Cosa voleva
dire essere Qassem Soleimani? Significava appartenere alla prima linea di un
conflitto cominciato più di 40 anni fa e passato di generazione in generazione.
Con tutte le sue contraddizioni: dal dolore espresso negli oceanici funerali
del generale alla rabbia popolare per l’”errore umano” che ha abbattuto con un
missile il Boeing ucraino, e in mezzo la volutamente contenuta ritorsione
iraniana sulle basi Usa irachene.
Le cronache
di inizio anno ci hanno restituito la storia drammatica di un Paese _ non solo
di un regime _ che lotta per la sopravvivenza, oscillando da decenni tra
l’affermazione nazionalista e religiosa, l’isolamento e la disfatta. In
una condizione di “solitudine strategica”, come la definisce l’ultima
corrispondente dell’Ansa da Teheran nel suo libro fresco di stampa “L’Iran al
tempo di Trump” (Castelvecchi).
Ma la
partita mediorientale non è ancora decisa. L’Iran è sempre stato abile a
spezzare questa “solitudine strategica” sfruttando gli errori dei nemici, le
debolezze di alleati (Siria e Iraq), le ambiguità dei vicini (Turchia) e
soprattutto gli interessi globali di Mosca e Pechino nel loro confronto con gli
Stati uniti
Un pezzo
importante dell’ascesa della Mezzaluna sciita si deve proprio a Soleimani e
all’errore più clamoroso compiuto dagli Usa: l’invasione dell’Iraq nel 2003
giustificata con le false prove sulle armi di distruzione di massa di Saddam
Hussein.
Prima della
caduta del raìs iracheno, che ha precipitato il Medio Oriente nel caos,
l’influenza e il raggio d’azione iraniani erano assai più limitati. L’accordo
con Teheran sul nucleare voluto da Obama nel 2015 aveva proprio lo scopo di
contenere l’Iran, reintegrarlo nel sistema internazionale e rimediare, in
parte, agli errori precedenti.
Un’occasione
volutamente perduta. Con la decisione di Trump nel 2018 di stracciare questa
intesa, gli Usa _ in accordo con Israele_ hanno aperto una nuova fase, quella
della “massima pressione” contro Teheran, alla base della quale c’è l’idea
che un Iran indebolito e strangolato e dalle sanzioni possa sottomettersi agli
americani e negoziare. Ma le pressioni di Trump favoriranno soltanto alle
prossime elezioni parlamentari del 21 febbraio l’ala radicale e non i moderati
che avevano scommesso sul dialogo con l’occidente.
L’Iran al
tempo di Trump resiste, come in passato. Se dovessimo guardare i risultati
militari la repubblica islamica, 40 anni dopo l’attacco di Saddam Hussein del
settembre 1980 _ a un anno dalla rivoluzione sciita di Khomeini _ potrebbe
essere quasi soddisfatta. Anche allora era sotto sanzioni per la presa degli
ostaggi nell’ambasciata Usa di Teheran e Saddam la invase, rifornito di armi
russe e occidentali, con il sostegno delle monarchie del Golfo e dei sauditi
che gli elargirono 50 miliardi di dollari in otto anni di guerra.
Sappiamo
come è andata a finire: una guerra con un milione di morti che non ha spostato
di un centimetro il confine sullo Shatt el Arab.
Nel
settembre scorso gli iraniani e i loro alleati yemeniti Houthi, con droni e
missili, hanno messo in ginocchio due dei principali impianti petroliferi
sauditi, i loro principali rivali regionali insieme a Israele. Una disfatta per
Riad tenendo conto che l’import di armi dell’Iran è del 3,5% rispetto
all’Arabia Saudita che ha un Pil doppio rispetto a Teheran e spende per la
difesa sei-sette volte di più ogni anno.
Oggi le
monarchie più moderate del Golfo, dall’Oman, al Qatar, al Kuwait, ma anche agli
stessi Emirati _ classificati tra i “falchi” _ si fidano ben poco
dell’avventurismo dei sauditi e dopo l’omicidio di Soleimani ancora meno degli
Usa, temendo una guerra in casa. Se Teheran gioca bene le sue carte anche
queste sono sponde importanti.
La
“profondità strategica” iraniana per il momento è salva. Il dittatore siriano
Assad, grazie a russi, è ancora in sella, gli Hezbollah pure e nonostante le
insidie delle rivolte libanesi e irachene la Mezzaluna sciita non si è spenta.
Ma è appannata dalle sanzioni e dalle prospettive future.
L’Iran al
tempo di Trump è soprattutto a trazione cinese: Pechino è il pilastro
dell’”economia della resistenza”. La Cina è il principale mercato di export del
petrolio dell’Iran, il maggiore fornitore di armi (insieme alla Russia) e
componenti industriali.
Il petrolio
in Iran paga tutto. Ma le ultime sanzioni americane sull’export hanno colpito
duro. L’inflazione è al 38%, il rial ha perso il 60% sul dollaro. Il governo
iraniano del presidente Hassan Rohani è sempre più dipendente dalle entrate
fiscali. Anche l’Economia-Pasdaran e le Bonyad, le Fondazioni religiose, che
insieme controllano l’80 dell’economia, ne risentono fortemente. Le tasse sono
proiettate nel tempo a superare il 50% del budget: significa che i cittadini,
pagando di tasca loro, forse vorranno avere una maggiore voce su come vengono
spesi i soldi e da chi.
Questa è una
transizione da non sottovalutare. Soprattutto se entra in crisi il tradizionale
welfare state come è accaduto con il taglio dei sussidi sul carburante che ha
scatenato le rivolte di novembre. Le Bonyad, per esempio, non pagano
tasse. La più grande è la Setad che risponde alla Guida Suprema Ali Khamenei e
controlla un impero stimato 95 miliardi di dollari. E’ uno dei principali
partner dei cinesi.
La Cina a
Teheran è un attore fondamentale mentre gli europei, incapaci di aggirare le
sanzioni e ricattati da Trump sui dazi, sempre più sottomessi alla destra
israeliana e a demenziali piani di pace mediorientali, contano sempre meno. La
“solitudine strategica” iraniana è diventata, in parte, anche la nostra.
Nessun commento:
Posta un commento