Mentre lo sguardo dell’opinione pubblica mondiale è rivolto altrove, nel
Sahel infuria la tempesta perfetta. Cellule jihadiste di diversa matrice stanno
concentrando le forze per impiantare su queste sabbie dimenticate un nuovo
califfato. Il gruppo Stato islamico (Is), fortemente ridimensionato in Medio
Oriente, sta trovando terreno fertile nei paesi della striscia sahelo-sahariana
centrale come Mali, Niger e Burkina Faso, dove crisi umanitarie,
militarizzazione, impoverimento e conflitti stratificati destabilizzano ampie
regioni.
Non è un caso che il 23 marzo 2019, a poche ore dalla dichiarazione del
segretario di stato americano Mike Pompeo circa la sconfitta dell’Is in Siria e
in Iraq, un comunicato del gruppo Stato islamico nel grande Sahara abbia
decretato “aperte le operazioni in Burkina Faso”. Questo piccolo paese
saheliano, infatti, nell’ultimo anno è rapidamente scivolato in un baratro
d’insicurezza che lo ha trasformato nel nuovo fronte del jihadismo globale.
I paesi del Sahel
Nella base dell’Unità speciale d’intervento della polizia nazionale, a
Ouagadougou, l’atmosfera è febbrile. Una sirena è appena suonata, facendo
rapidamente radunare nel cortile della caserma una quarantina di teste di cuoio
in assetto da guerra. Mentre il capo commissario Patrice Yéyé urla ordini ai
suoi uomini interamente vestiti di nero, un drone decolla verso un casolare
poco lontano, dove si sospetta si nascondano alcuni terroristi con ostaggi.
All’improvviso cominciano le raffiche di kalashnikov. Pur trattandosi di
un’esercitazione di routine, dell’azione viene curato ogni dettaglio, per
renderlo il più realistico possibile: avvicinamento al palazzo, sfondamento con
due blindati, infiltrazione nella costruzione, eliminazione dei (finti)
assalitori e liberazione degli ostaggi. Il tutto sotto lo sguardo attento del
pluridecorato capitano. “Nei casi delle stragi l’efficacia del primo intervento
è determinante. Durante i tre attentati che si sono susseguiti qui in città (il
15 gennaio 2016, il 13 agosto 2017 e il 2 marzo 2018, ndr) ci siamo fatti
cogliere di sorpresa, eravamo impreparati e male equipaggiati per affrontare
operazioni terroristiche così strutturate”.
Le forze di sicurezza burkinabé, come racconta il veterano, negli scorsi
anni hanno subìto una ristrutturazione finalizzata a epurare intelligence,
esercito e polizia dagli elementi nostalgici dell’ex dittatore Blaise Compaoré,
creando un vuoto operativo prontamente sfruttato dalle cellule jihadiste
annidate nelle zone transfrontaliere di Mali e Niger. “Negli ultimi tempi,
però, ci stiamo riorganizzando grazie agli sforzi del governo e di partner come
Stati Uniti, Francia e Belgio che ci forniscono materiale e formazione”,
assicura Patrice Yéyé, che ha preso parte a diversi addestramenti di antiterrorismo
all’estero, come ricordano le medaglie scintillanti (tra cui anche una
italiana) sulla sua divisa.
Nel teatro geopolitico saheliano, attraverso un mix di diplomazia e
cooperazione militare, diverse potenze mondiali si spartiscono influenza e
posizionamento strategico su un territorio enorme, poco affollato e ricco di
materie prime. Se attori “postcoloniali” come Francia e Stati Uniti tentano
timidamente di defilarsi dopo sette anni di (poco efficace) guerra al
terrorismo – con Parigi (4.500 soldati francesi dispiegati dal 2013 nella
regione) in cerca di alleati europei che possano coprirne la ritirata e
Washington (più di mille uomini, basi e droni sparsi per il Sahel) in graduale
smantellamento del proprio contingente – nuovi soggetti cercano di utilizzare
il conflitto contro il jihadismo per riposizionarsi strategicamente sullo
scacchiere del Sahel.
Tra questi ci sono la Germania, il Regno Unito e l’Italia (con la missione
Deserto rosso in Niger e l’apertura di nuove ambasciate a Ouagadougou e Niamey)
ma anche la Cina, la Turchia, l’India e, sempre di più, la Russia. Da qualche
mese, ormai, nei locali del centro di Ouagadougou non è difficile incrociare
gruppi di mercenari russi che ordinano vodka lamentandosi del caldo, mentre
fuori sfilano, di notte e di giorno, le ronde di militari e polizia nazionale
che pattugliano luoghi sensibili: le strade principali, le scuole, i mercati e
i caselli della città con mezzi e merci in entrata. “I narcoterroristi si
autofinanziano soprattutto grazie ai traffici di droga, armi ed esseri umani
che attraversano tutta la regione, per questo dobbiamo controllare il più
possibile le nostre frontiere”, spiega Yéyé durante una perquisizione alla
porta nord della capitale.
Popolazioni allo stremo
Oltre ai traffici altre importanti fonti di sostentamento della “guerra santa” sono le tasse imposte alle popolazioni locali, lo sfruttamento delle miniere d’oro informali – di cui il Sahel trabocca – e i riscatti pagati da alcuni governi occidentali per il rilascio dei cittadini rapiti.
Oltre ai traffici altre importanti fonti di sostentamento della “guerra santa” sono le tasse imposte alle popolazioni locali, lo sfruttamento delle miniere d’oro informali – di cui il Sahel trabocca – e i riscatti pagati da alcuni governi occidentali per il rilascio dei cittadini rapiti.
Fino a oggi, infatti, sono più di una decina gli stranieri che risultano
dispersi nella regione, inghiottiti dalle sabbie mentre lavoravano o visitavano
questi paesi. Tra loro ci sono anche due italiani: Luca Tacchetto, viaggiatore
catturato in Burkina Faso il 15 dicembre 2018 con la compagna canadese Edith
Blais, e successivamente, secondo diverse fonti, venduti a gruppi del nord del Mali;
e il missionario Pierluigi Maccalli, rapito in Niger nel settembre del 2018 e
da allora frequentemente spostato dai jihadisti tra qui e il nordest del
Burkina, a seconda dei ciclici rastrellamenti delle forze di sicurezza locali
(che spesso, come denunciano le organizzazioni per i diritti umani, sfociano in
violenze sommarie contro i civili).
Analogamente a quanto successo nei vicini Mali e Niger, all’aumentare dei
controlli nella capitale – dove non avviene un attentato da quasi due anni –
anche in Burkina Faso le azioni dei gruppi jihadisti si sono spostate in zone
rurali più remote, sfruttando la scarsa presenza dell’esercito e dello stato
centrale e il conseguente senso di abbandono di popolazioni periferiche più
inclini all’arruolamento.
Per accentuare le ferite aperte in seno a comunità e gruppi etnici locali,
gli strateghi di Al Qaeda nel Maghreb islamico e del gruppo Stato islamico
sfruttano anche antichi conflitti tra allevatori e coltivatori fomentando odio,
vendette e spargimenti di sangue in una spirale di violenza che nel solo
2019 ha causato decine di villaggi bruciati, centinaia di morti e decine
di migliaia di sfollati interni e rifugiati. Un ulteriore fattore
destabilizzante in un contesto già fragile, soprattutto trattandosi di zone
dove l’accesso ai servizi sanitari di base, all’acqua, all’elettricità, è
gravemente limitato dall’insicurezza.
Vivaio illimitato
Di pari passo l’emergenza umanitaria si fa di mese in mese più critica. La minaccia terrorista e la conseguente militarizzazione, infatti, limitano l’accesso delle ong internazionali e locali e delle organizzazioni umanitarie alle regioni maggiormente bisognose d’aiuto, dove cicliche crisi alimentari e sanitarie, unite ai nefasti effetti dei cambiamenti climatici, incidono sulle condizioni di vita d’intere popolazioni della fascia sahelo-sahariana che si sentono sempre più dimenticate.
Di pari passo l’emergenza umanitaria si fa di mese in mese più critica. La minaccia terrorista e la conseguente militarizzazione, infatti, limitano l’accesso delle ong internazionali e locali e delle organizzazioni umanitarie alle regioni maggiormente bisognose d’aiuto, dove cicliche crisi alimentari e sanitarie, unite ai nefasti effetti dei cambiamenti climatici, incidono sulle condizioni di vita d’intere popolazioni della fascia sahelo-sahariana che si sentono sempre più dimenticate.
“Proprio di questo senso di abbandono si nutrono le forze oscurantiste”.
Germain Nama è uno dei più autorevoli giornalisti del paese. Fondatore e
direttore di L’Evénement, primo bimestrale
d’inchiesta del Burkina Faso, quest’uomo ha vissuto tutti gli sconvolgimenti
politici regionali degli ultimi quarant’anni. “Ciò che siamo costretti a
raccontare oggi, però, nessuno l’avrebbe mai neanche immaginato”, sentenzia
amaro.
Nella zona del Liptako-Gourma, la “regione delle tre frontiere” a cavallo
tra Mali, Niger e Burkina Faso, vero e proprio feudo jihadista, secondo i dati
dell’Unicef più di 5.300 scuole hanno chiuso i battenti nel 2019: mille nella
zona di Mopti, in Mali, altrettante in Niger e oltre 3.300 nelle regioni del
nord e dell’est del Burkina Faso. Diversi istituti sono stati dati alle fiamme,
circa 650mila studenti sono rimasti a casa, settemila professori sono stati
picchiati, minacciati e costretti a sbarrare le aule, smettere d’insegnare e
fuggire nella capitale.
“La chiusura delle scuole è un dramma enorme. I terroristi mirano ad
asfissiare la nostra società colpendo la gioventù, cioè lo strumento principale
del nostro sviluppo, privandola dell’educazione”. Con un passato da insegnante
di filosofia alle spalle, Nama conosce bene il valore dello studio, specie in
realtà periferiche come quelle della parte saheliana del Burkina Faso. “Se non
si riuscirà a intervenire riaprendo queste scuole sarà come lasciare agli
estremisti un vivaio di reclutamento illimitato”.
I recenti attacchi alle chiese e l’uccisione di alcuni preti burkinabé nel
nord e nell’est, così come l’esecuzione del missionario salesiano spagnolo
Antonio César il 15 febbraio 2019, nell’analisi del giornalista, sono ulteriori
strumenti nelle mani dei terroristi per colpire al cuore la convivenza pacifica
tra diverse religioni – da oltre un secolo pilastro incrollabile della
coabitazione in Burkina Faso – e “dividere per meglio dominare le comunità
abbandonate di tutto il Sahel”. A fare da sfondo ideologico a tale lettura dei
giochi di potere in corso, la lotta interna all’islam tra il tradizionale
malikismo, corrente aperta storicamente maggioritaria in Africa occidentale,
oggi in forte crisi, e il wahabismo/salafismo violento d’importazione
saudita-qatarina, sempre più “politico” ed espansionistico.
Ennesimo elemento disgregante citato da Germain Nama è la crisi che vive il
turismo, in passato settore chiave dell’economia dei paesi saheliani e oggi
fortemente contratto e relegato praticamente alle sole capitali. “Per un bianco
basta uscire qualche chilometro da Ouaga per rischiare la pelle”. Una realtà
triste da confessare per un burkinabé orgoglioso come lui. Ma, nonostante
alcune coraggiose reazioni d’orgoglio da parte della società civile e degli
artisti nella bolla di Ouagadougou, gli avvenimenti che giorno dopo giorno,
nell’assordante silenzio dei mezzi d’informazione occidentali, insanguinano
questa regione – dalla “strage della vigilia”, il 24 dicembre scorso ad
Arbinda, con 35 civili uccisi di cui 31 donne, all’ultima “strage del mercato
di Silgadji” che nella provincia di Soum ha ucciso quasi 40 civili, il 25
gennaio – delineano tutti i tratti della tempesta perfetta che sta investendo
il Burkina Faso e l’intero Sahel.
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