È il 17° minuto della partita di calcio tra Coquimbo Unido e Audax Italiano del 3 febbraio scorso, quando un gruppo di tifosi della squadra di casa invade il rettangolo verde accendendo fumogeni, esponendo lo striscione Calles con sangre, canchas sin fútbol (strade di sangue, campi senza calcio) e provocando la sospensione della partita.
Solo pochi giorni prima, Jorge Mora, barrista (esponente delle barras bravas, i gruppi ultras sudamericani) della Garra Blanca – la tifoseria organizzata del Colo Colo, tra le squadre più titolate del Cile e il cui nome deriva dall’omonimo capo mapuche vissuto nel 1500 – era stato ucciso dai carabineros all’uscita dell’Estadio Monumental David Arellano. Il camion dei militari, utilizzato per trasportare i cavalli su cui salgono i carabineros per prestare il servizio d’ordine in occasione delle partite di calcio, ha investito il trentasettenne tifoso che, poche ore dopo, è morto. Queremos Justicia para Neko, ha scritto sui social il capitano del Colo Colo Esteban Paredes, al termine della partita che la sua squadra aveva vinto contro il Club Deportivo Palestino per 3 a 0, esprimendo le condoglianze sue e dell’intera squadra ai familiari dell’uomo. Gli scontri tra barras bravas e polizia erano iniziati dopo la partita nel contesto di una mobilitazione spontanea anti-governativa che va avanti dallo scorso autunno e mai del tutto placata.
In Cile, le tifoserie ultras, come gran parte dei calciatori, hanno dichiarato fin dall’inizio il loro appoggio alle proteste contro la presidenza Piñera. L’omicidio di Mora, soprannominato “el Neko”, ha scatenato una nuova ondata di mobilitazioni che, ancora una volta, i carabineros hanno represso nel sangue. A farne le spese, ucciso da una pallottola sparata dai militari, un altro tifoso ultras del Colo Colo, Ariel Jesús Moreno, di 24 anni, a seguito dei disordini scoppiati per protestare contro la morte di “el Neko” del 28 gennaio. Negli stadi del Cile, da mesi, gran parte del pubblico intona il coro Las balas que nos tiraron van a volver, nonostante le tv mostrino solo i pochi spettatori che si dichiarano infastiditi dagli slogan anti- Piñera.
A finire sul banco degli imputati per l’uccisione dei due appartenenti alla tifoseria colocolina, tifosi, ma anche militanti sociali, il ministro dell’Interno Gonzalo Blumel e il comandante dei carabineros, il generale Mario Rozas, tuttavia difesi a spada tratta sia dal presidente Sebastián Piñera sia dalla destra. Di fronte alle richieste, provenienti sia dai banchi della sinistra istituzionale sia dalle organizzazioni popolari, che hanno chiesto a più riprese lo scioglimento dei carabineros, Piñera non ha trovato niente di meglio che esprimere la sua gratitudine ai militari, sostenendo la versione ufficiale che la morte di Jorge Mora è avvenuta a seguito di un attacco della tifoseria del Colo Colo alla polizia. Addirittura Karina Soza, appartenente al dipartimento “Diritti umani” dei carabineros (la cui denominazione è una evidente contraddizione in termini) ha dichiarato che se il camion dei militari non si fosse mosso sarebbe stato assaltato dai manifestanti. Ad insistere su questa versione anche la giudice di garanzia Andrea Acevedo, secondo la quale al mezzo dei carabineros “non stavano lanciando fiori”.
È evidente che in Cile venga fatto un uso sproporzionato della forza da parte dei carabineros ha sostenuto la Commissione interamericana dei diritti umani (Cidh) che ha visitato il paese dal 25 al 31 gennaio scorso, denunciando le molteplici violenze di cui si sono resi responsabili i militari. Dall’inizio del cosiddetto estallido social, il 18 ottobre 2019, sono rimaste uccise 31 persone e 5.558 sono state vittime di violazioni dei diritti umani da parte degli agenti di stato. Sono migliaia le denunce contro carabineros, membri della polizia e dell’esercito.
Rodrigo Bustos, dirigente dell’Instituto Nacional de Derechos Humanos, ha promesso di denunciare i carabineros coinvolti in casi di tortura, a partire dal pestaggio nei confronti dello studente di 18 anni Matías Soto, avvenuto durante gli scontri del 29 gennaio nella comuna di Puente Alto.
Divenute uno dei maggiori spazi di protesta, le gradinate degli impianti sportivi cileni ora innalzano anche cori che paragonano Sebastián Piñera a Pinochet. All’epoca della dittatura militare lo stadio di Santiago era stato trasfomato in un non-luogo, dove venivano imprigionati, e poi torturati e uccisi, gli oppositori del regime. Oggi, al contrario, gli stadi si sono trasformati in uno dei molteplici epicentri di una protesta che ancora la repressione di Sebastián Piñera non è riuscita a fermare.
(*) Fonte: Peacelink – 5 febbraio 2020
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