Il coronavirus visto da
Pietro Bartolo
Vi racconto la mia sul Covid-19, cioè sul coronavirus,
su questa influenza dalle forme aggressive. Ve lo dico subito: sono d'accordo
con la stragrande maggioranza degli scienziati. Non bisogna farsi prendere dal
panico. Questa è un'influenza, certo aggressiva, ma non peste bubbonica.
Bisogna adottare semplici misure di prevenzione e di igiene, seguire le
istruzioni delle autorità sanitarie e istituzionali. Ve lo dico per la mia
esperienza di questi giorni.
Mi trovo a Bruxelles. Forse sono uno dei pochi deputati presenti perché, per il Parlamento europeo, questa è una settimana "verde", senza lavori di commissione. Ma non sono entrato nel palazzo perché ho seguito i consigli impartiti prima dalla Direzione generale del Personale e, oggi, dai Deputati Questori, che invitano lo staff ed i deputati che provengono dalle zone di contagio, a mettersi autonomamente in quarantena per i famosi 14 giorni. Sono arrivato a Bruxelles nella notte tra lunedì e martedì scorsi e ho subito appreso delle misure da seguire. Anche in ossequio alla deontologia professionale di medico, ho evitato di andare in ufficio. Avrei potuto farlo perché i Questori hanno rivolto solo un "invito" a non recarsi, non un obbligo. Ma, ovviamente, non l'ho fatto. E ho comunicato per e-mail la mia determinazione.
Mi trovo a Bruxelles. Forse sono uno dei pochi deputati presenti perché, per il Parlamento europeo, questa è una settimana "verde", senza lavori di commissione. Ma non sono entrato nel palazzo perché ho seguito i consigli impartiti prima dalla Direzione generale del Personale e, oggi, dai Deputati Questori, che invitano lo staff ed i deputati che provengono dalle zone di contagio, a mettersi autonomamente in quarantena per i famosi 14 giorni. Sono arrivato a Bruxelles nella notte tra lunedì e martedì scorsi e ho subito appreso delle misure da seguire. Anche in ossequio alla deontologia professionale di medico, ho evitato di andare in ufficio. Avrei potuto farlo perché i Questori hanno rivolto solo un "invito" a non recarsi, non un obbligo. Ma, ovviamente, non l'ho fatto. E ho comunicato per e-mail la mia determinazione.
Sono stato, dal mattino del giovedì 20 febbraio al
pomeriggio di lunedì 24 febbraio, a Milano, Bologna, Pesaro, Urbino, Forlì e
poi ancora a Milano e Bergamo. Un interessante giro di iniziative ed incontri
con gente meravigliosa. In località che rientrano, come sappiamo, nelle aree
considerate a rischio contagio. Mi trovo, dunque, nel mio domicilio di
Bruxelles impossibilitato a svolgere la mia mansione. Io sto bene, non ho alcun
sintomo ma sono in quarantena volontaria. Certamente, è anche un po' curioso
che ai deputati, provenienti dall'area di crisi, venga rivolto solo un
"invito" ad astenersi dall'ingresso. Capisco che godiamo
dell'immunità parlamentare ma non pensavo fossimo considerati immuni di fronte
al virus. Dunque, il buon senso, consiglierebbe di dire - ammesso che la
situazione sia davvero così estrema - tutti dentro o tutti fuori, deputati e
funzionari. Perché il virus non conosce differenze. Devo aggiungere: a
Bruxelles, in Belgio, sinora non sono state attuate misure di prevenzione.
La vicenda è senz'altro seria. Ma va affrontata con senso di responsabilità e, soprattutto, con calma e senza isterismi. Voglio dire che la situazione non deve essere, ovviamente, presa sotto gamba. Ma aggiungo, piuttosto, di essere molto preoccupato per le conseguenze che una situazione di paura e di ingiustificato panico possono verificarsi nel sistema economico, e non solo in Italia. Sarà bene che stare tutti un po' più calmi e riflessivi.
Ho sentito il presidente del Parlamento, David Sassoli, dire che bisogna seriamente cominciare a riflettere sul nostro sistema sanitario, cui va il nostro plauso, spezzettato in 20 Regioni. Sono perfettamente d'accordo. E come lui mi domando: ma dov'è, in frangenti come questi, la tanto declamata sanità privata?
Ps: leggo che gli aspiranti giovani stagisti italiani presso il Parlamento vengono respinti con una comunicazione via e-mail a causa del coronavirus. A pochi giorni dall'inizio del periodo di formazione. Chi li ripaga per le spese già sostenute (viaggio aereo, affitto, ecc.)?
La vicenda è senz'altro seria. Ma va affrontata con senso di responsabilità e, soprattutto, con calma e senza isterismi. Voglio dire che la situazione non deve essere, ovviamente, presa sotto gamba. Ma aggiungo, piuttosto, di essere molto preoccupato per le conseguenze che una situazione di paura e di ingiustificato panico possono verificarsi nel sistema economico, e non solo in Italia. Sarà bene che stare tutti un po' più calmi e riflessivi.
Ho sentito il presidente del Parlamento, David Sassoli, dire che bisogna seriamente cominciare a riflettere sul nostro sistema sanitario, cui va il nostro plauso, spezzettato in 20 Regioni. Sono perfettamente d'accordo. E come lui mi domando: ma dov'è, in frangenti come questi, la tanto declamata sanità privata?
Ps: leggo che gli aspiranti giovani stagisti italiani presso il Parlamento vengono respinti con una comunicazione via e-mail a causa del coronavirus. A pochi giorni dall'inizio del periodo di formazione. Chi li ripaga per le spese già sostenute (viaggio aereo, affitto, ecc.)?
Scontro
Conte-regioni, è ora che il servizio sanitario torni ad essere nazionale –
Pietro Greco
Il caso più eclatante è quello del presidente della
Regione Basilicata, Vito Bardi, che ha pensato bene di percorrere una strada
tutta sua e prescrivere una lunga quarantena a
tutti i lucani (con una particolare specifica per gli studenti)
che rientrano in Lucania dopo aver soggiornato in qualche modo nelle regioni
“infette” del Nord. Ma, in realtà, in questa emergenza da coronavirus le
regioni italiane si comportano ciascuna nella maniera che crede. O, almeno,
così denuncia il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Minacciando di togliere
le deleghe in materia sanitaria ai venti enti territoriali.
Certo, c’è una evidente polemica politica in questo
contenzioso. Ma questa polemica non potrebbe esistere senza un fondamento per
così dire strutturale. Il Servizio Sanitario Nazionale è, ormai, la somma (e
forse la sottrazione) di venti servizi sanitari
regionali. Una situazione che la vicenda del virus
Sars-CoV-2 sta rendendo eclatante, dimostrando la sua insostenibilità.
Venti modelli di sanità
Premessa, quando venne istituito, nel 1978, il
Servizio Sanitario Nazionale costituì un enorme passo in avanti in tema di
politica medica e di diritto alla salute. E, infatti, il Sistema Sanitario
Italiano è risultato, anche di recente, uno dei migliori al
mondo.
Il sistema si basa su un’articolazione delle competenze: allo stato compete definire i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) e, dunque, garantire un uguale diritto alla salute di tutti i cittadini italiani, alle regioni compete organizzare sul territorio che questo obiettivo venga raggiunto.
Il sistema si basa su un’articolazione delle competenze: allo stato compete definire i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) e, dunque, garantire un uguale diritto alla salute di tutti i cittadini italiani, alle regioni compete organizzare sul territorio che questo obiettivo venga raggiunto.
Detta in maniera meno burocratica, il sistema è
diretto da venti (quelle regionali) più una (quella statale) teste. Tutto bene
se tra i due livelli, quello nazionale e quello territoriale, funzionassero i
meccanismi di raccordo. Tuttavia da alcuni anni a questa parte (almeno venticinque) le
forze centrifughe stanno prevalendo sulle forze centripete. E ogni regione
segue un modello suo proprio.
Abbiamo così il “modello lombardo” e in parte il “modello veneto” che puntano
molte carte sul privato; quello
“emiliano-romagnolo” e quello “toscano” che viceversa propongo modelli
(altamente efficienti) fondati essenzialmente sul pubblico. Ci
sono poi i modelli insufficienti, spesso
largamente insufficienti – per tante cause, che non è qui il caso di analizzare
– delle regioni del Mezzogiorno d’Italia.
Robin Hood al contrario
Un indicatore di queste diversità di fondo è il saldo
della “migrazione dei pazienti”. O,
più correttamente, il saldo dei valori della mobilità sanitaria. I cittadini
del Sud emigrano verso le strutture sanitarie del Centro e soprattutto del Nord
per farsi curare, nella convinzione che lì trovano livelli di assistenza
decisamente superiore. E non per la qualità dei medici.
Morale: la regione Campania ha avuto un saldo netto negativo (insomma, ha dovuto sborsare) 323,4 milioni di euro per i cuoi cittadini che si sono fatti curare fuori altrove; la regione Calabria, 278,2 milioni di euro; la Sicilia 237,4: la Puglia 206,6. Un travaso netto di risorse monetarie dal Sud al Centro e al Nord, cui andrebbe aggiunto il saldo negativo delle cosiddette “risorse umane”, giovani meridionali laureati in medicina che vanno a cercare lavoro nel Settentrione. E, infatti, la Lombardia ha un saldo netto positivo nel bilancio della mobilità sanitaria di 804,6 milioni; l’Emilia Romagna di 302,4; la Toscana di 139,3; il Veneto di 138,2 milioni di euro.
Morale: la regione Campania ha avuto un saldo netto negativo (insomma, ha dovuto sborsare) 323,4 milioni di euro per i cuoi cittadini che si sono fatti curare fuori altrove; la regione Calabria, 278,2 milioni di euro; la Sicilia 237,4: la Puglia 206,6. Un travaso netto di risorse monetarie dal Sud al Centro e al Nord, cui andrebbe aggiunto il saldo negativo delle cosiddette “risorse umane”, giovani meridionali laureati in medicina che vanno a cercare lavoro nel Settentrione. E, infatti, la Lombardia ha un saldo netto positivo nel bilancio della mobilità sanitaria di 804,6 milioni; l’Emilia Romagna di 302,4; la Toscana di 139,3; il Veneto di 138,2 milioni di euro.
Il Robin Hood al
contrario della salute che sottrae quattrini ai poveri e
li dona ai ricchi è uno dei fattori che determinano l’allargamento della forbice delle
disuguaglianze di salute tra i cittadini del Sud, del Centro e del Nord. Un
indicatore è la vita media diversificata in queste diverse aree.
Andrebbe, inoltre, analizzata la crescente
disuguaglianza all’interno delle singole regioni. In molte le differenze tra
chi può permettersi servizi privati e chi no sta tangibilmente aumentando.
Secondo molti esperti il Sistema Sanitario Nazionale
non può reggere alle forze centrifughe che spingono venti diversi frammenti
regionali a correre in direzioni diverse, talvolta opposte. Così rischia di
perdere la sua qualità complessiva.
Non ce lo possiamo permettere. Non possiamo permettere che la sanità sia uno dei fattori che in Italia producono disuguaglianza dopo che, a partire dal 1978, ha prodotto un’integrazione a vantaggio di tutti. Non a caso la vita media in Italia è ancora tra le più alte del mondo.
Non ce lo possiamo permettere. Non possiamo permettere che la sanità sia uno dei fattori che in Italia producono disuguaglianza dopo che, a partire dal 1978, ha prodotto un’integrazione a vantaggio di tutti. Non a caso la vita media in Italia è ancora tra le più alte del mondo.
Che fare, dunque?
Proviamo a lanciare una proposta che agli occhi di
alcuni può sembrare una provocazione. Nuotiamo contro due
flussi di corrente: quello che chiede una sempre maggiore presenza del privato,
anche in sanità; quello che chiede una sempre maggiore autonomia delle regioni,
anche in sanità.
È necessario recuperare lo spirito e la lettera della riforma del 1978 che portò all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale. Il che significa assicurare una omogeneità sempre più spinta nei Livelli Essenziali di Assistenza. Una omogeneità che solo una sanità nuovamente e pressoché integralmente in mano allo stato nazionale può assicurare.
Da troppi anni stiamo lasciando la via buona (il giudizio è dei massimi esperti internazionali) per quella meno buona. È ora di tornare indietro, prima che sia troppo tardi. È ora di tornare indietro prime che l’Italia sia divisa nei fatti dai confini di venti sistemi sanitari regionali.
È necessario recuperare lo spirito e la lettera della riforma del 1978 che portò all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale. Il che significa assicurare una omogeneità sempre più spinta nei Livelli Essenziali di Assistenza. Una omogeneità che solo una sanità nuovamente e pressoché integralmente in mano allo stato nazionale può assicurare.
Da troppi anni stiamo lasciando la via buona (il giudizio è dei massimi esperti internazionali) per quella meno buona. È ora di tornare indietro, prima che sia troppo tardi. È ora di tornare indietro prime che l’Italia sia divisa nei fatti dai confini di venti sistemi sanitari regionali.
Grazie. Concordo integralmente.
RispondiEliminacome se la medicina dovesse e potesse essere esecitata in modi diversi a secondo della residenza del malato.
Eliminala realtà vera, secondo me, è che la regionalizzazione ha fatto crescere le tangenti, il deterioramento della sanità pubblica, e sopratutto ha creato un sottobosco di nomine politiche, amici di amici...