La vicenda dell’Istituto comprensivo Via
Trionfale di Roma, che sul proprio sito ha pubblicato una minuziosa descrizione del plesso
scolastico, affermando che quest’ultimo è costituito da una una sede centrale
frequentata dai studenti ricchi e benestanti e da una succursale frequentata da
allievi in gran parte stranieri e con difficoltà economiche, ha il merito di scoperchiare uno dei tanti
vasi di Pandora della scuola italiana: il perdurare di radicati elementi di
classismo nel sistema d’istruzione nazionale (leggi anche Verso l’apartheid educativo? di
Franco Lorenzoni).
Partiamo da quanto testualmente scritto e successivamente rimosso
dall’istituto romano: “La sede di via Trionfale e il plesso di via Taverna
accolgono alunni appartenenti a famiglie del ceto medio-alto, mentre il Plesso
di via Assarotti, situato nel cuore del quartiere popolare di Monte Mario,
accoglie alunni di estrazione sociale medio-bassa e conta, tra gli iscritti, il
maggior numero di alunni con cittadinanza non italiana; il plesso di via
Vallombrosa, sulla via Cortina d’Ampezzo, accoglie, invece, prevalentemente
alunni appartenenti a famiglie dell’alta borghesia assieme ai figli dei
lavoratori dipendenti occupati presso queste famiglie (colf, badanti, autisti,
e simili)”.
La scuola, ovviamente, ha respinto, offesa e indignata, le accuse di
classismo, affermando che quanto postato non ha nulla a che fare con la
discriminazione di classe, bensì che si è trattato di una mera discrezione
socio-economica del territorio. Purtroppo, per quanto inopportuno, volgare e
sgradevole il post dalla scuola di Via Trionfale fotografa, in modo
drammatico, una realtà dei fatti
che squarcia impietosamente l’illusorio velo di Maya di una scuola italiana
fondata sull’inclusione e sulla democrazia.
Infatti, al di là delle lungimiranti indicazioni e intenzioni della
Costituzione italiana e degli innegabili progressi ottenuti nella grande
stagione dei movimenti, quella degli studenti, delle donne e degli operai nel
decennio ’68-’77 –
periodo storico che spesso il dibattito pubblico liberale volutamente riduce
agli anni “di piombo” e degli “opposti estremismi”, al fine di togliere al
presente anche la memoria di un passato in cui le lotte hanno portato maggior
emancipazione delle classi subalterne rendendo la società italiana meno
ingiusta -, il sistema scolastico continua a rimanere sostanzialmente
classista, riproducendo di fatto le disuguaglianze sociali.
La scuola d’altronde non è mondo a parte, ubicato tra la Luna e il
Sole; la scuola è una sovrastruttura
inserita, testa, mani e piedi, in un determinato contesto socio-economico di
cui essa è figlia e a cui essa sempre deve rispondere. La scuola
nata dalla Costituzione, certamente, ha avuto l’ambizione e l’anelito di fare
dell’istruzione un motore per trasformare il Paese in un luogo in cui
l’uguaglianza e l’inclusione non fossero vuote parole pronunciate al vento,
bensì pratiche concrete di democrazia reale. Ma con il trascorrere degli anni
il persistere e l’acuirsi delle disuguaglianze strutturali nella nostra società
hanno finito per divorare l’idea di costruire una scuola unitaria nazionale,
che formasse in modo uguale tutti i cittadini. Oggi la scuola della Repubblica si è frammentata sempre più in tante
scuole che rispecchiano la forza, le debolezze, le differenze e le ingiustizie
dei diversi territori e delle diverse classi sociali. Le scuole
pubbliche di serie A, B e C esistono e sono il frutto avvelenato di una
politica che ha rinunciato
all’ambizione di cambiare la realtà delle cose in una prospettiva
di giustizia, riducendosi ad amministrare lo status quo, se non addirittura a
rafforzarlo a vantaggio dei soggetti sociali dominanti.
La scuola della Costituzione soffriva certamente di idealismo e immaginava
un ideale sistema scolastico nazionale inclusivo che potesse in modo faticoso e
graduale concretizzarsi. Invece, la vivida realtà con le sue disuguaglianze e
fratture ha divorato quelle nobili prospettive di una scuola orizzontale, equa
e formativa. Negli ultimi decenni la situazione è peggiorata in modo
significativo: l’affermarsi, infatti, di un modello economico liberista su
scale planetaria.ha generato una società sempre più atomizzata e competitiva
che a sua volta ha prodotto una
scuola di mercato, in cui gli istituti sono entrati in concorrenza per
accaparrarsi gli studenti e le famiglie, mutati in veri e propri clienti.
La scuola della Repubblica che aveva l’obiettivo di essere una comunità
educante dal Nord al Sud d’Italia e dal centro alle periferie delle città, non
è mai esistita nella realtà fattuale, ma era una prospettiva figlia di un mondo
in cui la solidarietà era considerata un valore concreto per una emancipazione
al contempo individuale e collettiva. Oggi, invece, è l’orizzonte di un sistema
scolastico uguale per tutti, come luogo democratico che unisce e fa crescere
dei cittadini critici e consapevoli, è evaporata, in quanto considerata dalla
classe dirigente come una zavorra nella formazione di studenti che debbono
essere pronti per accettare le sfide del mercato globale, nella speranza di
essere dalla parte dei vincitori e non dei vinti. Oggi siamo di fronte a una scuola liquida che ha
prodotto un arcipelago di scuole, le quali raccolgono le disuguaglianze sociali
reiterandole e finalizzandole alle esigenze variabili del mercato e dello
sviluppo economico. Anche la scuola come ascensore sociale si è dissolta come
neve al sole e le rare eccezioni, che sempre ci sono e ci saranno, sono
puntualmente sbandierate come esempio dell’efficace funzionamento della meritocrazia, l’unica ideologia che
gode di una buona salute interclassista e dietro cui si nasconde la ferocia di
chi pensa e vuole che gli ultimi rimangano per sempre ultimi.
La scuola nell’era della mercificazione liberista non contempla neanche più
che l’operaio voglia il figlio dottore, poiché il realismo e l’immutabilità delle differenze sociali è
entrato così pervicacemente sotto la pelle delle persone che i figli dei poveri
e delle classe sociali meno abbienti hanno imparato e soffocare i loro sogni
sul nascere, proiettandosi in un
grigio orizzonte prossimo al mondo in cui già vivono e soffrono. La
scuola italiana, invecchiata e impoverita, non è vista dagli studenti più
poveri come una strada da percorrere per migliorare le loro condizioni
economiche, come se tutto, o quasi, fosse già scritto. Ed è cosi che
nell’Italia del 2020 esistono più che mai le scuole della ricca borghesia, i
cui figli devono diventare medici, notai, imprenditori e dirigenti, le scuole
della piccola borghesia, i cui figli spereranno di migliorare o almeno
continuare le condizioni dei genitori, e le scuole dei poveri, di chi fatica ad
arrivare a fine mese, i cui figli sono destinati a diventare lavoratori precari
e malpagati.
La scuola dei ricchi e dei poveri non è la
stupida gaffe di una scuola romana, bensì è una amara e triste realtà che
possiamo riscontrare sia nelle grandi città, da Milano a Torino, da Bologna a
Palermo, sia nelle molteplici realtà della provincia italiana. Solo chi infila la
testa sotto terra come gli struzzi, per non vedere, non vede il classismo
persistente dell’istruzione italiana.
Una scuola autenticamente democratica e inclusiva sorgerà solo quando
avremo costruito, con tenacia e fatica, una società giusta e democratica. Non
ci sono alternative. Pertanto o ci muniamo di chiodi e martello e iniziamo a
trasformare autenticamente la realtà o la scuola come luogo di democrazia e di
emancipazione sarà destinata a rimanere una ipocrisia descritta da governi e
ministri o tuttalpiù una utopia a cui tendere per reggere le miserie del presente.
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