Educazione e istruzione, da
sempre necessarie per lo sviluppo della libera personalità, sembrano essere
diventate opposte e incompatibili da quando i pedagogisti pretendono che
l’insegnante non debba istruire gli allievi tenendo lezioni e
verificandone lo studio, ma debba educarli senza nulla
aggiungere a quanto già sanno, limitandosi a stimolarne gli interessi e la
creatività, così che la scuola, finora un carcere per la ‘trasmissione’ di
inutili e comunque evanescenti conoscenze teoriche, si
trasfiguri in un giardino gioioso in cui fioriscono flessibilità mentale
e competenze pratiche. Non è la prima volta che la pedagogia
polemizza con l’istruzione; già Rousseau, che nel suo «Emilio» proclamò di
odiare i libri, progettava un’educazione che eludesse le astrattezze della
teoria e condizionasse il fanciullo con la segreta manipolazione del suo
ambiente; già in lui il rigetto della civiltà diventò divieto di istruire e
l’educazione assunse accenti totalitari[1]. In ogni caso è un segno di estrema
decadenza che, entro la civiltà ai cui inizi è sbocciata la libera filosofia,
si diffami la conoscenza teorica come fonte di corruzione dei giovani. Un
simile rovesciamento di valori suggerisce l’opportunità di qualche
considerazione altrimenti scontata sul senso dei due concetti.
Educazione si riferisce in genere
all’ambito morale, all’acquisire le abitudini che consentono alle persone una
convivenza senza troppi attriti. La prima convivenza degli individui è la
famiglia. Diretta ai bambini dalla loro nascita, l’educazione familiare procede
per lo più muta, per lo più grazie all’imitazione; e quando prende la parola è
per lo più proibitiva. Poiché il suo lato positivo consiste nell’imitazione e
il suo lato negativo nella proibizione, essa non è più spontanea e creativa
dell’istruzione; al contrario, essa limita in silenzio l’ambito dell’esperienza
possibile e la spontaneità per proteggerle dalle conseguenze lesive.
Essendo
inoltre dirette a prevenire i pericoli, le proibizioni educative valgono prima di
essere motivate: esplicitare i motivi di una proibizione ne rafforza
l’efficacia, rispetta la dignità e suscita l’autonomia del bambino; ma non è
saggio aspettare che questi sia in grado di capire e abbia sufficiente
autocontrollo da comportarsi secondo ciò che ha capito, per impedirgli
comportamenti sconvenienti o pericolosi. In una parola, l’educazione è un rapporto
essenzialmente familiare e, pur non essendo incompatibile con la
spiegazione, dapprima è dogmatica: i principi dei
comportamenti trasmessi silenziosamente e delle proibizioni pronunciate, per
quanto siano corretti ed efficaci, valgono già prima di essere espliciti, già
prima di essere dimostrati, sulla base naturale della fiducia dei
figli e dell’autorità dei genitori.
Fiducia e
autorità non si interrompono con l’uscita dalla famiglia, anzi entrano in ogni
tipo di comunità umana. E come la precedente obbedienza ai genitori non esclude
nel figlio la successiva acquisizione della libertà personale, così la fiducia
dell’adulto nell’autorità è suscettibile di essere confermata dalla conoscenza
razionale. Il dogma oggetto di fede ha una forma e un contenuto; soltanto la
forma, per la sua immediatezza, non il contenuto, è in sé incompatibile con la
ragione filosofica. Con la conoscenza critica del contenuto
del dogma l’immediatezza della sua forma è dissolta e la ragione non si
percepisce più come assoggettata a una necessità a lei estranea perché in ciò
che le era estraneo ora riconosce sé stessa. Conoscere non è dunque
collezionare curiosità, ma ha il significato profondo della liberazione;
e poiché non si può conoscere senza istruzione, il passaggio dall’educazione
all’istruzione è per ciascuno l’inizio della libertà.
È tuttavia
possibile che il dogma sia fissato nella sua forma opaca e affermato come un
aldilà della ragione – proprio come si può fare dell’educazione la forma ultima
del rapporto tra le generazioni. Il dogma posto come insondabile dalla ragione,
come pure l’educazione senza istruzione e il paternalismo come principio
politico, definiscono la religione teocratica. Benché la teologia
rifletta sulla rivelazione che la fonda per esplicitarne i principi, i principi
esplicitati, utili a spiegare ciò che ne segue, sono concepiti come misteri
rispetto ai quali il bisogno di spiegazione razionale deve restare
insoddisfatto e cedere il posto alla fede.
La polemica
contro il potere religioso, l’illuminismo, ha colto nel suo massimo
esponente, Immanuel Kant, il nesso tra illibertà, religione ed educazione
familiare: «L’illuminismo – dice Kant – è l’uscita dell’uomo dalla minorità di
cui ha colpa lui stesso»[2]. L’illuminismo è l’uomo che si libera
convocando davanti al tribunale della critica i dogmi che esigono da lui
obbedienza, per vagliarne la razionalità; solo riconoscendo sé stessa nelle
leggi la ragione è infatti adulta e veramente libera.
Attaccata
dall’illuminismo e dalla sua esigenza di sostituire la fede con la conoscenza,
la religione si è difesa sostenendo che la ragione umana è finita e
la libertà della ragione finita, anziché esserne la perfezione, è appunto il
male; chi poi voglia giustificati davanti alla ragione i principi del
dovere sta solo camuffando l’intima sua ribellione; dunque l’indagine razionale
sui principi, lungi dal confermarli, ne dissolve la sublimità e ha il suo esito
necessario non in una società libera e armonica in quanto fondata su principi
condivisi e trasparenti a ciascuno, ma nel terrore rivoluzionario scatenato dal
settarismo della ragione finita o nell’inferno libertario del marchese De Sade.
La difesa dell’insondabilità
del dogma sulla base della finità della ragione, alleatasi all’accidia
filosofica, ha avuto una così grande efficacia storica da favorire il
degradarsi dell’illuminismo nel positivismo e da garantire la sopravvivenza
della religione teocratica. Come la religione, il positivismo concepisce la
ragione come constatazione di meri fatti, dunque finita, l’uomo e
la società come basati su leggi subite e la politica
come ingegneria sociale per indurre l’obbedienza. La scienza
può anche respingere la religione; ma se sotto la spinta del positivismo essa
considera la conoscenza razionale dei suoi principi impossibile o superflua, se
si considera cioè indifferente alla filosofia, al suo rifiuto della religione
resta aderente un carattere religioso: come i monoteisti esaltavano il loro Dio
denunciando l’impotenza degli dei pagani, gli scienziati positivisti esaltano
la loro scienza denunciando l’impotenza della religione. – La rinuncia alla
conoscenza filosofica dei principi riduce i principi a dogmi, che si impongono
per l’evidenza procurata loro dall’abitudine, ma trascendono la ragione di cui
si dà per scontata la finità: sono questi i tratti condivisi da religione e
positivismo.
Si potrebbe
credere che i principi della scienza, a differenza di quelli teologici, siano
semplici, evidenti, che dunque non abbiano nulla di misterioso, di infido. Una
conseguenza di questa fiducia sarebbe fondare la scienza sul dogmatismo
dell’evidenza, con grave danno per la sua natura critica. Ma è una
fiducia mal riposta: l’evidenza non è mai abbastanza tale da non essere
travagliata da un’intima oscurità. Hegel, che ha iniziato la sua «Scienza della
logica» dalla categoria più evidente, quella dell’essere puro, ha
mostrato come perfino nella sua estrema semplicità ci sia più della semplicità.
Nel concepire i principi come misteriosi, la teologia si mostra quindi più
saggia di quella fiducia. Di fatto, una scienza senza indagine critica dei
principi, una scienza senza filosofia, rischia di essere indistinguibile dalla
religione.
Un tentativo
di eludere questa conseguenza è la sopravvalutazione positivista del
procedimento induttivo: la scienza differirebbe dalla religione o dalla
metafisica in quanto, anziché perdersi tra le entità trascendenti, conosce i
fatti positivi, dipende dai dati sensibili. La cosiddetta epistemologia ha
mostrato come questo tentativo fosse fragile; la verità della scienza, la sua
corrispondenza ai fatti, non si dà infatti nell’osservazione dei singoli dati
sensibili, ma nella previsione, dunque nella visione dei nessi da cui essi
dipendono, nella scoperta delle leggi universali a cui sono sottomessi; dunque
non le leggi universali dipendono dai singoli dati sensibili, ma i singoli dati
sono determinati dalle leggi e dalla visione generale implicita in queste. Nel
criticare la fiducia dell’induttivismo nell’osservazione, l’epistemologia non
ha però recuperato l’esigenza illuminista della critica dei principi, ha anzi
lasciato campo libero all’accidia filosofica.
Se non si
indagano i principi della scienza, se li si accetta come la teologia accetta i
suoi dogmi, c’è ancora un mezzo per tenerle distinte: rovesciare le identità
tradizionali tra scienza e definitività e tra opinione e precarietà, così da
poter respingere nel non scientifico ogni discorso che si pretende definitivo e
fare della precarietà l’essenza della scienza. Ne segue che, a dispetto di ogni
progresso delle conoscenze, la ragione è identificata con lo scetticismo.
Certo, che la scienza rinunci a ogni verità definitiva può apparire un virtuoso
atto di umiltà e il trionfo dello spirito critico. Da una parte, però, la
rinuncia alla verità non è mai umile; nella verità infatti non solo il soggetto
si esalta rivelando la legge delle cose, ma anche si umilia inchinandovisi;
d’altra parte lo spirito critico non trionfa affatto nel rifiuto sprezzante
dell’oggetto criticato, ma nel pervenire a un risultato positivo in cui
l’oggetto criticato non sia solo perduto, ma anche conservato. Solo così la
scienza forma un’unica tradizione progressiva.
Il disfattismo
che affida allo scetticismo la demarcazione tra fede e scienza ha poi una grave
conseguenza pratica: come negazione prima del dogmatismo, lo scetticismo lo
conserva attenuato, così da restare sottomesso alle leggi nel momento stesso in
cui le rifiuta; perciò lo scettico si regola secondo leggi naturali di cui
dubita e obbedisce a norme in cui non crede. La scienza scettica è anche
dogmatica: da una parte, a causa del suo scetticismo, rinuncia a considerare
definitiva ogni differenza rilevata; d’altra parte, nonostante il suo
scetticismo, tiene ferma la sua superiorità sulla non scienza, dunque taccia di
oscurantismo le eventuali differenze che questa pone, e nel qui e ora fa
valere come decisiva la propria valutazione, così da risultare dogmatica. In
particolare, mentre la religione fissava un ordine complessivo di differenze
nella realtà, per cui lo spirituale domina sul vitale e il vitale sul
meccanico, le scienze, che il compito di dominare tecnicamente la natura
inclina verso il riduzionismo materialista, sulla base del loro scetticismo non
riconoscono alcun ordine definitivo, sulla base del loro dogmatismo assolutizzano
di volta in volta il precario. Le scienze reclamano allora sull’uomo la stessa
onnipotenza propria della religione, non in nome dello spirito ma della
materia; e può accadere che l’ecologo, il medico e lo psicologo svolgano oggi
per la dinamica borghesia capitalista lo stesso ruolo che il teologo, il
confessore e l’inquisitore svolgevano ieri per la statica aristocrazia feudale.
Cancellato
ogni limite assoluto dalle scienze in preda allo scetticismo, le categorie
applicate con successo alla natura così da renderne possibile il dominio sono
applicate all’uomo stesso così da farne una natura da dominare. L’indagine
riduzionista sull’uomo delle scienze umane ne opprime
l’essenza, che consiste nella libertà; al pari della scienza della
natura, esse vorrebbero considerarla un fastidioso residuo di casualità che
riduce le leggi determinanti a leggi soltanto probabili. Per quanto la casualità,
cioè l’arbitrio del preferire questo o quello, abbia la sua importanza nella
vita di ognuno e alimenti un fenomeno imponente come la moda, la
libertà umana è però un oggetto ben più consistente e ha generato una
precisa scienza, ben profonda delle scienze umane, cioè il diritto,
che nasce con l’uomo stesso. Nel diritto l’uomo non è solo arbitrio casuale e
assoggettato a leggi rivelate o naturali, ma è soggetto a leggi di cui lui
stesso è legislatore, e conoscersi come legislatore è la
determinazione superiore, giuridica, della libertà.
Con
l’imporsi delle scienze umane, trascurata l’esigenza illuminista di raggiungere
la libertà tramite la conoscenza, diventano forma esclusiva del rapporto tra le
generazioni il condizionamento educativo, anziché l’istruzione, e il
paternalismo, anziché la critica. La scuola ridotta a comunità educante da
una parte invade il campo della famiglia, dall’altra ne estende il modello
all’intera esistenza dell’individuo, lo assoggetta cioè a un potere che non
conosce limiti nell’imporre il suo dogma. È la pedagogia a
rendersi responsabile di questo degrado da quando si è riconosciuta come
scienza umana e ne ha condiviso il progetto. Il disprezzo pedagogico della
conoscenza non solo alimenta la barbarie culturale, ma suscita una minaccia per
la libertà in senso politico. Le leggi non possono essere concepite
come derivanti dal potere legislativo della ragione se non sono conosciute criticamente:
una delle prime rivendicazioni della libertà fu che le leggi fossero scritte,
leggibili da tutti; inconoscibili, esse regrediscono nella cieca necessità.
Poiché la libertà non è sottrarsi al dovere, ma conoscere il
diritto nel dovere, la sovranità nella sudditanza, la conoscenza non
è un vezzo d’altri tempi, ma il dono più grande che una generazione possa fare
all’altra. Educazione e istruzione non sono dunque opposte; meno che mai è
pensabile che l’istruzione possa essere sostituita con l’educazione senza che
vada perduta la libertà politica; esse differiscono come religione e filosofia,
non nel contenuto ma nella forma: come la filosofia mostra ciò che c’è di
razionale nel sacro, l’istruzione non solo dà, ma spiega la
regola, e il docente, a differenza dei genitori, è tale se ne conosce il
perché, se spiega i procedimenti e se li pretende solo in
quanto li ha spiegati. Nello spiegare egli istruisce e indirettamente educa
alla libertà dando soddisfazione all’esigenza critica dei discenti.
Non occorre
temere, infine, che i principi dell’argomentare siano
insondabili, che la fede sia l’ultima parola rispetto alla scienza e che questa
debba ridursi allo scetticismo per demarcare la sua natura: la filosofia è da
sempre liberazione della conoscenza attraverso l’indagine dei principi e la
stessa esigenza illuminista ha trovato soddisfazione nel metodo hegeliano, che
non si arrende al dogmatismo, ma ne conosce la dialettica e in questa
dialettica trova il principio superiore, così che la ragione può appagarsi nel
libero movimento del cerchio dei principi.
Se il sapere
argomentato, la conoscenza della cosa nella sua ragione è l’essenza
dell’istruzione e ha il significato etico di rendere l’uomo libero, la fine
dell’istruzione rivela che non solo la scuola, ma la stessa società ha cessato
di essere libera. Un ceto politico che ha consegnato a forze estranee il suo
Paese non può tollerare la conoscenza e la libertà e così bandisce l’istruzione
dalla scuola. Forse non occorre ricorrere ai mutamenti tecnologici per capire
l’attuale degrado della scuola pubblica in Italia e nel mondo occidentale[3]: la scomparsa del senso della politica
per il prevalere delle oligarchie del denaro sul finire degli anni Settanta
spiega a sufficienza la degenerazione dell’intero ambito pubblico e della
scuola che ne è un elemento vitale, e spiega perché suo primo responsabile non
poteva che essere la sinistra, indotta dal suo antico disprezzo per lo Stato a
passare dal rivoluzionario Marx al neoliberale von Hayek. La scuola cessa di
istruire e come ‘comunità educante’ si riduce a condizionare le menti perché è
assoggettata, come la società di cui è parte, allo spirito del mercato: gli
istituti, prostituiti al marketing per attrarre ingenui
clienti ed essi stessi trasformati in ingenui clienti di paccottiglia
didattica, devono diventare infine così disfunzionali da indurre i genitori a
pagare ai loro figli la scuola privata, perché vi acquistino non più
conoscenza, ma competenze vendibili sul mercato del lavoro. E come il degrado
della scuola non è un fenomeno legato allo sviluppo dei mezzi di produzione,
così la sua rinascita presuppone, più che una nuova epoca tecnologica, la
rinascita della politica dalla nausea per la servitù.
Note
[1] «Prendete una via opposta con il
vostro allievo; che creda sempre di essere il padrone, e invece siatelo sempre
voi. Non vi è assoggettamento più perfetto di quello che conserva l’apparenza
della libertà; si rende così prigioniera la volontà stessa. Il povero bambino
che non sa niente, non può niente, non conosce niente, non è forse alla vostra
mercé? Non disponete forse, in rapporto a lui, di tutto ciò che lo circonda?
Non siete forse padrone di influenzarlo come vi piace? I suoi lavori, i suoi
giochi, i suoi piaceri, le sue pene, tutto, non è forse nelle vostre mani senza
che egli lo sappia? Senza dubbio egli non deve fare se non ciò che vuole, ma
non deve volere altro all’infuori di ciò che voi volete che faccia; egli non
deve fare un passo che voi non abbiate previsto; non deve aprir bocca senza che
voi sappiate ciò che sta per dire.» J. J. Rousseau Natura educazione
società. Un’antologia di scritti a cura di Pietro Rossi, Loescher, Torino
1971, pp. 101-102.
[3] Come sembra fare Lucio Russo
recensendo il notevole libro di Galli della Loggia. La recensione è disponibile
al seguente indirizzo: https://anticitera.org/2019/09/01/recensione-a-laula-vuota-di-ernesto-galli-della-loggia/.
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