mercoledì 26 febbraio 2020

Il servizio sanitario NAZIONALE esiste ancora?



Il coronavirus visto da Pietro Bartolo

Vi racconto la mia sul Covid-19, cioè sul coronavirus, su questa influenza dalle forme aggressive. Ve lo dico subito: sono d'accordo con la stragrande maggioranza degli scienziati. Non bisogna farsi prendere dal panico. Questa è un'influenza, certo aggressiva, ma non peste bubbonica. Bisogna adottare semplici misure di prevenzione e di igiene, seguire le istruzioni delle autorità sanitarie e istituzionali. Ve lo dico per la mia esperienza di questi giorni.
 
Mi trovo a Bruxelles. Forse sono uno dei pochi deputati presenti perché, per il Parlamento europeo, questa è una settimana "verde", senza lavori di commissione. Ma non sono entrato nel palazzo perché ho seguito i consigli impartiti prima dalla Direzione generale del Personale e, oggi, dai Deputati Questori, che invitano lo staff ed i deputati che provengono dalle zone di contagio, a mettersi autonomamente in quarantena per i famosi 14 giorni. Sono arrivato a Bruxelles nella notte tra lunedì e martedì scorsi e ho subito appreso delle misure da seguire. Anche in ossequio alla deontologia professionale di medico, ho evitato di andare in ufficio. Avrei potuto farlo perché i Questori hanno rivolto solo un "invito" a non recarsi, non un obbligo. Ma, ovviamente, non l'ho fatto. E ho comunicato per e-mail la mia determinazione.
 
Sono stato, dal mattino del giovedì 20 febbraio al pomeriggio di lunedì 24 febbraio, a Milano, Bologna, Pesaro, Urbino, Forlì e poi ancora a Milano e Bergamo. Un interessante giro di iniziative ed incontri con gente meravigliosa. In località che rientrano, come sappiamo, nelle aree considerate a rischio contagio. Mi trovo, dunque, nel mio domicilio di Bruxelles impossibilitato a svolgere la mia mansione. Io sto bene, non ho alcun sintomo ma sono in quarantena volontaria. Certamente, è anche un po' curioso che ai deputati, provenienti dall'area di crisi, venga rivolto solo un "invito" ad astenersi dall'ingresso. Capisco che godiamo dell'immunità parlamentare ma non pensavo fossimo considerati immuni di fronte al virus. Dunque, il buon senso, consiglierebbe di dire - ammesso che la situazione sia davvero così estrema - tutti dentro o tutti fuori, deputati e funzionari. Perché il virus non conosce differenze. Devo aggiungere: a Bruxelles, in Belgio, sinora non sono state attuate misure di prevenzione.
 
La vicenda è senz'altro seria. Ma va affrontata con senso di responsabilità e, soprattutto, con calma e senza isterismi. Voglio dire che la situazione non deve essere, ovviamente, presa sotto gamba. Ma aggiungo, piuttosto, di essere molto preoccupato per le conseguenze che una situazione di paura e di ingiustificato panico possono verificarsi nel sistema economico, e non solo in Italia. Sarà bene che stare tutti un po' più calmi e riflessivi.
 
Ho sentito il presidente del Parlamento, David Sassoli, dire che bisogna seriamente cominciare a riflettere sul nostro sistema sanitario, cui va il nostro plauso, spezzettato in 20 Regioni. Sono perfettamente d'accordo. E come lui mi domando: ma dov'è, in frangenti come questi, la tanto declamata sanità privata?
 
Ps: leggo che gli aspiranti giovani stagisti italiani presso il Parlamento vengono respinti con una comunicazione via e-mail a causa del coronavirus. A pochi giorni dall'inizio del periodo di formazione. Chi li ripaga per le spese già sostenute (viaggio aereo, affitto, ecc.)?


Scontro Conte-regioni, è ora che il servizio sanitario torni ad essere nazionale – Pietro Greco

Il caso più eclatante è quello del presidente della Regione Basilicata, Vito Bardi, che ha pensato bene di percorrere una strada tutta sua e prescrivere una lunga quarantena a tutti i lucani (con una particolare specifica per gli studenti) che rientrano in Lucania dopo aver soggiornato in qualche modo nelle regioni “infette” del Nord. Ma, in realtà, in questa emergenza da coronavirus le regioni italiane si comportano ciascuna nella maniera che crede. O, almeno, così denuncia il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Minacciando di togliere le deleghe in materia sanitaria ai venti enti territoriali.
Certo, c’è una evidente polemica politica in questo contenzioso. Ma questa polemica non potrebbe esistere senza un fondamento per così dire strutturale. Il Servizio Sanitario Nazionale è, ormai, la somma (e forse la sottrazione) di venti servizi sanitari regionali. Una situazione che la vicenda del virus Sars-CoV-2 sta rendendo eclatante, dimostrando la sua insostenibilità.

Venti modelli di sanità
Premessa, quando venne istituito, nel 1978, il Servizio Sanitario Nazionale costituì un enorme passo in avanti in tema di politica medica e di diritto alla salute. E, infatti, il Sistema Sanitario Italiano è risultato, anche di recente, uno dei migliori al mondo.
Il sistema si basa su un’articolazione delle competenze: allo stato compete definire i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) e, dunque, garantire un 
uguale diritto alla salute di tutti i cittadini italiani, alle regioni compete organizzare sul territorio che questo obiettivo venga raggiunto.
Detta in maniera meno burocratica, il sistema è diretto da venti (quelle regionali) più una (quella statale) teste. Tutto bene se tra i due livelli, quello nazionale e quello territoriale, funzionassero i meccanismi di raccordo. Tuttavia da alcuni anni a questa parte (almeno venticinque) le forze centrifughe stanno prevalendo sulle forze centripete. E ogni regione segue un modello suo proprio. Abbiamo così il “modello lombardo” e in parte il “modello veneto” che puntano molte carte sul privato; quello “emiliano-romagnolo” e quello “toscano” che viceversa propongo modelli (altamente efficienti) fondati essenzialmente sul pubblico. Ci sono poi i modelli insufficienti, spesso largamente insufficienti – per tante cause, che non è qui il caso di analizzare – delle regioni del Mezzogiorno d’Italia.

Robin Hood al contrario
Un indicatore di queste diversità di fondo è il saldo della “migrazione dei pazienti”. O, più correttamente, il saldo dei valori della mobilità sanitaria. I cittadini del Sud emigrano verso le strutture sanitarie del Centro e soprattutto del Nord per farsi curare, nella convinzione che lì trovano livelli di assistenza decisamente superiore. E non per la qualità dei medici.
Morale: la regione Campania ha avuto un saldo netto negativo (insomma, ha dovuto sborsare) 323,4 milioni di euro per i cuoi cittadini che si sono fatti curare fuori altrove; la regione Calabria, 278,2 milioni di euro; la Sicilia 237,4: la Puglia 206,6. Un 
travaso netto di risorse monetarie dal Sud al Centro e al Nord, cui andrebbe aggiunto il saldo negativo delle cosiddette “risorse umane”, giovani meridionali laureati in medicina che vanno a cercare lavoro nel Settentrione. E, infatti, la Lombardia ha un saldo netto positivo nel bilancio della mobilità sanitaria di 804,6 milioni; l’Emilia Romagna di 302,4; la Toscana di 139,3; il Veneto di 138,2 milioni di euro.
Il Robin Hood al contrario della salute che sottrae quattrini ai poveri e li dona ai ricchi è uno dei fattori che determinano l’allargamento della forbice delle disuguaglianze di salute tra i cittadini del Sud, del Centro e del Nord. Un indicatore è la vita media diversificata in queste diverse aree.
Andrebbe, inoltre, analizzata la crescente disuguaglianza all’interno delle singole regioni. In molte le differenze tra chi può permettersi servizi privati e chi no sta tangibilmente aumentando.
Secondo molti esperti il Sistema Sanitario Nazionale non può reggere alle forze centrifughe che spingono venti diversi frammenti regionali a correre in direzioni diverse, talvolta opposte. Così rischia di perdere la sua qualità complessiva.
Non ce lo possiamo permettere. Non possiamo permettere che la sanità sia uno dei fattori che in Italia 
producono disuguaglianza dopo che, a partire dal 1978, ha prodotto un’integrazione a vantaggio di tutti. Non a caso la vita media in Italia è ancora tra le più alte del mondo.

Che fare, dunque?
Proviamo a lanciare una proposta che agli occhi di alcuni può sembrare una provocazione. Nuotiamo contro due flussi di corrente: quello che chiede una sempre maggiore presenza del privato, anche in sanità; quello che chiede una sempre maggiore autonomia delle regioni, anche in sanità.
È necessario recuperare lo spirito e la lettera della riforma del 1978 che portò all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale. Il che significa 
assicurare una omogeneità sempre più spinta nei Livelli Essenziali di Assistenza. Una omogeneità che solo una sanità nuovamente e pressoché integralmente in mano allo stato nazionale può assicurare.
Da troppi anni stiamo lasciando la via buona (il giudizio è dei massimi esperti internazionali) per quella meno buona. È ora di 
tornare indietro, prima che sia troppo tardi. È ora di tornare indietro prime che l’Italia sia divisa nei fatti dai confini di venti sistemi sanitari regionali.


2 commenti:

  1. Risposte
    1. come se la medicina dovesse e potesse essere esecitata in modi diversi a secondo della residenza del malato.
      la realtà vera, secondo me, è che la regionalizzazione ha fatto crescere le tangenti, il deterioramento della sanità pubblica, e sopratutto ha creato un sottobosco di nomine politiche, amici di amici...

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