venerdì 14 febbraio 2020

L’ingannevole “solitudine strategica” dell’Iran - Alberto Negri




Cosa voleva dire essere Qassem Soleimani? Significava appartenere alla prima linea di un conflitto cominciato più di 40 anni fa e passato di generazione in generazione. Con tutte le sue contraddizioni: dal dolore espresso negli oceanici funerali del generale alla rabbia popolare per l’”errore umano” che ha abbattuto con un missile il Boeing ucraino, e in mezzo la volutamente contenuta ritorsione iraniana sulle basi Usa irachene.
Le cronache di inizio anno ci hanno restituito la storia drammatica di un Paese _ non solo di un regime _ che lotta per la sopravvivenza, oscillando da decenni tra l’affermazione nazionalista e religiosa, l’isolamento e la disfatta. In una condizione di “solitudine strategica”, come la definisce l’ultima corrispondente dell’Ansa da Teheran nel suo libro fresco di stampa “L’Iran al tempo di Trump” (Castelvecchi).
Ma la partita mediorientale non è ancora decisa. L’Iran è sempre stato abile a spezzare questa “solitudine strategica” sfruttando gli errori dei nemici, le debolezze di alleati (Siria e Iraq), le ambiguità dei vicini (Turchia) e soprattutto gli interessi globali di Mosca e Pechino nel loro confronto con gli Stati uniti
Un pezzo importante dell’ascesa della Mezzaluna sciita si deve proprio a Soleimani e all’errore più clamoroso compiuto dagli Usa: l’invasione dell’Iraq nel 2003 giustificata con le false prove sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein.
Prima della caduta del raìs iracheno, che ha precipitato il Medio Oriente nel caos, l’influenza e il raggio d’azione iraniani erano assai più limitati. L’accordo con Teheran sul nucleare voluto da Obama nel 2015 aveva proprio lo scopo di contenere l’Iran, reintegrarlo nel sistema internazionale e rimediare, in parte, agli errori precedenti.
Un’occasione volutamente perduta. Con la decisione di Trump nel 2018 di stracciare questa intesa, gli Usa _ in accordo con Israele_ hanno aperto una nuova fase, quella della “massima pressione” contro Teheran, alla base della quale c’è l’idea che un Iran indebolito e strangolato e dalle sanzioni possa sottomettersi agli americani e negoziare. Ma le pressioni di Trump favoriranno soltanto alle prossime elezioni parlamentari del 21 febbraio l’ala radicale e non i moderati che avevano scommesso sul dialogo con l’occidente.
L’Iran al tempo di Trump resiste, come in passato. Se dovessimo guardare i risultati militari la repubblica islamica, 40 anni dopo l’attacco di Saddam Hussein del settembre 1980 _ a un anno dalla rivoluzione sciita di Khomeini _ potrebbe essere quasi soddisfatta. Anche allora era sotto sanzioni per la presa degli ostaggi nell’ambasciata Usa di Teheran e Saddam la invase, rifornito di armi russe e occidentali, con il sostegno delle monarchie del Golfo e dei sauditi che gli elargirono 50 miliardi di dollari in otto anni di guerra.
Sappiamo come è andata a finire: una guerra con un milione di morti che non ha spostato di un centimetro il confine sullo Shatt el Arab.
Nel settembre scorso gli iraniani e i loro alleati yemeniti Houthi, con droni e missili, hanno messo in ginocchio due dei principali impianti petroliferi sauditi, i loro principali rivali regionali insieme a Israele. Una disfatta per Riad tenendo conto che l’import di armi dell’Iran è del 3,5% rispetto all’Arabia Saudita che ha un Pil doppio rispetto a Teheran e spende per la difesa sei-sette volte di più ogni anno.
Oggi le monarchie più moderate del Golfo, dall’Oman, al Qatar, al Kuwait, ma anche agli stessi Emirati _ classificati tra i “falchi” _ si fidano ben poco dell’avventurismo dei sauditi e dopo l’omicidio di Soleimani ancora meno degli Usa, temendo una guerra in casa. Se Teheran gioca bene le sue carte anche queste sono sponde importanti.
La “profondità strategica” iraniana per il momento è salva. Il dittatore siriano Assad, grazie a russi, è ancora in sella, gli Hezbollah pure e nonostante le insidie delle rivolte libanesi e irachene la Mezzaluna sciita non si è spenta. Ma è appannata dalle sanzioni e dalle prospettive future.
L’Iran al tempo di Trump è soprattutto a trazione cinese: Pechino è il pilastro dell’”economia della resistenza”. La Cina è il principale mercato di export del petrolio dell’Iran, il maggiore fornitore di armi (insieme alla Russia) e componenti industriali.
Il petrolio in Iran paga tutto. Ma le ultime sanzioni americane sull’export hanno colpito duro. L’inflazione è al 38%, il rial ha perso il 60% sul dollaro. Il governo iraniano del presidente Hassan Rohani è sempre più dipendente dalle entrate fiscali. Anche l’Economia-Pasdaran e le Bonyad, le Fondazioni religiose, che insieme controllano l’80 dell’economia, ne risentono fortemente. Le tasse sono proiettate nel tempo a superare il 50% del budget: significa che i cittadini, pagando di tasca loro, forse vorranno avere una maggiore voce su come vengono spesi i soldi e da chi.
Questa è una transizione da non sottovalutare. Soprattutto se entra in crisi il tradizionale welfare state come è accaduto con il taglio dei sussidi sul carburante che ha scatenato le rivolte di novembre. Le Bonyad, per esempio, non pagano tasse. La più grande è la Setad che risponde alla Guida Suprema Ali Khamenei e controlla un impero stimato 95 miliardi di dollari. E’ uno dei principali partner dei cinesi.
La Cina a Teheran è un attore fondamentale mentre gli europei, incapaci di aggirare le sanzioni e ricattati da Trump sui dazi, sempre più sottomessi alla destra israeliana e a demenziali piani di pace mediorientali, contano sempre meno. La “solitudine strategica” iraniana è diventata, in parte, anche la nostra.

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