, che rappresentarono circa i tre quarti
del totale (mentre non vi fu neanche un omosessuale deportato in quanto tale).
Chi erano questi “triangoli rossi” nei
campi del Terzo Reich? Possiamo dire, in poche parole, che si trattava di una
fedele rappresentanza della Resistenza italiana. Tra loro c’erano innanzi tutto
i partigiani combattenti e gli antifascisti militanti di più generazioni.
Diverse decine di perseguitati nel corso del ventennio fascista, schedati da
tempo nel Casellario Politico Centrale, reduci dalle galere e dal confino del fascismo
terminarono in Germania tra gli stenti, la fame e le torture la propria
esistenza di militanti antifascisti.
(da
https://www.smemoranda.it/giornata-della-memoria-i-triangoli-del-dolore/)
Accanto a loro troviamo una nutrita rappresentanza
di quei lavoratori che con gli scioperi del marzo 1944 diedero una spallata
potente alla Rsi, la Repubblica sociale italiana, e allarmarono definitivamente
i nazisti, che videro in quegli scioperi la dimostrazione concreta che larga
parte degli italiani era ormai schierata apertamente contro di loro. Anche
questa, a ben vedere, era una peculiarità della Resistenza italiana, che aveva
proprio nelle fabbriche alcuni dei suoi terminali più importanti. A conti
fatti, la percentuale degli operai nel complesso dei deportati italiani era
significativamente superiore a quella degli operai nel complesso della società
italiana (che comunque conservava all’epoca un’economia prevalentemente
agricola).
Accanto a questi lavoratori, gomito a
gomito, sul piazzale dell’appello dei principali Lager c’erano intellettuali,
professionisti, casalinghe, sacerdoti, sarti, studenti, falegnami…
rappresentanti di tutti i ceti, di tutte le categorie sociali, di tutti gli
orientamenti politici e ideali, allo stesso modo in cui tutte le categorie
sociali erano parte di quel vasto movimento che va sotto il nome di Resistenza,
Gli oltre trentamila “triangolo rossi” italiani erano in altre parole un pezzo
significativo del movimento di liberazione in Italia; uomini e donne che della
repressione e della violenza nazifascista hanno conosciuto il volto peggiore,
più disumano, più umiliante.
Nel corso della lotta di Liberazione, come
noto, vecchi rappresentanti dell’antifascismo del primo dopoguerra lavorarono
fianco a fianco con ragazzi cresciuti sotto la dittatura fascista, del tutto
digiuni di ogni formazione politica. Molti tra loro abbandonavano le proprie
case e le caserme pur di non rispondere alla leva della Repubblica sociale
italiana. Per molti di questi ragazzi la montagna fu una scuola di vita e di
formazione. E tanti di loro, partiti da casa solo con l’obiettivo di sottrarsi
alle camicie nere, furono poi protagonisti di veri e propri atti di eroismo
partigiano.
Lo stesso accadde per coloro che furono
arrestati e deportati. Non sempre, per esempio, gli arresti che fecero seguito
agli scioperi colpirono i veri organizzatori del movimento; non tutti i fermati
avevano avuto il medesimo ruolo nello sciopero. Eppure, diversi anche tra i più
inconsapevoli si distinsero per solidarietà, per coraggio, per resistenza alle
angherie delle camicie nere e delle SS, nelle carceri e poi nella deportazione.
I deportati nei Lager di Hitler, insomma,
erano persone, per usare l’espressione cara alla senatrice Liliana Segre, che
avevano fatto “la scelta di non essere indifferenti” in un periodo in cui
questa scelta poteva costare letteralmente la vita.
Resistendo al processo di
spersonalizzazione dei prigionieri pianificato dalle SS; tenendo viva la
solidarietà tra persone dei più diversi Paesi; rifiutando di trasformarsi in
carnefici dei propri compagni queste donne e questi uomini tennero viva l’idea
della Resistenza anche in quelle condizioni estreme. Pensiamo agli uomini – e
alle donne soprattutto – che a Fossoli e a Bolzano alimentarono
l’organizzazione clandestina che tenne i contatti con il vertice del Clnai di
Milano, che organizzò delle fughe e fece circolare informazioni e aiuti
materiali per i più bisognosi. Pensiamo a Ferdinando Zidar – alla cui memoria
quest’anno sarà piantato un albero commemorativo a Buchenwald – che in quel
campo fece parte della struttura di comando del comitato clandestino che prese
possesso del Lager prima ancora dell’arrivo degli alleati. Pensiamo ancora alle
donne italiane che strinsero un’alleanza con le francesi e tennero viva la
solidarietà e la resistenza a Ravensbrück. Pensiamo a chi riuscì a conservare
la propria integrità di persona in quelle condizioni estreme; a coloro che a
Mauthausen come negli altri campi recitavano a memoria poemi e poesie, o
riuscivano a discettare di storia e di filosofia anche mentre erano piegati
sotto il peso del lavoro nelle cave delle SS. Pensiamo infine ai tanti che in
quell’inferno seppero progettare un’Europa nuova, di pace, di solidarietà e di
amicizia tra i popoli.
Questi deportati non erano generiche
“vittime”; erano irriducibili combattenti antifascisti. Forse a ben vedere è
proprio per questo che su di loro, sul loro immane sacrificio, in questi anni è
calato colpevolmente il silenzio. Di questi tempi il loro esempio suscita
ancora imbarazzo.
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