(intervista di Umberto De Giovannangeli)
“Non si
costruisce la pace umiliando un popolo. Credo nella potenza dell’ascolto, e la
comunità internazionale dovrebbe ascoltare le voci che giungono da Gaza e dalla
Cisgiordania: voci di sofferenza, di disperazione, ma anche voci di tanti che
non rinunciano a rivendicare il diritto di vivere da donne e uomini liberi in
uno Stato indipendente”.
Ad
affermarlo è Mairead Corrigan Maguire, Premio Nobel per la Pace nel 1976. Nata
a Belfast da famiglia cattolica, Maguire, decise di dedicarsi alla pace nel suo
Paese dopo che i tre figli della sorella furono investiti e uccisi da un’auto
di cui aveva perso il controllo un membro dell’esercito repubblicano irlandese,
colpito poco prima a morte da un soldato inglese. A seguito di quella tragedia
la sorella si tolse la vita e Mairead fondò con Betty William, con cui ha
condiviso il Nobel, il movimento “Donne per la pace”. Maguire è
anche presidente della Nobel Women’s Initiative, la fondazione che unisce le
donne insignite di questo prestigioso riconoscimento.
Dopo la
presentazione del “Piano del secolo” di Donald Trump, i Territori sono tornati
a infiammarsi. Quello della violenza è l’unico “linguaggio” parlato e praticato
in Terrasanta?
“Sono da
sempre fautrice della disobbedienza civile e della resistenza non violenta. Ho
vissuto gli anni terribili della guerra in Ulster e la mia famiglia ha pagato
un prezzo pesantissimo in quel conflitto. Ho imparato allora la potenza del
dialogo, dell’unirsi per chiedere pace, perché l’altro da sé non venisse visto
come un nemico ma come qualcuno con cui incontrarsi a metà strada. Ma Israele
sta abusando della sua forza, e nel farlo commette un grave errore…”.
Quale?
“L’errore d’illudersi che la pace e la sicurezza possano essere garantite e preservate dalla forza militare. Non è così. La pace, per essere davvero tale, deve coniugarsi con la giustizia. Senza giustizia non c’è pace. E non c’è pace quando un popolo è sotto occupazione, quando viene derubato della sua terra o segregato in villaggi-prigione. Quello palestinese è un popolo giovane, e intere generazioni sono nate e cresciuto sotto occupazione, passando da un conflitto all’altro, senza speranza, con la sola rabbia come compagna. E dove c’è rabbia, dove la quotidianità è sofferenza, è impossibile che cresca la speranza”.
“L’errore d’illudersi che la pace e la sicurezza possano essere garantite e preservate dalla forza militare. Non è così. La pace, per essere davvero tale, deve coniugarsi con la giustizia. Senza giustizia non c’è pace. E non c’è pace quando un popolo è sotto occupazione, quando viene derubato della sua terra o segregato in villaggi-prigione. Quello palestinese è un popolo giovane, e intere generazioni sono nate e cresciuto sotto occupazione, passando da un conflitto all’altro, senza speranza, con la sola rabbia come compagna. E dove c’è rabbia, dove la quotidianità è sofferenza, è impossibile che cresca la speranza”.
Lei ha
visitato più volte Gaza e altre volte è stata respinta da Israele. Come ci si
sente nei panni di “nemica d’Israele”?“Sì ho visitato più volte la Striscia di Gaza, ed è
stata una esperienza straziante. Quella di Gaza e della sua gente è una
situazione disperata, prodotta in massima parte dall’embargo imposto da Israele
e che dura ormai da oltre undici anni. Oggi a Gaza vivono,
secondo dati delle Nazioni Unite, 1,6 milioni di persone, di cui la metà
minorenni. E vivono, se si può chiamar vita la loro, in una prigione a cielo
aperto. Undici anni d’inferno, di guerre, di distruzione. Israele ha il
diritto a difendersi, ma ciò che sta subendo la popolazione civile della
Striscia va ben al di là di un eccesso di legittima difesa. Siamo di fronte a
punizioni collettive che vengono inflitte indistintamente a civili e miliziani,
e che colpiscono soprattutto i più deboli: i bambini, gli anziani, i malati. A
Gaza è razionata l’elettricità, le fogne sono a cielo aperto, negli ospedali
comincia a scarseggiare il plasma e per i più piccoli il latte in polvere.
Questo non è diritto di difesa, questo è un crimine contro cui ogni coscienza
libera dovrebbe ribellarsi in nome dell’umanesimo che è un valore che
appartiene a tutti e che tutti dovrebbero praticare, come più volte ha ripetuto
Papa Francesco. Quanto poi ai ‘panni’ a cui lei fa riferimento, quei ‘panni’,
per usare la sua metafora, io non li ho mai indossati. Ho imparato sulla mia
pelle cosa significhi discriminazione e odio. Io mi sento amica d’Israele e un
amico vero è quello che prova a convincerti che stai sbagliando, che
proseguendo su una certa strada finirai male. È questo che provo a dire agli
israeliani: riconoscere il diritto dei palestinesi a uno Stato indipendente, al
fianco del vostro Stato, porre fine all’embargo a Gaza e alle inumane punizioni
collettive, è fare onore a voi stessi, alla vostra storia. È investire su un
futuro di pace che non potrà mai essere realizzato con le armi. Lo ripeto: non
si può spacciare l’oppressione come difesa. Questo è immorale. La
colonizzazione non favorisce la pace, ma alimenta l’ingiustizia. Da tempo nei
Territori vige un sistema di apartheid e denunciarlo non significa essere
“nemica d’Israele” e tanto meno antisemita. Significa guardare in faccia la
realtà”.
La questione
palestinese sembra essere uscita dall’agenda dei leader mondiali.
“È terribile il solo pensare che per “far notizia” si debba usare l’arma del terrore. È una cosa terribile, contro cui continuerò a battermi in ogni dove. La violenza è un vicolo cieco, un cammino insanguinato. Ma cinque milioni di palestinesi non sono diventati tutto ad un tratto dei “fantasmi”. Non si sono volatilizzati. Continuano a vivere sotto occupazione e sotto un’apparente “tranquillità” cresce la rabbia, la frustrazione, sentimenti sui quali possono far presa gruppi estremisti. Per questo occorre rilanciare il dialogo dal basso, favorire le azioni non violente, la disobbedienza civile, e in questa pratica unire palestinesi e israeliani, musulmani, cristiani, ebrei, come riuscimmo a fare noi in Irlanda del Nord, marciando insieme cattolici e protestanti. E poi c’è la diplomazia, la politica, che è fatta anche di atti simbolici che possono avere in prospettiva un grande peso”.
“È terribile il solo pensare che per “far notizia” si debba usare l’arma del terrore. È una cosa terribile, contro cui continuerò a battermi in ogni dove. La violenza è un vicolo cieco, un cammino insanguinato. Ma cinque milioni di palestinesi non sono diventati tutto ad un tratto dei “fantasmi”. Non si sono volatilizzati. Continuano a vivere sotto occupazione e sotto un’apparente “tranquillità” cresce la rabbia, la frustrazione, sentimenti sui quali possono far presa gruppi estremisti. Per questo occorre rilanciare il dialogo dal basso, favorire le azioni non violente, la disobbedienza civile, e in questa pratica unire palestinesi e israeliani, musulmani, cristiani, ebrei, come riuscimmo a fare noi in Irlanda del Nord, marciando insieme cattolici e protestanti. E poi c’è la diplomazia, la politica, che è fatta anche di atti simbolici che possono avere in prospettiva un grande peso”.
Un atto del
genere quale potrebbe essere a suo avviso?
“Il riconoscimento dello Stato di Palestina. Un atto politicamente forte, che faccia rivivere l’idea di una pace fondata sul principio “due popoli, due Stati”. Sarebbe un bel segnale se fosse l’Europa, come Unione e non solo come singoli Paesi membri, a rilanciare questa prospettiva. In nome di una pace nella giustizia. La pace vera. Un mondo senza guerra e violenza è possibile”.
“Il riconoscimento dello Stato di Palestina. Un atto politicamente forte, che faccia rivivere l’idea di una pace fondata sul principio “due popoli, due Stati”. Sarebbe un bel segnale se fosse l’Europa, come Unione e non solo come singoli Paesi membri, a rilanciare questa prospettiva. In nome di una pace nella giustizia. La pace vera. Un mondo senza guerra e violenza è possibile”.
Lei parla
della forza del dialogo. Ma dopo la presentazione del “Piano del secolo”, il
presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmud Abbas, ha deciso di
azzerare le relazioni con Stati Uniti e Israele.
“Non voglio
invadere campi che non sono di mia pertinenza né sostituirmi a leader politici.
Ma so, per esperienza diretta, che la pace non si può imporre dall’esterno e,
soprattutto, non può non tenere conto delle aspettative di ambedue i
contraenti. Non mi pare che il Piano presentato dal presidente degli Stati
Uniti vada in questa direzione né aiuti il dialogo. Quello palestinese, come lo
è un altro popolo che ho imparato a conoscere e ad amare, quello siriano, è un
popolo fiero di sé, della propria identità nazionale e che ama la sua terra. E
quel “sua” è indicato, nei confini, da due risoluzioni delle Nazioni Unite. Una
pace giusta è una pace tra pari. Ma questa visione non la ritrovo nel piano
americano. Un piano troppo squilibrato, unilaterale, divisivo. E per questo
ingiusto”.
Dalla
Palestina alla martoriata Siria, altro Paese che lei ha visitato più volte.
Sulla Siria è tornata a incombere una cappa di silenzio. Dell’invasione turca
del Nord della Siria, della fine della popolazione curda non si hanno più
notizie: sono scomparsi dalle prime pagine dei giornali. Non sembrano fare più
notizia. Eppure la sofferenza dei civili continua, come dimostrano le storie di
bambini morti di freddo e di stenti a Idlib...
”Dimenticare
la Siria non risponde ad una logica meramente mediatica, per la quale alla fine
una tragedia, un conflitto finiscono per stancare, non ‘fanno più notizia’. Ma
sarebbe riduttivo fermarsi a questa pur constatazione. Il fatto è che dietro
questo colpevole silenzio c’è la responsabilità di una comunità internazionale
che, in molti dei suoi attori globali e regionali, ha da anni fatto della Siria
il campo di battaglia di guerra per procura condotta da quei Paesi che hanno
come unico interesse quello di spartirsi il territorio siriano, e non
importa se ciò significa morte, distruzione, milioni di persone costrette a
fuggire dalle loro case, da città e villaggi ridotti a un cumulo di macerie.
Dov’è la giustizia, dov’è l’umanità in Siria? Ciò che accade in Siria, e non da
oggi, è qualcosa di terribile, di devastante, che oltre al dolore dovrebbe
suscitare in ogni coscienza umana un moto di indignazione e di rabbia. Un
popolo intero è vittima di una guerra per procura portata avanti da potenze che
hanno finanziato e alimentato il terrorismo. Nei miei viaggi in quel Paese
martoriato ho avuto modo di parlare con tanti siriani di ogni etnia e fede
religiosa: sciiti, alawiti, sunniti, cristiani…Ho trovato in loro non solo una
sofferenza indicibile ma anche una straordinaria dignità e un desiderio comune:
vivere in pace. La Siria, mi hanno detto in molti, non sta vivendo una guerra
civile ma una invasione straniera. In Occidente si pensa che la Siria sia
popolata solo da combattenti e sfollati, ma non è così, perché nonostante tutto
ciò che hanno dovuto subire, sono ancora in tanti, la grande maggioranza, a
credere e lavorare per la riconciliazione, per superare la paura e per
mantenere unito il loro Paese che altri vorrebbero dividere, realizzando
protettorati confessionali. Una delle colpe della comunità internazionale è di
non aver voluto ascoltare queste voci, sostenerle, riconoscerle. Ma questa
Siria del dialogo esiste e rappresenta l’unica speranza per un futuro di pace.
E’ la Siria di quanti rifiutano tutte le violenze e continuano a lavorare
per la risoluzione dei conflitti attraverso la negoziazione e l'attuazione di
un processo democratico. La pace va sostenuta e non boicottata. Mi lasci
aggiungere che non c’è pace senza giustizia e senza il rispetto dei diritti
delle minoranze, di ogni minoranza”.
Oggi a
lottare per i propri diritti, per la loro stessa esistenza, sono i curdi
siriani nel mirino delle armate turche.
“E’
l’ennesimo, tragico capitolo di una storia di violenza che sembra non avere mai
fine. In ciò che accade non c’è nulla di naturale, non siamo di fronte a un
cataclisma, a un terremoto: siamo di fronte all’esercizio della forza da parte
di uno dei Paesi, non il solo, che sta portando avanti da tempo il proprio
disegno di potenza in Siria”.
In molti
hanno parlato e scritto di tradimento da parte dell’Occidente, a partire dagli
Usa, che ha pugnalato alle spalle coloro che avevano combattuto l’Isis.
”Lei parla
di Occidente, io aggiungerei anche quei Paesi arabi che l’Isis l’hanno
sostenuta, addirittura creata, con l’obiettivo di distruggere lo Stato siriano.
Se un giorno dovesse celebrarsi una Norimberga siriana, sul banco degli
accusati dovrebbero sedersi in tanti. In questo caso, non si vuole colpire solo
una minoranza che rivendica, giustamente, i propri diritti. Ciò che s’intende
colpire è anche il modello di democrazia che i curdi siriani hanno cercato di
realizzare, fondato sulla convivenza e la condivisione e non sull’esclusione in
base all’appartenenza etnica o religiosa. E’ questa idea di democrazia che fa
paura ai signori della guerra, quelli che mirano a trasformare la Siria in
tanti protettorati confessionali. I curdi sono un popolo, non una confessione
religiosa; un popolo disperso, nel quale convivono musulmani e cristiani, e le
stesse istituzioni che i curdi siriani hanno realizzato nel Rojava sono
espressione di una idea di democrazia che non fa discriminazioni religiose o di
genere. Non stanno rivendicando uno Stato a parte, smembrato dalla Siria, ma il
diritto a preservare la loro esperienza che potrebbe essere utile ad un
confederalismo democratico su cui costruire la nuova Siria”.
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