L’articolo 33 è stato dissolto attraverso la strutturazione di un
impianto ideologico e pratico pesantemente autoritario, nel quale il talento e
la responsabilità culturale di ogni singolo docente vengono sostituiti da una
serie di metodologie imposte dall’alto e verticisticamente calate nella pratica
didattica quotidiana. Lo strumento formalmente tecnico ma sostanzialmente
ideologico per conseguire tale risultato è la cosiddetta valutazione. Leggere i documenti
internazionali e le loro implementazioni italiane significa osservare
quasi in vitro che
cosa significhi il disprezzo verso l’argomentazione scientifica da parte degli
apparati preposti al controllo e alla formazione di un cittadino passivo. Il
tono e lo stile di tali documenti sono infatti rigidi, gergali, autocelebrativi
e intimidatori verso insegnanti e docenti che non intendono obbedire a quanto
da essi prescritto. «Dietro l’apparente neutralità oggettiva del dato numerico,
siamo sottoposti ad una costante ‘intimidazione matematica’, ad una ‘tirannia
della metrica’ che alimenta sentimenti collettivi di inadeguatezza e
competizione e funge da base pseudo-scientifica delle nuove ‘politiche
dell’emergenza’». I dati che
questi documenti, questionari, rapporti, decaloghi, raccomandazioni, espongono,
difendono, esaltano, si fondano in realtà su una «finzione iper-semplificatrice
che ignora le specificità dei contesti, delle condizioni storico-geografiche e
sociali. Tutto è sostituibile dall’apparente neutralità e oggettività di
indicatori numerici».
(Questo post, che discute il libro a cura di S. Colella, D. Generali e F.
Minazzi, La scuola dell’ignoranza, Mimesis, Milano-Udine
2019, è apparso sul numero 21 (Anno X – Gennaio 2020) di Vita
pensata, pp. 15-21, Scuola, Società, Costituzione)
Agnotologia
L’agnotologia è un ambito di studi fondato dallo storico della scienza
Robert Proctor per analizzare «i sistemi di produzione dell’ignoranza»1.
Un ambito che trova nelle riforme al sistema scolastico-universitario attuate a
partire dal 1996 un oggetto privilegiato di indagine. Fu allora infatti che in
Italia il Ministero guidato da Luigi Berlinguer promosse una riforma deleteria, che non
dissolse totalmente il sistema formativo italiano solo perché non gli venne
permesso di portarla a termine. I danni che comunque vennero inflitti al
sistema furono enormi e possono considerarsi il vero punto di tracollo della
scuola italiana, che perse molta della sua precedente connotazione e della sua
capacità formativa. I ministri e i governi successivi, diversi per colore
politico, ma non per la volontà di tagliare le spese di scuola e ricerca,
fecero il resto, portando l’istituzione alle condizioni in cui ora si trova2 .
I ministri e i governi successivi, infatti, qualunque sia stato il loro
colore e appartenenza politica, hanno proseguito sui binari aperti da
Berlinguer e dai gruppi di didatticisti e tecnici ministeriali che da allora
controllano saldamente il sistema educativo e formativo italiano.
L’azione dei governi non nasce ovviamente dal nulla. Essa germina
dall’attacco liberista ai principi e alla pratica della giustizia sociale che
le politiche keynesiane del Secondo dopoguerra avevano garantito in Europa, le
quali sono state sostituite dai modelli e dalle forme del liberismo più
estremo, il quale ha inflitto uno «straordinario vulnus alle
democrazie liberali» mediante la «deregolamentazione delle finanza,
adeguatamente limitata nelle sue operazioni dopo il crollo di Wall Street del
1929 e recentemente liberalizzata dalla Thatcher e da Reagan e poi, a cascata,
un po’ ovunque nell’area del mercato globalizzato dominato dal neo-liberismo»3.
Nell’ambito educativo una simile opzione ideologica ha indicato come obiettivo
la creazione di una «personalità dello studente totalmente uniformata agli
stimoli che derivano dal mondo esterno, fortemente condizionati dall’imperativo
economico e dalla necessità di fondare personalità orientate al consumo»4.
Uno degli effetti principali e più gravi di questo attacco è il tramonto della
funzione di ‘ascensore sociale’ per individui e classi meno abbienti, funzione
che una scuola democratica può e deve svolgere.
La Costituzione della
Repubblica Italiana, artt. 33 e 34
Venendo all’Italia, gli articoli 33 e 34 della Costituzione repubblicana
affermano che «l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento»
(art. 33) e che «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi hanno diritto
di raggiungere i gradi più alti degli studi» (art. 34). Un insegnamento che sia
libero nell’articolazione metodologica e nello stile della trasmissione
culturale. Un raggiungimento dei gradi più alti degli studi che non può essere
garantito a tutti ma ai capaci e meritevoli, anche se in condizioni
socioeconomiche disagiate.
L’articolo 33 è stato dissolto attraverso la strutturazione di un impianto
ideologico e pratico pesantemente autoritario, nel quale il talento e la
responsabilità culturale di ogni singolo docente vengono sostituiti da una
serie di metodologie imposte dall’alto e verticisticamente calate nella pratica
didattica quotidiana. Il principio di autorità –che è sempre stato in contrasto
con lo spirito scientifico– ha progressivamente cancellato ogni dialogo,
argomentazione e critica, mediante una singolare «fusione fra la supponente
arroganza e il dogmatismo autoritario di tradizione stalinista e la più
ignorante e becera mentalità aziendalistica»5. Nella scuola
disegnata dalle riforme i docenti hanno possibilità di progredire professionalmente
ed economicamente soltanto se sono «disposti a partecipare al sistema,
mostrandogli fedeltà, e non tenendo conto della numerosa letteratura critica
che lo contesta e che ne denuncia la mancanza di fondazione scientifica, anzi
l’esito didattico regressivo»6.
Scuola e università subiscono una vera e propria reductio ad
mercaturam, per la quale gli insegnanti, mutuando il linguaggio aziendale, sono
considerati risorse umane e vengono gestiti al pari di
strumenti finanziari e strutturali con efficienza ed efficacia, in
un’ottica di tipo aziendalista tesa a contenere i costi per massimizzare i
profitti (nel senso degli esiti)7.
Lo strumento formalmente tecnico ma sostanzialmente ideologico per
conseguire tale risultato –che, ripeto, in Italia cancella l’art. 33 della
Costituzione– è la cosiddetta valutazione, per la quale già l’acuta
analisi di Valeria Pinto aveva coniato una formula foucaultiana: Valutare
e punire. Misurare è infatti comandare. Imporre un criterio di
valutazione è come imporre un linguaggio. Significa costringere altri a
impegnare se stessi e il proprio agire su un territorio scelto da chi valuta,
con parametri che sono tanto più di parte quanto più si presentano come
oggettivi, con interpretazioni tanto più insidiose quanto più danno a intendere
di essere invece dei semplici fatti. «In tutte le società organizzate gli
strumenti di misura e selezione sono stati annoverati tra gli attributi del
potere, spesso investiti di carattere sacro»8.
Pinto evidenzia una distinzione concettuale tanto semplice quanto spesso
inavvertita, il fatto che qualità è parola duplice. Indica ciò
di cui qualcosa è fatto e anche il giudizio che si enuncia sul suo valore
comparandolo con quello di altre cose. Una qualità sostanziale e
una qualità intesa come controllo formale. Nella valutazione della
ricerca scientifica il secondo significato è sempre più in aperto conflitto con
il primo. ANVUR, INVALSI, AVA, GEV, VQR, ASN sono gli acronimi italiani con i
quali i decisori politici di ogni colore stanno da tempo operando per
sottomettere il sapere e i suoi portatori a un giuramento interiore il cui
slogan è ‘Credere Valutare Eseguire’.
Credere che la prospettiva di una valutazione eteronoma, formale e uniforme
migliorerà automaticamente la ricerca; credere senza bisogno di argomentazioni;
credere anche quando –come nel caso della elefantiaca e bizzarra azione
dispiegata in Italia dall’Agenzia Nazionale per la Valutazione del sistema
Universitario e della Ricerca– chi pretende tale atto di fede si mostra
«variamente incapace di raggiungere gli obiettivi proposti»,
autogiustificandosi e autoassolvendosi –non valutandosi insomma– anche di
fronte a «una massa di errori tecnici davvero impressionante e carica di
conseguenze per i singoli (ma solo per i singoli?)»9.
Valutare non i contenuti che ogni singolo ricercatore crea ma le sedi nelle
quali espone i risultati della sua ricerca; valutare non il che cosa ma
il dove, nella dogmatica certezza che il luogo nel quale si
espongono i risultati renda magicamente efficace –nel senso antropologico– il
loro contenuto; valutare non lo specifico contributo di uno studioso alla
ricchezza della scienza –modalità ritenuta individualistica ed elitaria e
quindi disprezzata nella sua “irrilevanza statistica”– ma la coerenza del suo
lavoro con il livello medio di quello dei suoi pari.
Eseguire gli ordini di una entità che non è né la scienza, né l’umanità, né
l’istituzione nella quale si lavora e si vive ma “il mercato”; eseguire
applicando anche al sapere criteri di produzione toyotistici; eseguire
“attraendo finanziamenti”, trasformandosi quindi da ricercatori in venditori:
«È un’idea di conoscenza concepita interamente sotto il segno della esecuzione,
dell’ubbidienza senza sforzo e senza tentennamenti a un sistema di regole
definito in anticipo, dall’esterno e dall’alto»10. Un sistema il cui
massimo esempio è la zecca, l’insetto che nel suo operare semplicissimo, sempre
uguale e mirato allo scopo «mai esita e mai sbaglia»11.
La parola chiave è mercato, il principio supremo al quale tutto
sacrificare, è il sistema produttivo verso cui far convergere l’attività di
ogni laboratorio, accademia, biblioteca, lo scenario globale che unifica i
saperi, le idee e i linguaggi sul fondamento di una standardizzazione
universale dei metodi, dei contenuti e degli obiettivi. È quindi evidente che
la valutazione non è un fatto tecnico e neutro ma è diventata una vera e
propria visione del mondo e un’autentica «cifra del nostro tempo»12.
Un regime di verità dalla struttura intimamente totalitaria –la scientometria fu
un’invenzione sovietica– e monoteistica rispetto alla pluralità dei metodi,
degli obiettivi e delle forme di conoscenza e di vita.
Anche Rossella Latempa parla giustamente di una valutazione «diventata
totalitaria, almeno per due ragioni: perché si è trasformata in un’attitudine,
in un ‘approccio alle cose’ totalizzante e capace di occupare tutta la scena
educativa, e perché è diventata via via più invadente e debordante verso ambiti
sempre più ampi e personali»13. Ampia e personale in un senso sempre
più inquietante, che tocca la persona umana addirittura dalla nascita, in una
volontà di controllo che i totalitarismi del Novecento avrebbero potuto
soltanto sognare. Infatti,
con il linguaggio pseudo-scientifico (evidenza, risultati) e la
retorica ipocrita (benessere, cura) che caratterizza tutta la produzione
scritta della Nuova Pedagogica Economica neoliberale, si afferma l’esistenza di
una ‘cassetta degli attrezzi’ universale (a quality toolbox, scrive
l’OCSE nel titolo del rapporto) per costruire i giusti cittadini
futuri fin da piccoli. […] L’idea di fondo è semplice, quanto sconcertante:
sorvegliare e monitorare fin dalla nascita competenze emergenti, collegando gli
esiti a 5 anni con quelli dei test a 15 anni, per studiare l’evoluzione delle
competenze di tutti i cittadini partecipanti14.
Leggere i documenti internazionali e le loro implementazioni italiane
significa osservare quasi in vitro che cosa significhi il
disprezzo verso l’argomentazione scientifica da parte degli apparati preposti
al controllo e alla formazione di un cittadino passivo. Il tono e lo stile di
tali documenti sono infatti rigidi, gergali, autocelebrativi e intimidatori
verso insegnanti e docenti che non intendono obbedire a quanto da essi
prescritto: «Dietro l’apparente neutralità oggettiva del dato numerico, siamo
sottoposti ad una costante ‘intimidazione matematica’, ad una ‘tirannia della
metrica’ che alimenta sentimenti collettivi di inadeguatezza e competizione e
funge da base pseudo-scientifica delle nuove ‘politiche dell’emergenza’».
I dati che questi documenti, questionari, rapporti, decaloghi,
raccomandazioni, espongono, difendono, esaltano, si fondano in realtà su una
«finzione iper-semplificatrice che ignora le specificità dei contesti, delle
condizioni storico-geografiche e sociali. Tutto è sostituibile dall’apparente
neutralità e oggettività di indicatori numerici».
L’articolo 34 della Costituzione repubblicana è stato dissolto anch’esso
con la progressiva imposizione dei principi liberisti di competizione,
concorrenza, individualismo patologico, del ‘a chi ha sarà dato, a chi non ha
sarà tolto anche quello che ha’; è stato dissolto mediante
l’abolizione della funzione educativa della scuola e la
sua sostituzione con una funzione meramente istruttiva. Se
l’educazione mirava alla formazione di una Bildung, ora
l’istruzione è invece finalizzata a creare dei meri ‘tecnici’, in grado di
conformarsi pienamente alla tecnocrazia mondiale totalmente asservita al
neoliberalismo della globalizzazione, finalizzata unicamente all’incremento
costante del profitto che tutto fagocita entro il proprio orizzonte
utilitaristico e distruttivo15; è stato dissolto quindi mediante la
sostituzione delle conoscenze disciplinari con una didattica per competenze che
risulta tanto più ossessivamente ripetuta quanto più rimane vaga nel suo
significato. L’antitesi tra conoscenze e competenze è infatti strumentale ed è
funzionale alla trasformazione della scuola da spazio di elaborazione critica a
luogo di utilizzo di dispositivi e metodologie pensate da altri.
Come si vede, nell’imposizione di riforme stabilite d’autorità e in modo
del tutto artificioso sul corpo vivo delle strutture scolastiche e
universitarie, ciò che è in gioco non è un qualche consolidato metodo
didattico; è in gioco –né più né meno– la libertà intellettuale e
la capacità progettuale delle nuove generazioni. Mediante il proliferare della
miriade di ‘educazioni’ alimentare, ambientale, sessuale, stradale, sanitaria;
attraverso l’accrescersi delle ore dedicate al rock, al bridge, agli scacchi,
al giardinaggio; mediante l’enorme perdita di tempo costituita dall’alternanza
scuola-lavoro; attraverso l’abitudine da quest’ultima instillata a offrire
gratuitamente il proprio lavoro, la scuola diventa un luna park per distrarre i
servi del potente di turno e abituarli a servire meglio. La scuola come cinghia
di trasmissione dei programmi confindustriali, volti a creare soltanto quadri
esecutivi, incapaci di quella critica dell’esistente che è il portato più
fecondo della storia europea. Un modello di istruzione terapeutica e
socializzante priva di qualunque spessore culturale e ridotta a tenere in
qualche modo i ragazzi a scuola per non lasciarli sulle strade. L’articolo 34
della Costituzione italiana non garantisce a nessuno ‘pari opportunità di
successo formativo’ ma deve offrire a ogni membro del corpo collettivo «capace
e meritevole» uguali occasioni di apprendimento, senza che l’esito sia
condizionato dall’origine sociale e dalle condizioni economiche.
Le riforme liberiste, di contro, invece di innalzare quanto più possibile i
meno fortunati, abbassano tutti a livelli di analfabetismo funzionale. Come ben
mostra Francesco Coniglione,
non si potevano chiudere le scuole e i licei: bastava riformarli,
seppellirli progressivamente in sempre nuove incombenze burocratiche e
amministrative; bastava ‘migliorare la loro offerta formativa’, distraendoli
dalla loro missione educativa di base. […] Il sogno illuministico e laico di
una scuola concepita come ascensore sociale, come riscatto dei ceti popolari,
come premiazione del merito indipendentemente dalla professione o dalla
provenienza sociale dei genitori, si sta così estinguendo senza che nessuno ne
abbia dichiarato esplicitamente l’obsolescenza o ne abbia firmato il
certificato di morte. […] E così la scuola italiana (e l’università, che l’ha
seguita in questa terapia d’urto cominciata con il proto-riformatore Berlinguer
e poi proseguita con la Gelmini e i corollari conseguenti) sta progressivamente
allontanandosi da quell’idea che sembra averne governato per una lunga fase
l’evoluzione e via via scivolando sempre più verso il basso in un’orgia di
riforme e di interventi tutti volti a migliorarne la qualità [16].
Scuola e Università
L’Università, sì. Il sistema educativo di un corpo sociale è infatti
profondamente unitario. Gli interventi che si attuano in una delle sue fasi
incidono e si riverberano sulle precedenti e sulle successive. Pur con tutti i
suoi limiti, l’Università italiana è un’istituzione di eccellenza se
confrontata con quella non soltanto degli USA –dove poche Università di valore
nascondono l’infimo livello medio della formazione in quel Paese– ma anche con
quella di altri sistemi europei, come sanno bene docenti e studenti che abbiano
una pur minima conoscenza degli scambi Erasmus. La vastità delle conoscenze, il
raccordo interdisciplinare tra di esse, il rigore metodologico che l’Università
italiana è ancora in grado di trasmettere, consentono mediamente ai nostri
studenti di eccellere là dove decidono di vivere la loro esperienza Erasmus.
Il dispositivo volto a dissolvere la qualità dell’Università italiana si
compendia nella formula 3+2=0. La creazione in tutti gli ambiti –e
non soltanto in quelli più tecnici che avrebbero potuto trarne qualche
giovamento– di corsi triennali seguiti da un biennio magistrale ha infatti
rappresentato un’autentica ‘presa per i fondelli’ delle famiglie italiane, le quali si
illudono di avere il proprio figlio ‘laureato’ quando, invece, questo studente
non ha ricevuto alcuna formazione universitaria degna di questo nome, ma ha
semmai conseguito unicamente un diploma che non è affatto paragonabile alla
tradizionale laurea universitaria. Va poi riconosciuto apertamente come proprio
tramite questa riforma inaugurata da Berlinguer si sia anche riusciti a smantellare dall’interno il
processo formativo universitario italiano, rendendo ancora più elitario e
spietatamente di classe l’accesso ad un’autentica formazione
universitaria di alto livello e di alta qualificazione17.
Regalando infatti a tutti diplomi –in particolare quelli triennali–
svalutati anche perché inflazionati, si ribadiscono per intero le differenze
socioeconomiche di partenza. Il risultato è che il laureato ‘figlio di papà’
utilizzerà al meglio il suo 110 e lode con l’aiuto delle conoscenze e dei
rapporti familiari; il laureato ‘figlio di nessuno’ farà enorme fatica a
trovare lavoro, pur con un 110 e lode meritato come e più di quello dello
studente proveniente da un contesto socioeconomico privilegiato.
Aver equiparato la scuola a un servizio aziendalistico e utilitaristico ha
prodotto effetti gravi e pervasivi, tra i quali: clientelismo nella
forma della promozione generalizzata volta a mantenere i posti di lavoro nelle
scuole; assistenzialismo teso a deresponsabilizzare la
persona; rapporti patologici e perennemente conflittuali tra
le varie componenti: docenti, dirigenti, allievi, famiglie; falso universalismo egualitario che
riconferma anche nella scuola tutte le effettive diseguaglianze di partenza;
alta inefficienza; globale inefficacia; dominio
della burocrazia pedagogica e di una normativa ingestibile
nella sua ramificazione onnipervasiva; iniquità complessiva
come risultato di una logica distorta tesa a premiare i furbi e gli incapaci e
a deprimere il merito e l’impegno.
Il dettato costituzionale viene dunque progressivamente svuotato
dall’interno. Tale svuotamento produce due gravi effetti didattici, che
studenti e docenti universitari ben conoscono.
Il primo è la trasformazione del percorso universitario in una raccolta a
punti, in un accumulo di crediti da conseguire nel minor tempo
possibile, tanto da indurre alcune miopi rappresentanze studentesche a chiedere
di moltiplicare il numero degli appelli, trasformando ulteriormente
l’Università in un esamificio18.
Il secondo effetto è la progressiva e drammatica perdita di competenza nell’utilizzo
dell’italiano scritto, «un fatto che non riguarda solo la scuola, ma che appare largamente diffuso
anche fra gli studenti universitari e che emerge per molti in modo dirompente
durante la stesura della tesi di laurea, con la conseguenza che i docenti
universitari più attenti e scrupolosi sono spesso costretti a risistemare testi
impresentabili»19; «Una porzione crescente e impressionante di
studenti non sono più in grado di leggere e di comprendere testi di media
difficoltà; non sanno scrivere correttamente e non sanno parlare decentemente,
nei licei e ormai anche nelle università; negare questi fatti è impossibile»20;
«Mentre i comitati sulla qualità prolificano a più non posso, nessuno sembra
tuttavia accorgersi come la qualità intrinseca di molte tesi di laurea
triennali stia sempre più precipitando, […] non sono più scritte in italiano
corretto (né dal punto di vista ortografico, né dal punto di vista sintattico)»21.
La scuola delle competenze insegna infatti sempre meno a scrivere
correttamente, sostituendo questa fondamentale competenza con
fumose formule del tipo ‘imparare a imparare’ e promuovendo alla fine degli
autentici analfabeti. Arrivati all’università, questi studenti non hanno più
nessuna reale possibilità di acquisire una conoscenza adeguata della lingua
italiana, nonostante la miriade di disperanti Corsi Zero di italiano scritto
che le Università si arrabattano a organizzare22.
Scuola del liberismo vs Scuola della
Costituzione
Le riforme volute dal neoliberismo stanno dunque avendo due effetti
complessivi.
Il primo è la sostituzione della dimensione culturale dell’educazione umana
con la dimensione burocratica che pesa sempre più sulla pratica didattica
quotidiana:
La valutazione, la misurazione e il monitoraggio della ‘qualità’ si è così
trasformata in una sorta di ossessione istituzionale e burocratica, all’interno
della quale la tradizionale ed obsoleta organizzazione burocratica dello stato
–a tutti i livelli e non solo entro quello della formazione scolastica ed
universitaria– ha colto un’occasione più unica che rara, per mettere radici23.
Il secondo è la dissoluzione degli aspetti più fecondi e di maggiore equità
che la tradizione educativa europea possedeva, nonostante il suo impianto
ideologico classista, e l’accentuazione invece dei suoi aspetti più deteriori,
formalistici, iniqui. «L’aziendalizzazione vigente», infatti, «peggiora i
difetti della scuola precedente e ne erode alcune positività»24.
Leggiamo la seguente dichiarazione: «Tutto quello che sarà tolto
all’enciclopedismo nozionale, che ora affatica le menti, sarà dato al lavoro; e
il tempo, vanamente perduto finora nell’acquisizione di dati eruditi, verrà
impegnato con profitto d’una formazione integrale nella conquista di attitudini
pratiche». Questa affermazione, che ben descrive lo spirito e gli intenti della
cosiddetta ‘Buona scuola’, è di Giuseppe Bottai, ministro dell’Istruzione dal
1936 al 1943, e si trova nella Carta della scuola voluta dal
fascismo.
Note
1 T. Tussi, in La scuola
dell’ignoranza, a cura di S. Colella, D. Generali e F. Minazzi,
Mimesis, Milano-Udine 2019, p. 104.
2 D. Generali, ivi, p. 28.
3 Id., La scuola
dell’ignoranza, cit., p. 65.
4 G. Carosotti, ivi, p. 167.
5 D. Generali, ivi, pp. 31-32.
6 G. Carosotti, ivi, p. 186.
7 S. Colella, ivi, p. 255.
8 V. Pinto, Valutare e
punire, Cronopio, Napoli 2012, p. 151.
9 Ivi, pp. 97 e 171.
10 Ivi, p. 77.
11 Ivi, p. 135.
12 Ivi, p. 16.
13 R. Latempa, La scuola
dell’ignoranza, cit., p. 193.
14 Ivi, p. 204; le due successive
citazioni sono tratte dal medesimo saggio, pp. 202 e 205.
15 S. Colella, D. Generali, F.
Minazzi, ivi, p. 9.
16 F. Coniglione, ivi, pp. 142-143.
17 F. Minazzi, ivi, p. 90.
18 Lo ha ben evidenziato Marco
Mazzone (ordinario di Filosofia del linguaggio nel Dipartimento di Scienze
Umanistiche di Unict), il quale ha pubblicato un avviso –che ho a mia volta
diramato– nel quale afferma che «capita con una certa frequenza che io riceva
richieste di prolungamento degli esami, o di apertura degli appelli straordinari
a studenti che non ne hanno diritto. Preferisco allora dare una risposta
generale che vale per il futuro e per tutti. Sono contrario a richieste di
questo tipo. Il numero di appelli è già alto. Stiamo lavorando nei diversi
Corsi di Studio per razionalizzare la didattica: per aiutarvi, e sollecitarvi,
a comprendere quanto sia essenziale organizzare il tempo dello studio in modo
più serio –studiare molto e fin dall’inizio dei corsi (invece di aspettare che
si avvicinino gli esami), dare gli esami alla fine del corso, rivolgervi ai
docenti e ai tutor se vi accorgete di avere difficoltà. L’alto numero di
appelli va esattamente nella direzione contraria: incoraggia a non affrontare
il percorso di studio in modo responsabile». M. Mazzone, Avviso appelli
straordinari, http://www.disum.unict.it/avvisi-docente/mazzoneavviso-appelli-straordinari,
consultato il 2.1.2020.
19 D. Generali, La scuola
dell’ignoranza, cit., p. 23.
20 C. Sini, ivi, p. 100.
21 F. Minazzi, ivi, pp. 89-90.
22 Su significato e sterilità di tali
corsi rinvio al mio «Corsi (sotto)Zero», Roars Review,
6.11.2015, https://www.roars.it/online/corsi-sottozero/
23 F. Minazzi, La scuola
dell’ignoranza, cit., p. 89.
24 G. Vacchelli, ivi, p. 217.
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