La questione dei rifugiati è oggi fondamentale. Tocca ogni istanza di
liberazione: razziale, di classe ma anche, come vedremo, sessuale… Riguarda il fondo,
l’inconscio, della nostra civiltà europea, occidentale o come la si voglia
chiamare, nel cui nome e delle sue varie declinazioni (civiltà, diritti,
democrazia…) si sono compiute le imprese peggiori degli ultimi cinquecento
anni.
Perché è fondamentale? Perché l’arrivo in Europa di questo
particolare tipo di emigrazione/immigrazione mostra le fondamenta di violenza
senza limiti della “civiltà” detta “occidentale” (più concretamente,
capitalismo), basate sulla riduzione del vivere al possedere, riduzione propria
della cultura androcentrica, animata dall’impulso fondamentale di dominare
l’inafferrabilità della vita, di cui il possesso lato sensu è la modalità
storica principale. Perciò questo affiorare della gente del sottosuolo
dell’Europa, dell’Occidente, dentro i nostri confini, dentro le nostre città,
non può essere accettato. Perciò questa gente, figlia della
distruzione materiale e culturale dell’Africa e del Medioriente (a suo tempo,
invenzione franco-britannica, come gli Stati africani), che muore in mare o nel
Sahara, che muore di stenti e di violenza o a stento sopravvive nei lager
libici, che vaga nei nostri parchi o stazioni, che dorme per mesi e mesi
all’aperto o nei meandri delle città, deve restare, in qualche modo,
fuori scena.
Ma la sua girovagante presenza, che non si può (per ora, ma si sta
cominciando) trattare apertamente “alla nazista”, mentre produce un’ottima
rendita politica (nonché affari per le cooperative private che la gestiscono),
accentua una lenta ma capillare trasformazione dei rapporti sociali e personali
e del rapporto società/Stato, in atto ormai da tempo, che possiamo cogliere
ogni giorno in tutta una serie di comportamenti più o meno visibili. Infatti,
se una società tende a chiudersi nelle molteplici forme dell’individualismo,
mettendo al primo posto la paura dello straniero, dell’estraneo e il rifiuto
dell’altro, anche solo del diverso, ciò significa rifiuto di ogni socialità
effettiva, e, invece, affidamento della dimensione sociale alle autorità
tutrici dell’ordine sociale e – segno grottesco dei tempi – del decoro (parola
agitata oggi da molti sindaci italiani), che è la mera apparenza della
sicurezza, con tutto quello che ciò comporta: paura di tutto ciò che
eccede gli habitus dominanti, paura della complessità; rifiuto della
solidarietà, dell’accoglienza, dell’ascolto della sofferenza – di ogni
lineamento di una socialità solidale.
In tale contesto, è in atto anche una miserabile riscoperta di
pseudonazionalismi e dei confini statuali in Europa, naturalmente per migranti
e rifugiati non per le merci o i turisti, come dichiarò nel 2016 il ministro
bavarese degli interni.
Posto che l’ordine sociale è fondato basilarmente sull’androcentrismo
eterosessuale, come ordinamento dell’incontro dei corpi e dei desideri, tutto
ciò significa irrigidimento di questa forma fondamentale di relazione, cui non
ostacolano le aperture verso una sessualità più libera in termini di mercato,
un’omosessualità inquadrata e subalterna, verso una relativa maggior importanza
e libertà data alle donne nel quadro riaffermato di una società
individualistica e competitiva. Credo, ad esempio, che il comportamento
femminicida – costante storica che attraversa situazioni molto diverse
– abbia a che fare anche con questa nuova situazione che induce una forte
spinta autoritaria in ogni campo; e, per di più, nei modi di un maschilismo
particolarmente fragile, a livello di massa, e quindi vendicativo, perché
minato dalle stesse dinamiche della globalizzazione che tende a sovvertire i
rapporti costituiti secondo logiche cangianti che sfuggono al locale.
Ne ho fatta esperienza diretta l’anno scorso in un’assemblea di
quartiere, autoconvocata, il cui scopo era opporsi, mediante una raccolta
di firme, a un centro d’accoglienza per rifugiati in quel quartiere.
L’assemblea era gestita da due donne (legate all’attuale amministrazione
comunale) che hanno fatto abilmente leva sulle paure più tradizionali e tristi,
puntando sul pericolo che la presenza di rifugiati avrebbe rappresentato per
donne, bambini e anziani. Il sindaco leghista ha poi ringraziato.
Vorrei provare a usare una parola che mi sembra adatta per nominare la
condizione del rifugiato: queer, parola ripresa e rilanciata in chiave
politica da Teresa de Lauretis negli anni Novanta, che rimanda al
contesto semantico dell’anomalo, dell’eccedente, dello strano, del diverso.
Ancora: dell’inquietante nella forte accezione dell’Unheimlich freudiano,
del senza Heimat, senza focolare, casa, terra, status, come pienamente si
addice ai refugees. Anche il contesto corporeo e anche erotico in
cui si è sviluppato il significato di questa parola è opportuno a questo uso.
I richiedenti asilo non sono i ‘tradizionali’ emigranti/immigrati in cerca
di lavoro, quindi inquadrabili in qualche modo nella categoria utile e
rassicurante di “forza lavoro”. Il corpo forza lavoro è ben accetto,
nella misura in ce n’è bisogno (la Germania, invecchiata, ne ha accolti
parecchi finché poteva inquadrarli nella categoria di forza lavoro giovane e
anche qualificata, poi ha espulso gente che lavorava lì da anni, quando il peso
della valenza politico-simbolica del “rifugiato” – queer, appunto – ne
offuscava l’utilità lavorativa).
Se non sono corpi di lavoro che corpi sono? Anche corpi di sfruttamento,
certo, e anche di sfruttamento sessuale di donne e bambine,
bambini, giovani uomini; ma, sono anche qualcosa di più, sono
soprattutto segni viventi del rimosso delle conseguenze di un’azione
distruttiva connessa alla nostra civiltà di ieri e di oggi: corpi di cui non si
sa che fare, queer appunto.
Questo si vede bene nel concreto rapporto con i rifugiati nei territori di
confine del nordest italiano. Da una parte, in base a una legislazione
internazionale e nazionale, che peraltro ora si comincia a mettere da parte in
maniera confusa, engono mantenuti sul territorio italiano, generando anche il
notevole lucro privato dell’accoglienza. Dall’altra il sistema d’accoglienza
(nelle varie forme di custodia, come gli hub di prima accoglienza, le
cooperative, gli appartamenti della cosiddetta accoglienza diffusa, i CPR,
centri permanenti per i rimpatri, ancora in preparazione) funziona molto male
per un miscuglio di incompetenze, lucro e volontà politica (leggi anche E a Trieste rispunta ORS). Tutto ciò mira
complessivamente a scoraggiare, rendendo la vita difficile se non impossibile a
quei rifugiati che, per varie ragioni, fra cui preminente la mancanza di posti
e di attività opportune, vagano per le città, spingendo le autorità
locali (peraltro in molti casi ben contente di un’opportunità politica) a
sforzi repressivi per renderli invisibili. I rifugiati sono un ossimoro
sociale. Ultimamente sta nascendo un’altra fase in cui iniziano dinamiche di
criminalizzazione e di respingimento.
È in atto una deriva, lenta ma che per ora appare inesorabile
come il distacco dei ghiacci polari, verso nuove forme autoritarie di governance,
diverse da quelle conosciute, soprattutto meno visibili, più sottili e
individualizzanti, che attraversa lentamente i pori del sociale, le emozioni
profonde, gli immaginari, la quotidianità; e che passa anche attraverso le
tecnologie che individualizzano socializzando e deresponsabilizzando.
L’arrivo dei rifugiati – inarrestabile perché inarrestabile è la
distruzione da noi promossa che li caccia da noi –, con la loro presenza
disturbante, aliena, può essere oggi un’occasione per cominciare a mettere
in atto, faticosamente, senza facili illusioni ideologiche, forme di socialità
solidale, di socialità alternativa, di socialità autogestita, che vadano oltre? Per
pensare in questi termini è necessario, però, non considerare il fenomeno dei
rifugiati come un fenomeno settoriale, ma un fenomeno rivelativo della nostra
condizione e fortemente connesso a tutti gli altri suoi aspetti.
Il colonialismo, dimensione intrinseca all’Occidente (come dice il nome stesso
contrapposto a Oriente ), basato sulla convinzione che gli esseri umani sono in
scala gerarchica fino a sfumare nel subumano – a cominciare dal rapporto
uomini/donne, che credo sia all’origine di ogni gerarchia, poi via via
bianchi/”colored”, sfruttatori/sfruttati, variamente intrecciati… – è stato la
base della potenza della civiltà occidentale che ha, appunto, colonizzato il
mondo e sta colonizzando ogni forma di vita. I rifugiati ce lo ricordano in
ogni momento, sia a chi non evita il loro sguardo, sia a chi lo evita e a chi
si trincera negli anfratti di una socialità morente.
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