Vita da rider: hamburger di Natale - Maurizio Pagliassotti
Se pensate che quelle vite che vedete correre in
bicicletta siano lontane dalle vostre, vi sbagliate. Quelle storie, e
soprattutto quella forma del lavoro che scolpisce vite apparentemente lontane
sono la palla di cristallo dove vedere il futuro di noi tutti.
Ma partiamo da lui, partiamo da Armand: che non si
chiama così, ma ha chiesto che questa storia che lo riguarda finisse sotto un
nome che a lui piace e lo tiene al riparo da ritorsioni, delazioni, vendette,
dai bassifondi dell’umanità. Lui è un rider pachistano, cioè un fattorino
del delivery food: sono quelli che vediamo proliferare nel centro
delle nostre città, assenti o quasi dalle periferie, dove invece vivono stipati
dentro stamberghe che vengono loro affittate a caro prezzo. Trenta anni,
segnati da rughe che raccontano cosa sia il lavoro duro celato da un grande
sorriso e un grande calore umano.
Appuntamento in piazza Statuto a Torino la sera di
Natale, alle sette: arriva puntuale, fresco, coperto da vari strati di
vestiario che lo proteggono da un freddo pungente che lentamente ha preso il
posto di un insolito e minaccioso tepore dicembrino. Ha già nelle gambe qualche
ora di lavoro, nel giorno di Natale.
Non parla italiano «perché non ho il tempo di avere
amici italiani con cui parlarlo: io lavoro sempre e basta». E quando non lavori
cosa fai? A questa domanda fatica a trovare una risposta perché le sue
giornate, sette giorni su sette o quasi, sono così composte: dieci dodici ore
di bicicletta, cibo, sonno a casa. Fine.
Mi spiega brevemente il funzionamento
dell’applicazione che illumina il suo telefono: arriva l’offerta di consegna,
lui l’accetta, raggiunge il ristorante fast food dove recupera il cibo che
ricovera nel bidone giallo, e poi via, di corsa verso l’affamato cliente. Il
fattorino-rider è libero di accettare la proposta di consegna o meno, è libero
di andare piano o forte in bicicletta, è libero di rispettare o meno semafori
rossi, strade contromano, inversioni di marcia, è libero di fare quello che
vuole. Ma sono tutte libertà che hanno un costo.
Nella palla di cristallo in cui possiamo vedere il
nostro futuro scorgiamo chiaramente che queste libertà sono fittizie,
aleatorie, in realtà scandite da un pesante controllo: il lavoro deve essere
eseguito (leggi alla voce non si può mai rifiutare), veloce (devi correre in
bici al massimo) e preciso (non si deve fare casino con il cibo dentro al
bidone). Si chiama produttività.
Tra i fattorini vi è una dura competizione, premiata
dall’algoritmo – l’algoritmo è una sorta di dio, che valuta solo in base
parametri oggettivi e insindacabili: chi accetta tutto, chi va più veloce e chi
è più preciso e gentile ha un punteggio che lo premia nelle assegnazioni.
Alcuni chiamano tutto ciò “meritocrazia”, parola ormai distorta al punto tale
da essere divenuta minacciosa.
In questo contesto è chiaro perché Armand vola sulla
bici di notte, bruciando semafori rossi e contromano, picchiando sui pedali
fino a raggiungere velocità da passista: se non lo fa lui, lo farà un altro. Se
lui rispetta il rosso e un altro lo brucia, lui è fuori. Poi certo, la
compagnia impone sul piano teorico il ferreo rispetto di tutte le normative
inerenti la sicurezza: ma quando si scende nel reale è il lavoratore che
sceglie. E sceglie sempre per il rischio, perché sa che se non lo farà lui lo
farà un altro. Una sorta di tripudio hobbesiano, un darwinismo distorto e
piegato all’ideologia neoliberale, in cui la selezione non la fa il padrone
delle ferriere: sono direttamente i lavoratori ad auto selezionarsi, a
combattere come in un’arena per sopravvivere.
«Quando piove, o nevica, o tira vento è molto peggio e
molto meglio: è pericoloso, ma pochi resistono e si guadagna di più. Certo non
si può vivere così». Lui lo sa, la sua compagnia lo sa, anche i clienti lo
sanno.
La prima consegna si conclude dopo tre chilometri in
un palazzo del prestigioso quartiere torinese di Cit Turin, dove anche un
garage non scende sotto i duemila euro al metro quadro. Armand arriva, mi
lascia la bici in custodia ‒ «take care, my bicicle is all my life, fai
attenzione la bici è la mia vita» – citofona, sale, consegna l’hamburger e
scende. Guadagno netto, meno di tre euro.
Si riparte, verso la base e subito lo schermo del
telefono si illumina per un’altra chiamata. Un altro hamburger: in questo
strano lavoro, come in un carnevale grottesco si concretizza un Arlecchino
sghimbescio, dove si mischiano il costante benessere dei clienti, il cibo di
qualità infima o quasi – preponderante sull’iconografia che si vuole spacciare
– la povertà dei lavoratori, i nuovi miserables. Mi aspettavo
cibi raffinati portati di corsa a consumatori esigenti: ho trovato junk food
portato di corsa a consumatori pigri.
E infatti anche la seconda consegna della serata sarà
hamburger e patate in un altro bel palazzo del centro: mancia, in entrambi i
casi, zero. Dopo le numerose polpette con patate giunge l’asiatico, e poi
ancora hamburger. Guadagno totale della serata: venticinque euro meno le tasse.
Chilometri percorsi, circa venticinque. Pausa zero.
Armand percorre venticinquemila chilometri all’anno:
io, che mi vanto di essere un discreto ciclista, ne faccio seimila. Lui fa gli stessi
chilometri che coprono i campioni che corrono le grandi corse a tappe, Giro e
Tour in testa.
Laureato, Armand ha studiato a Londra, poi è arrivato
in Italia attraverso la rotta balcanica. Le sue parole ricalcano le storie dei
meridionali, e veneti, e abruzzesi, e tutti, che giunsero a Torino con l’unica
idea di lavorare e basta. Quelli andavano nelle miniere industriali della FIAT,
i ragazzi come Armand vanno nelle miniere dell’economia digitale.
La sua vita come una catena di montaggio: dal suo lavoro
dipende il permesso di soggiorno da cui dipende tutto. Se perde il lavoro,
scatta il decreto sicurezza e addio Italia, addio «un giorno andrà meglio», si
torna in Pakistan dalla famiglia che ogni mese riceve un bonifico. Il semaforo
rosso, così come tutto ciò che intralcia la sua produttività, in questo
contesto ha valore residuale. Guadagno mensile, circa 1400 euro: meno le tasse
arriva a 1150-1200 netti. Tutti i giorni o quasi su due turni, pranzo e cena,
per cinquanta e anche più ore settimanali.
Alle undici io sono leggermente provato, lui mi dice:
«Faccio ancora un’ora, magari esce qualcosa che mi porta sulla strada di casa».
Cento giorni da glover - Marco
Andreoli
Shkodra
Quasi
mezzanotte, McDonald’s Stradivari, a due passi dalla Stazione di
Trastevere.
Appena il
Conte vede entrare Gëz, gli va subito incontro, gli dà una pacca sulla spalla e
gli chiede: “Frate’, ma hai visto che j’hanno fatto al bangla giù a Bari?”
A dire il
vero, il bangla di cui parla il Conte è un pakistano, ha 32
anni e si chiama Ahmed. Anche Ahmed è un fattorino Glovo e la sera prima,
mentre consegnava il suo ordine a via Candura, nel quartiere San Paolo di Bari,
è stato accerchiato, pestato a sangue e derubato da un gruppo di 7
persone.
Gëz e il
Conte si conoscono da quasi due anni, da quando cioè hanno cominciato a
incrociarsi nelle aree di attesa Glovo dei McDonald’s di Roma. Sono due
veterani. Il Conte ha da poco superato il traguardo delle 7000 consegne; Gëz,
invece, è a un passo dalle 10.000.
Anche io lo
conosco da un po’, Gëz. Ci siamo presentati un paio di mesi fa mentre, entrambi
con sulle spalle il cubo giallo di Glovo, attraversavamo il ponte che da via
Alberto Lionello conduce all’ingresso superiore del Centro Commerciale Porta di
Roma, alla Bufalotta.
I dialoghi
tra glover sembrano quelli tra pescatori. È stato così anche
la prima volta che ho parlato con Gëz: “Come va?” “Male: 4 consegne dalle
sette, e tu?” “19. Ma sono in giro da stamattina” “Mance?” “Quasi 20, tu?” “6 e
50; ma solo perché un americano m’ha dato 5 euro”.
Entriamo
insieme da Burger King. Lui ha un ordine piccolo, io uno bello pesante: tre
menù completi di bibite, patate fritte e gelato Mcflurry. Mentre aspettiamo che
i pacchetti di entrambi vengano preparati, ci sediamo al tavolino più vicino
alla cassa e parliamo ancora un po’.
Gëz dice di
venire da Shkodra, una città di 130 mila abitanti nel nord dell’Albania, a 20
km scarsi dal confine col Montenegro. Gli rispondo che non l’ho mai sentita
nominare. Gëz ci rimane male, mi dice che è strano e che Shkodra è pur sempre
la Firenze dei Balcani. Mi racconta anche di essere sbarcato – usa proprio quel
participio passato: sbarcato – in Italia 4 anni fa e che
quando è arrivato non conosceva nemmeno una parola d’italiano e che allora è
andato a stare da suo cugino Pavli, a Casal di Principe, e che lì ci ha vissuto
quasi due anni, a fare il muratore.
“Scutari”,
dico io. Gëz non capisce. “La tua città – gli dico – qui la chiamiamo Scutari.
La Firenze dei Balcani”. Gëz è un po’ spiazzato, ma annuisce. Quindi beve un
sorso d’acqua dalla sua borraccia e mi chiede: “E tu?”
Sii il capo
di te stesso!
Già: Io. Io
ho 45 anni, sono un docente di ruolo, insegno Italiano e Storia in un Liceo di
Ciampino e da quest’estate, da subito dopo la fine delle lezioni, faccio
il glover, cioè il fattorino per Glovo. Ho iniziato per curiosità,
certo; ma anche per sporcarmi le mani con
un’attività lavorativa che fosse meno distante dal Mondo Reale di quanto non lo
sia diventata, oramai, quella dell’insegnante. Oltre a ciò – credo si possa
ammettere – avevo bisogno di una piccola entrata aggiuntiva per pagarci le
bollette e, magari, hai visto mai?, per permettermi una piccola vacanza.
Sul sito, al
posto della solita frase “Lavora con noi” c’è una scritta micidiale: “Sii il
capo di te stesso!”. Mi colpisce e mi basta. Così, nel giro di mezz’ora,
carico online la mia patente, il mio codice fiscale e firmo il
contratto. Il giorno dopo, alle 16, sono nell’ufficio romano di Glovo, a Prati,
in via Baldo degli Ubaldi, dove Roger, un ragazzo sudamericano, istruisce me e
un’altra decina di neo-glover – tra cui almeno un padre di famiglia
italiano, due ragazzi cinesi e tre africani maghrebini – riguardo il lavoro da
svolgere, oltre a fornirci link e credenziali per scaricare
sul nostro smartphone l’app dei glover.
La breve conferenza formativa cui assistiamo dimostra, innanzitutto, quanto
Roger sappia il fatto suo: è limpido, puntuale, professionale; risponde a ogni
domanda senza alcun tentennamento, sgombra il campo da qualsiasi dubbio, tronca
alla radice la benché minima perplessità. Il motivo principale della chiarezza
illustrativa di Roger, del resto, è strettamente connesso a una caratteristica
specifica di molte professioni nate nell’era della new-economy. E
cioè che la compresenza fisica tra datori e lavoratori viene considerata non
più necessaria. Nel caso specifico significa che, subito dopo questo meeting di
formazione, ciascuno di noi potrebbe lavorare con Glovo per mesi, per anni,
senza mai incontrare un solo rappresentate dell’azienda. Tutte le fasi del
lavoro, infatti, dall’assegnazione gamificata dei turni di
lavoro, fino alla supervisione dei pagamenti, verranno gestite tramite l’app dei glover.
Questa cosa
i due ragazzi cinesi sembrano non averla capita. Sono lì che armeggiano
affannosamente con il loro cellulare. Evidentemente in difficoltà.
Prima di
andar via, Roger ci consegna una power-bank per ricaricare il
cellulare, una carta di credito aziendale e, ovviamente, il cubo giallo a
tenuta termica per conservare tutto il cibo che trasporteremo da una parte
all’altra della città.
I cinesi,
però, sono davvero in crisi. Pare proprio che non ce la facciano. Roger gli si
avvicina e gli domanda quale sia il problema. Quelli alzano la testa, lo
guardano, e dicono solo: “No italiano noi”. Roger prova a spiegargli che quello
lì, effettivamente, può essere un bel guaio. Perché i testi dell’app sono
completamente in lingua italiana, perché i clienti saranno quasi tutti italiani
e, in terzo luogo, perché gli operatori della chat di
assistenza, in caso di imprevisti, comunicheranno con noi scrivendo in
italiano. “Ma soprattutto – chiosa Roger – il contratto che voi due avete
firmato era scritto in italiano… Mi dite che cosa avete firmato?”
Chi siamo
Gran parte
dei glover, del resto, sono cittadini stranieri. Le percentuali
ufficiali non sono note. Ma nel corso di tre mesi di lavoro ho potuto definire
almeno quattro macro-categorie di lavoratori:
1) Africani
in bicicletta (20-25 anni) – Pullulano nelle grandi arterie periferiche,
soprattutto nelle aree di Roma Est e di Roma Sud. Non hanno un filo di grasso.
Riescono a mantenere la medesima velocità di crociera a prescindere da salite e
discese. In genere non parlano molto, né con i ristoratori, né tantomeno con
noi colleghi. Non ho ben capito se per limitazioni linguistiche (probabile) o
se per una sorta di pudore (peraltro esaltato dal clima torrido della prima
estate leghista nella storia d’Italia).
2)
Maghrebini in motorino (25-30 anni) – Distribuiti su tutta la città, in genere
sono ridanciani e logorroici. Sembra che conoscano tutti e che non abbiano
paura di niente. In genere, fanno i simpatici anche con i commercianti, perfino
quando sembrano malsopportati. Ma se dico che “fanno i simpatici” è perché ogni
tanto m’è sembrato che tendessero a infilare, negli atteggiamenti e nelle
risposte, quella che il Conte una volta ha chiamato “malizia perculante”. Come
se fosse un’arma. Come se fosse il maglio perforante o l’alabarda spaziale di
Goldrake. Comunque questi ragazzi macinano chilometri. E lavorano anche 13 ore
al giorno, che poi è il limite massimo consentito da Glovo.
3)
Sudamericane in macchina (40-50 anni) – Boliviane, Cilene, Peruviane,
Messicane. Donne di mezza età, spesso con la borsetta da passeggio e il trucco
a posto. Sembrano pronte per andare in chiesa o a prendere il tè (o il mate)
con le amiche. Generalmente tranquille, attendono il proprio turno senza troppe
discussioni. Raramente raggiungono numeri significativi anche perché rischiano
di essere un po’ lente. Ma sono costanti, coscienziose, tutto sommato
affidabili. Per me resta un mistero l’origine di questa categoria. Voglio dire:
com’è possibile che tante signore per bene, tutte ispanofone, abbiano
intrapreso in Italia la carriera delle glover? Ho pensato a un
passaparola straordinario. Un passaparola intercontinentale che, partito in
sordina da Roma, sia riuscito ad attraversare l’Atlantico finendo per
raggiungere Lima e La Paz, Bogotà e Quito.
4) Italiani
in moto (40-50 anni) – Padri, per lo più. E quasi sempre ex-qualcosa:
ex-carpentieri, ex-macellai, ex-impiegati, ex-tassisti. E ovviamente ex-mariti.
Sono quelli che hanno perso il lavoro negli anni immediatamente successivi alla
crisi del 2008. E che magari adesso, insieme agli alimenti, devono pagare anche
un paio di affitti e le tasse universitarie dei figli. Sono uomini stanchi,
certo. Ma sono pur sempre romani. Gente che la sa lunga, che ti dà consigli,
che ha sempre la battuta pronta, che ha capito tutto e che nun c’ha
capito un cazzo; gente che s’è dovuta abituare, poco a poco, a vivere alla
giornata. Ma che, in linea di massima, l’ha fatto con dignità. Gli italiani in
moto lavorano parecchio. E più lavorano e più sono stanchi. E più sono stanchi
e più lavorano.
Queste
quattro categorie, a occhio, coprono l’80% dei lavoratori Glovo. Cui va
aggiunto un discreto numero di studenti universitari, una percentuale non
proprio insignificante di lavoratori trasversali – ad esempio: liberi
professionisti in periodo di magra, operaie italiane entrate in esubero,
badanti dell’est a cui è appena deceduta la fonte di reddito –, oltre a un
numero più esiguo di gente come me. Gente, cioè, che un lavoro ce l’ha; che può
dirsi fortunata; e che magari usa Glovo per arrotondare un po’.
La faccia di
Morandini
Gëz non ci
crede che faccio l’insegnante. “Cioè, tu sei un professore?”.
Io me lo
guardo con un po’ di sufficienza. Idealmente sto cominciando a rimboccarmi le
maniche per cominciare la mia lezione. Deformazione professionale, direbbe
qualcuno. In ogni caso intendo spiegare all’amico albanese che ogni lavoro
onesto è sempre rispettabile, e che dunque non esistono mestieri di serie A e
mestieri di serie B, e che se lui pensa che sia umiliante per un insegnante
fare un lavoro come questo, beh, allora sta facendo il loro gioco, il gioco di
quelli che vogliono il mondo diviso in due, nord e sud, ricchi e poveri,
sommersi e salvati, padroni e operai. E invece no, Gëz. È il tuo sguardo a
essere sbagliato. È il tuo stupore a essere offensivo, squalificante,
umiliante. Perché tu che sei straniero, che hai attraversato il Mediterraneo
per arrivare fin qui e che ti sei spaccato la schiena in cantiere, non te lo
puoi proprio permettere di osservare le cose in questo modo. Perché questo non
è il tuo sguardo, ma quello loro.
Il fatto è
che non faccio in tempo a dirgliele queste cose. Perché Gëz, che adesso sembra
davvero interessato alla questione, butta lì un’altra domanda. Che sembra
innocua. Ma che, in realtà, fa traballare il mio impianto etico nella sua
interezza: “E non t’è mai successo di fare una consegna a un tuo alunno?”.
Deglutisco.
“No – gli dico – non m’è mai successo”. Ma poi non riesco più a dire niente.
Resto lì a pensare alla faccia che farei se, tentando di uscire dall’ascensore
con il mio cubo giallo in spalla, vedessi che ad aprire la porta non c’è un
essere umano qualsiasi; ma Masetti della III B. O Falcetti. O, peggio ancora,
Morandini. A cui, solo io, quest’anno, ho messo 5 note disciplinari.
E loro? Che
faccia farebbero, loro?
Cento!
Due volte a
settimana, alle 16 in punto, viene aperto il calendario di lavoro: il lunedì si
accede alle prenotazioni per i turni compresi tra giovedì e domenica; il
giovedì, a quelli da lunedì a mercoledì. Ogni giornata lavorativa Glovo è
suddivisa in slot di un’ora ciascuno, dalle 10 del mattino
alle 3 di notte. Questo significa che, per ogni data aperta, sul calendario
dell’app compaiono 17 rettangolini orari: se sono bianchi, puoi
cliccarci sopra, componendo così il tuo orario di lavoro quotidiano; se sono
grigi, viceversa, vuol dire che sono già stati prenotati da altri colleghi e
non sono quindi più disponibili. Il fatto è che, in questa corsa alla
prenotazione dei turni, non tutti i glover partono
simultaneamente, ma in base al cosiddetto “punteggio di eccellenza”. Il
punteggio di eccellenza viene attribuito a ciascun rider che
abbia effettuato almeno 50 consegne, è espresso in centesimi e costituisce il
risultato combinato di 5 differenti variabili: valutazione del cliente,
valutazione del partner, presenze effettive rispetto agli slot prenotati,
disponibilità nei week-end ed esperienza. In altri termini, per puntare ad un
punteggio che sia uguale o prossimo a 100, il neoassunto glover dovrebbe
lavorare molto – il punteggio massimo nella variabile-esperienza corrisponde a
855 consegne effettuate –, essere gentile e sorridente con clienti e
ristoratori, lavorare durante gli orari serali del sabato e della domenica e,
soprattutto, non declinare mai ordini che giungano negli orari di reperibilità.
Questa tipologia di competizione tra dipendenti, nata nell’ambito aziendale
statunitense neocapitalista, viene oggi indicata come gamification e,
pur attraverso l’utilizzo di grafiche infantili e di espedienti ludici, si
risolve nella determinazione di una rigida classifica di merito. Nella quale
nemmeno chi è arrivato in cima, se non vuole tornare nei bassifondi della
graduatoria può sbagliare. Né distrarsi.
Da
mezzogiorno a mezzanotte
Mentre
scrivo queste righe, il mio punteggio di eccellenza è fermo a quota 85. Sono
riuscito ad arrivare anche a 88, ma poi, un paio di settimane fa, mi sono
concesso un week-end di riposo e ho così perso 3 punti. Normalmente – ma devo
essere davvero rapido nell’accesso all’app – questo punteggio mi
consente di prenotare 5-6 slot al giorno, solitamente
collocati negli orari di pranzo e di cena. Anche se, di tanto in tanto, proprio
mentre sei lì che smanetti col cellulare, capita che qualche turno si liberi
improvvisamente, e allora, se cogli l’attimo, puoi perfino prenotare intere giornate
lavorative. Come fanno quelli che raggiungono la vetta himalayana dei 100
punti, i super-sayan dei glover, gente come Gëz e
come il Conte, punti di riferimento assoluti per la nostra comunità.
In questo
modo sono riuscito a prenotare 12 slot consecutivi per la
giornata del 7 luglio. Da mezzogiorno a mezzanotte. Senza soluzione di
continuità.
Prima di
questa giornata campale, non mi era mai capitato di lavorare per 12 ore
consecutive. Non conto, ovviamente, le giornate intere passate davanti al computer,
con Albinoni nelle orecchie, l’aria condizionata a palla e una pausa pranzo a
base di sushi. Perché qui si parla d’altro. Di cose da raccontare ai nipoti. Di
cose degne delle porte di Tannhäuser. 12 ore sotto il sole, in piena estate, a
macinare chilometri, sbattuto da una parte all’altra di Roma, a combattere con
la sete e con il sudore, a respirare smog e afa.
Il primo
ordine lo ritiro verso le 12.15 al McDonald’s di Piazza dei Mirti e lo consegno
in zona Tor Tre Teste. Una comanda rapida, tanto per mettersi in moto. Il
secondo ordine invece è lontano: devo arrivare a Piazza della Radio, all’inizio
di viale Marconi. È cibo cinese. Lo consegno a un tipo che mi apre la porta in
mutande. Il caldo torrido giustifica solo parzialmente questa scena. Dalla
terza consegna in poi, comincio a muovermi tra Prati e Trastevere: lasagne al
forno a Vicolo del Cinque, panini imbottiti a Piazzale degli Eroi, due
pacchetti di Marlboro Light al Portico d’Ottavia, calamari fritti in una
traversa di Via Crescenzio. Intorno alle 17 comincio davvero a soffrire il
sole. Ogni volta che il semaforo è rosso cerco di fermarmi sotto l’ombra di un
albero o di un cartellone pubblicitario. Sono assetato. Chiedo a Siri:
“fontanella nasone vicina”. Ma Siri non capisce. E mi chiede se voglio andare
al ristorante “La fontanella” di via Sistina o all’osteria “Dar nasone” al
Nomentano.
Decima
consegna: alette di pollo a via delle Fornaci. Suono il citofono. Mi risponde
una voce di donna, con marcato accento spagnolo: “Terzo piano, Tessoro”.
Prima d’ora nessuno mi aveva mai chiamato così in ambito lavorativo. Salgo le
scale. Mi apre la porta una ragazza poco meno che trentenne, truccatissima,
in guepiere, appena sovrappeso. L’interno dell’appartamento emana
il profumo denso di un deodorante alla rosa. Mi paga, mi sorride, mi ringrazia
e mi saluta chiamandomi Tessoro. Ancora una volta.
L’undicesima
consegna è in zona Coppedè. Cibo thailandese. A metà pomeriggio. L’atrio dello
stabile è tutto marmo rosa e colonne. Mi aspetto una mancia degna del contesto.
Prendo l’ascensore e, arrivato al settimo piano, prima ancora di aprire le
porte, sento un odore strano. L’uomo incorniciato nella porta aperta avrà più o
meno la mia età. Sta fumando. Non una sigaretta di tabacco. Sfilo i sacchetti
dal box e glieli consegno. Dietro di lui c’è un corridoio pieno di luce. Posa i
sacchetti da qualche parte e inizia a tastarsi le tasche. “Aspetta un attimo”,
mi dice. Ed entra in casa. Sento frugare tra barattoli e cassetti. Poi torna
sconfitto. “Non ho spicci. Scusa”. “Non importa”, gli rispondo. Faccio per
andarmene ma quello mi richiama: “Moro!”. Mi volto. Lui mi allunga la cannetta
e mi fa: “Che per caso te voi fa’ ‘n tiro?”
Dalle otto
in avanti gli ordini si spostano man mano verso Roma Sud: prima Garbatella, poi
la Cecchignola, poi l’Eur. Fino a una comanda che arriva intorno alle 23:
tre milkshake da ritirare al McDonald’s di Viale Newton, in
zona Trullo. Una volta lì, prendo il sacchetto, lo sistemo nel box e apro
l’applicazione per conoscere l’indirizzo di consegna. Leggo. Rileggo. Penso: “E
adesso?”. E sì, perché l’abitazione che devo raggiungere si trova in via Ettore
Ferrari, ovvero nel Serpentone di Corviale. Sul gruppo whatsapp dei glover c’è
un documento che viene aggiornato di continuo, grazie allo scambio di
informazioni tra noi fattorini: è la black-list degli
indirizzi da evitare perché pericolosi. È capitato, infatti, che nelle zone
presenti in lista si siano verificati furti, aggressioni o altri episodi
incresciosi. Come qualche mese fa, quando, al quartiere Bastogi, Massimo, un
fattorino Glovo tra i più esperti, è stato circondato da quattro uomini armati
di coltello. Stava per fare la fine del povero Ahmed, il fattorino di Bari.
Invece, da dietro l’angolo della strada, è sbucata una volante della Polizia e
quelli lì sono corsi via per i campi. Giusto in tempo. Comunque sia: via Ettore
Ferrari è nella black-list e io ormai ho preso l’ordine in
carico e non posso più rifiutarlo. Da via Casetta Mattei imbocco via Poggio
Verde e comincio a salire la collinetta sulla cui cima già riesco a vedere il
profilo del Serpentone, il simbolo più evidente della fallimentare edilizia
creativa degli anni ’70. Terminata la salita, la strada si distende su un
lunghissimo rettilineo che costeggia il palazzo-quartiere. Mi sfila sulla
destra. Imponente, tetro, angosciante. Sembra l’astronave di Darth Vader. Sai
che c’è? – penso risoluto – Io lì non ci vado. Vorrà dire che
pagherò i milkshake e amen”. Così, prima dell’ultimo segmento di
Serpentone, imbocco via Mazzacurati per tornare indietro. In quel momento però
mi squilla il telefono. Non rispondo. Ma so che è il cliente. Deve aver seguito
il mio percorso geolocalizzato dall’app ed essersi accorto che me
ne sto andando. Quindi torno indietro. Non posso fare altrimenti.
Mezzanotte
e dieci. Ultimo ordine. Si tratta di una spesa alimentare da effettuare al
supermercato Carrefour Express di via Cassia. Appena giunto in loco ho accesso
alla nota. Leggo: farina, 6 uova, burro, latte, vaniglina. Prendo il carrello e
comincio a vagare tra gli scaffali. Mi sorge un dubbio e così chiamo il
cliente. Risponde un uomo. “Mi scusi, ma la farina di tipo zero o doppio zero?”
“Doppio zero”. Continuo la spesa. Ma ho un altro dubbio. “Sempre io, mi scusi.
Ma il latte intero o parzialmente scremato?” “Intero”. Procedo. Ma devo
nuovamente chiamare. “Qui ci sono uova grandi, medie e piccole. Quali prendo?”
“Quelle più simpatiche”. E mette giù.
Infilo la
busta della spesa nel box e riparto, direzione Tor di Quinto. L’uomo che mi
apre la porta indossa un completo elegante, con tanto di gemelli e
fermacravatta. È molto serio, al punto da sembrare turbato da qualcosa di
oscuro, come se fosse concentrato su un compito realmente decisivo.
Prende la busta, mi dà 5 euro e richiude. Senza nemmeno salutare. Vabbè, penso:
per 5 euro di mancia puoi anche fare il maleducato.
Intanto è
quasi l’una. Salgo sul motorino per l’ultima volta e, senza fretta, imbocco la
Tangenziale Est per tornarmene a casa.
L’aria è
fresca, adesso. Sono stanco morto, ma anche contento di aver portato a termine
l’impresa. All’altezza di via Salaria, però, mi torna in mente l’uomo della
spesa. Cosa doveva farci con quella roba? Un tipo del genere, in piena notte,
si mette a preparare una torta? Magari non gli serve per cucinare. Magari è una
situazione tipo “Ultimo tango a Parigi”. Magari peggio.
Alla fine ci
licenzieranno tutti
L’estate
2019 verrà ricordata per parecchie cose. Per l’esperienza da DJ
dell’ex-vicepremier Salvini sulla spiaggia di Milano Marittima, per la morte di
Camilleri e di De Crescenzo, per il rinnovo del contratto del centravanti della
Roma, Edin Dzeko. Tra gli episodi meno memorabili, andrebbero forse menzionate
le nuove esternazioni dell’allora Ministro del Lavoro Di Maio sulla
questione rider.
Si tratta di
un affare spinoso. Non solo perché stiamo parlando di oltre 10.000 impiegati,
ma anche perché, alla fine dei conti, queste 10.000 persone non possono davvero
essere chiamate impiegati. Anche l’appellativo di freelance
appare impreciso. Del resto la cosiddetta gig economy – che
potremmo tradurre come “economia del lavoretto” – prevede, per definizione,
prestazioni lavorative on demand. Ovvero: si lavora, se c’è
necessità.
È da un anno
che Di Maio si sbraccia per sventolare promesse di maggiori tutele ai rider.
Anche se non è affatto chiaro come l’eventuale stabilizzazione dei fattorini
possa consentire loro di lavorare con la stessa flessibilità che ha
caratterizzato finora questo tipo di impiego. La verità è che le reazioni
dei rider alle dichiarazioni di Di Maio il 5 agosto (“Verranno
riconosciute tutele assicurative, rimborsi spese per gli strumenti di
lavoro, assistenza sanitaria e un salario minimo”) sono tutt’altro che
positive. Sul gruppo whatsapp si apre un ampio dibattito. Ma il sentimento
prevalente sembra essere quello di una profonda inquietudine.
Angela:
“Alla fine ci licenzieranno tutti”.
Loris: “Ma
io che lavoro tre ore al giorno, come faccio ad avere un contratto dipendente?”
Enzo detto
l’Alce: “Finirà che Glovo se ne dovrà andare dall’Italia. Come ha fatto Uber”.
Paolone: “Ma
perché ‘sti politici non pensano agli affaracci loro e ci lasciano in pace?”
Consuelo:
“Es un asco”.
Io proprio
non lo so quale sia la soluzione. Certo, le tutele dei rider sono
al minimo e qualcosa nel merito andrebbe senz’altro fatta. Ma se le proposte
dei sindacati e del Ministro provocano nei lavoratori più terrore che speranza,
c’è sicuramente più di un problema.
La vita
Il giorno di
Ferragosto incontro ancora una volta Gëz. Nell’atrio di un ristorante
giapponese a via delle Cave. Di nuovo abbiamo entrambi sulle spalle il cubo
giallo di Glovo. Non vedevo l’ora. Voglio proprio sapere cosa ne pensa lui
delle proposte di Di Maio. Anche se nel frattempo, quel Governo lì, è già
arrivato al capolinea e Di Maio è diventato Ministro degli Esteri.
È lui che mi
saluta per primo: “Come va, Professore?” “Mah, 3 consegne” “Io finora 12”
“Mance?” “Poca roba, e tu?” “Ancora niente”.
“Senti – gli
chiedo – ma tu come la vedi questa cosa della legge nuova?”.
Gëz mi fissa
dritto negli occhi per dieci secondi buoni, poi si sfila il cubo dalle spalle,
lo appoggia a terra e si siede sulla panchina davanti all’ingresso del
ristorante. E comincia a parlare. Stavolta senza guardarmi. E con un tono di
voce diverso dal solito.
“Sai,
professore, quanto prendevo, quando facevo il muratore giù a Caserta? Te lo
dico io: 35 euro al giorno. Tutto in nero. E sai quanto ho guadagnato con Glovo
il mese passato? 2200 euro. L’anno scorso mi sono anche aperto la partita IVA.
Sto tutto il giorno in motorino, certo. La schiena, prima o poi, mi si
spaccherà in due. E se cado o se mi rubano tutto, è un problema mio. Ma tu,
professore, tu te l’immagini quanto m’è cambiata la vita?”
Valdrin
Pjetri, neoeletto sindaco di Scutari, proprio oggi, dopo che i suoi
avversari politici l’avevano accusato di aver nascosto una condanna per
traffico di stupefacenti subita in Italia, ha rinunciato all’incarico.
Mi sfilo
anch’io il cubo dalle spalle e mi siedo vicino a Gëz.
E restiamo
così. Senza dire più nulla. In attesa della prossima comanda.
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