giovedì 13 febbraio 2020

L’inutilità dei rifugiati - Gian Andrea Franchi



La questione dei rifugiati è oggi fondamentale. Tocca ogni istanza di liberazione: razziale, di classe ma anche, come vedremo, sessuale… Riguarda il fondo, l’inconscio, della nostra civiltà europea, occidentale o come la si voglia chiamare, nel cui nome e delle sue varie declinazioni (civiltà, diritti, democrazia…) si sono compiute le imprese peggiori degli ultimi cinquecento anni.
Perché è fondamentale? Perché l’arrivo in Europa di questo particolare tipo di emigrazione/immigrazione mostra le fondamenta di violenza senza limiti della “civiltà” detta “occidentale” (più concretamente, capitalismo), basate sulla riduzione del vivere al possedere, riduzione propria della cultura androcentrica, animata dall’impulso fondamentale di dominare l’inafferrabilità della vita, di cui il possesso lato sensu è la modalità storica principale. Perciò questo affiorare della gente del sottosuolo dell’Europa, dell’Occidente, dentro i nostri confini, dentro le nostre città, non può essere accettato. Perciò questa gente, figlia della distruzione materiale e culturale dell’Africa e del Medioriente (a suo tempo, invenzione franco-britannica, come gli Stati africani), che muore in mare o nel Sahara, che muore di stenti e di violenza o a stento sopravvive nei lager libici, che vaga nei nostri parchi o stazioni, che dorme per mesi e mesi all’aperto o nei meandri delle città, deve restare, in qualche modo, fuori scena.
Ma la sua girovagante presenza, che non si può (per ora, ma si sta cominciando) trattare apertamente “alla nazista”, mentre produce un’ottima rendita politica (nonché affari per le cooperative private che la gestiscono), accentua una lenta ma capillare trasformazione dei rapporti sociali e personali e del rapporto società/Stato, in atto ormai da tempo, che possiamo cogliere ogni giorno in tutta una serie di comportamenti più o meno visibili. Infatti, se una società tende a chiudersi nelle molteplici forme dell’individualismo, mettendo al primo posto la paura dello straniero, dell’estraneo e il rifiuto dell’altro, anche solo del diverso, ciò significa rifiuto di ogni socialità effettiva, e, invece, affidamento della dimensione sociale alle autorità tutrici dell’ordine sociale e – segno grottesco dei tempi – del decoro (parola agitata oggi da molti sindaci italiani), che è la mera apparenza della sicurezza, con tutto quello che ciò comporta: paura di tutto ciò che eccede gli habitus dominanti, paura della complessità; rifiuto della solidarietà, dell’accoglienza, dell’ascolto della sofferenza – di ogni lineamento di una socialità solidale.
In tale contesto, è in atto anche una miserabile riscoperta di pseudonazionalismi e dei confini statuali in Europa, naturalmente per migranti e rifugiati non per le merci o i turisti, come dichiarò nel 2016 il ministro bavarese degli interni.
Posto che l’ordine sociale è fondato basilarmente sull’androcentrismo eterosessuale, come ordinamento dell’incontro dei corpi e dei desideri, tutto ciò significa irrigidimento di questa forma fondamentale di relazione, cui non ostacolano le aperture verso una sessualità più libera in termini di mercato, un’omosessualità inquadrata e subalterna, verso una relativa maggior importanza e libertà data alle donne nel quadro riaffermato di una società individualistica e competitiva. Credo, ad esempio, che il comportamento femminicida – costante storica che attraversa situazioni molto diverse – abbia a che fare anche con questa nuova situazione che induce una forte spinta autoritaria in ogni campo; e, per di più, nei modi di un maschilismo particolarmente fragile, a livello di massa, e quindi vendicativo, perché minato dalle stesse dinamiche della globalizzazione che tende a sovvertire i rapporti costituiti secondo logiche cangianti che sfuggono al locale.
Ne ho fatta esperienza diretta l’anno scorso in un’assemblea di quartiere, autoconvocata, il cui scopo era opporsi, mediante una raccolta di firme, a un centro d’accoglienza per rifugiati in quel quartiere. L’assemblea era gestita da due donne (legate all’attuale amministrazione comunale) che hanno fatto abilmente leva sulle paure più tradizionali e tristi, puntando sul pericolo che la presenza di rifugiati avrebbe rappresentato per donne, bambini e anziani. Il sindaco leghista ha poi ringraziato.
Vorrei provare a usare una parola che mi sembra adatta per nominare la condizione del rifugiato: queer, parola ripresa e rilanciata in chiave politica da Teresa de Lauretis negli anni Novanta, che rimanda al contesto semantico dell’anomalo, dell’eccedente, dello strano, del diverso. Ancora: dell’inquietante nella forte accezione dell’Unheimlich freudiano, del senza Heimat, senza focolare, casa, terra, status, come pienamente si addice ai refugees. Anche il contesto corporeo e anche erotico in cui si è sviluppato il significato di questa parola è opportuno a questo uso.
I richiedenti asilo non sono i ‘tradizionali’ emigranti/immigrati in cerca di lavoro, quindi inquadrabili in qualche modo nella categoria utile e rassicurante di “forza lavoro”. Il corpo forza lavoro è ben accetto, nella misura in ce n’è bisogno (la Germania, invecchiata, ne ha accolti parecchi finché poteva inquadrarli nella categoria di forza lavoro giovane e anche qualificata, poi ha espulso gente che lavorava lì da anni, quando il peso della valenza politico-simbolica del “rifugiato” – queer, appunto – ne offuscava l’utilità lavorativa).
Se non sono corpi di lavoro che corpi sono? Anche corpi di sfruttamento, certo, e anche di sfruttamento sessuale di donne e bambine, bambini, giovani uomini; ma, sono anche qualcosa di più, sono soprattutto segni viventi del rimosso delle conseguenze di un’azione distruttiva connessa alla nostra civiltà di ieri e di oggi: corpi di cui non si sa che fare, queer appunto.
Questo si vede bene nel concreto rapporto con i rifugiati nei territori di confine del nordest italiano. Da una parte, in base a una legislazione internazionale e nazionale, che peraltro ora si comincia a mettere da parte in maniera confusa, engono mantenuti sul territorio italiano, generando anche il notevole lucro privato dell’accoglienza. Dall’altra il sistema d’accoglienza (nelle varie forme di custodia, come gli hub di prima accoglienza, le cooperative, gli appartamenti della cosiddetta accoglienza diffusa, i CPR, centri permanenti per i rimpatri, ancora in preparazione) funziona molto male per un miscuglio di incompetenze, lucro e volontà politica (leggi anche E a Trieste rispunta ORS). Tutto ciò mira complessivamente a scoraggiare, rendendo la vita difficile se non impossibile a quei rifugiati che, per varie ragioni, fra cui preminente la mancanza di posti e di attività opportune, vagano per le città, spingendo le autorità locali (peraltro in molti casi ben contente di un’opportunità politica) a sforzi repressivi per renderli invisibili. I rifugiati sono un ossimoro sociale. Ultimamente sta nascendo un’altra fase in cui iniziano dinamiche di criminalizzazione e di respingimento.
È in atto una deriva, lenta ma che per ora appare inesorabile come il distacco dei ghiacci polari, verso nuove forme autoritarie di governance, diverse da quelle conosciute, soprattutto meno visibili, più sottili e individualizzanti, che attraversa lentamente i pori del sociale, le emozioni profonde, gli immaginari, la quotidianità; e che passa anche attraverso le tecnologie che individualizzano socializzando e deresponsabilizzando.
L’arrivo dei rifugiati – inarrestabile perché inarrestabile è la distruzione da noi promossa che li caccia da noi –, con la loro presenza disturbante, aliena, può essere oggi un’occasione per cominciare a mettere in atto, faticosamente, senza facili illusioni ideologiche, forme di socialità solidale, di socialità alternativa, di socialità autogestita, che vadano oltre? Per pensare in questi termini è necessario, però, non considerare il fenomeno dei rifugiati come un fenomeno settoriale, ma un fenomeno rivelativo della nostra condizione e fortemente connesso a tutti gli altri suoi aspetti.
Il colonialismo, dimensione intrinseca all’Occidente (come dice il nome stesso contrapposto a Oriente ), basato sulla convinzione che gli esseri umani sono in scala gerarchica fino a sfumare nel subumano – a cominciare dal rapporto uomini/donne, che credo sia all’origine di ogni gerarchia, poi via via bianchi/”colored”, sfruttatori/sfruttati, variamente intrecciati… – è stato la base della potenza della civiltà occidentale che ha, appunto, colonizzato il mondo e sta colonizzando ogni forma di vita. I rifugiati ce lo ricordano in ogni momento, sia a chi non evita il loro sguardo, sia a chi lo evita e a chi si trincera negli anfratti di una socialità morente.

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