mercoledì 19 febbraio 2020

El Salvador senza pace



Secondo una recente indagine almeno duecento migranti e profughi salvadoregni sono stati uccisi, violentati o torturati dopo essere stati deportati in Salvador dal governo statunitense, che continua a ignorare gli enormi pericoli a cui vanno incontro.
Tra il 2013 e il 2018 Human rights watch ha documentato l’omicidio di 138 salvadoregni uccisi da bande criminali, polizia, soldati, squadroni della morte ed ex affiliati. La maggioranza delle vittime ha trovato la morte entro due anni dalla deportazione. Di solito gli assassini sono le stesse persone da cui i migranti erano scappati cercando rifugio negli Stati Uniti.
Il rapporto, intitolato “Deportati verso il pericolo: le politiche di deportazione degli Stati Uniti espongono i salvadoregni alla morte e agli abusi”, identifica altri 70 casi di persone picchiate, violentate e ricattate – spesso dalle bande criminali – o semplicemente scomparse dopo essere tornate in patria.

Totale impunità
El Salvador – il paese più densamente popolato dell’America Centrale, con una popolazione superiore ai sei milioni di abitanti – presenta uno dei tassi di omicidio e violenza sessuale più alti del mondo. Nell’ultimo decennio è stata denunciata la scomparsa di undicimila persone, una cifra superiore a quella registrata durante la guerra civile tra il 1979 e il 1992.
Le autorità sono sostanzialmente incapaci di proteggere la popolazione dalla violenza, commessa solitamente dalle bande di strada che contano circa sessantamila affiliati in tutto il paese. Tra i responsabili delle esecuzioni illegali, degli stupri, delle torture e dei rapimenti ci sono anche elementi delle forze di sicurezza, che agiscono con impunità quasi totale.
In un contesto di terrore e violazione delle leggi, il numero di salvadoregni che decidono di partire è cresciuto esponenzialmente. Secondo i dati delle Nazioni Unite nel corso di cinque anni le richieste d’asilo negli Stati Uniti sono aumentate quasi del 1.000 per cento, raggiungendo quota sessantamila nel 2017.
La preoccupante situazione della sicurezza in Salvador è ben documentata, ma gli Stati Uniti continuano a deportare i salvadoregni condannandoli agli abusi e spesso alla morte, sottolinea Human rights watch. Nel 2010, Javier, di 17 anni, è sfuggito al reclutamento delle bande e ha chiesto asilo negli Stati Uniti, dove si era già stabilita la madre. La sua richiesta è stata bocciata e Javier è stato deportato all’inizio del 2017, all’età di 23 anni. Quattro mesi dopo è stato ucciso da alcuni affiliati alla gang della Mara Salvatrucha-13. “Gli Stati Uniti sono sicuramente a conoscenza della situazione, perché i casi sono stati riportati pubblicamente e soprattutto perché i salvadoregni raccontano questa realtà in modo chiaro nelle loro richieste d’asilo. Ma le autorità statunitensi hanno deciso di ignorarli o di non credere ai loro resoconti”, sottolinea Elizabeth Kennedy, coautrice del rapporto.
Il diritto internazionale vieta agli Stati Uniti di riportare i migranti in un paese dove corrono seri rischi per la loro vita o la loro sicurezza. Tuttavia circa tre quarti degli 1,2 milioni di salvadoregni che vivono negli Stati Uniti non possiedono i documenti per ottenere un permesso di soggiorno temporaneo, e questo li espone alla possibilità di essere deportati. Tra il 2014 e il 2018 gli Stati Uniti hanno deportato 111mila salvadoregni, garantendo asilo solo nel 18,2 per cento dei casi, la percentuale più bassa nella regione.

Specificità dell’amministrazione Trump
Le deportazioni e la violenza nei confronti dei deportati non sono un fenomeno nuovo, ma il tasso di approvazione delle richieste è crollato da quando l’amministrazione Trump ha introdotto una serie di misure ostili nei confronti degli immigrati – tra cui Remain in Mexico, il cui nome ufficiale è Migration protection protocols (Protocolli per la protezione dalla migrazione) – e ha imposto forti limitazioni all’asilo basate sul genere e sui contatti con le bande criminali. “Questo attacco contro il diritto d’asilo è specifico dell’amministrazione Trump, che ha esposto un numero enorme di salvadoregni (e altri immigrati) al rischio di deportazione, impendendo in molti casi alle persone di presentare la loro richiesta per ottenere una protezione”, sottolinea Kennedy.
I ricercatori di Human rights watch hanno verificato centinaia di resoconti dei mezzi d’informazione e hanno condotto 150 interviste con i deportati, i parenti sopravvissuti, i funzionari del governo e i responsabili dell’immigrazione. Il reale numero delle aggressioni e degli omicidi è probabilmente molto più alto di quanto riportato, perché in Salvador la maggioranza dei crimini non si traduce in una denuncia. La violenza di stato viene coperta, e per i giornalisti entrare in alcuni quartieri è troppo pericoloso.
Alison Parker, direttrice del programma statunitense di Human rights watch e coautrice del rapporto, sottolinea che “il numero di salvadoregni vittime di omicidi, stupri e altre violenze dopo la deportazione è sconvolgente. Eppure il governo degli Stati Uniti ostacola le richieste d’asilo dei salvadoregni e ignora i risultati agghiaccianti della sua politica spietata”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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In Salvador la violenza sulle bambine non può più restare impunita - Valeria Guzmán

Negli ultimi anni El Salvador è stato un paese soddisfatto. E non perché tutto vada bene. Al contrario: soddisfatto perché, quando tutto va male, nella sconfitta resta poco da fare. Dopo la guerra civile ha vinto più volte il triste titolo di paese con più omicidi del continente.
È un paese di appena 6,5 milioni di abitanti il quale permette che, in media, ogni mese due donne muoiano per mano del loro partner e che ignora le statistiche che parlano di 12 denunce per delitti sessuali al giorno. Però, nelle ultime settimane, questo paese soddisfatto e sconfitto dalla violenza non ha accettato una cosa: non ha accettato che un tribunale stabilisse che toccare la vagina di una bambina di dieci anni, da sopra i vestiti, non fosse un crimine.
Per quanti di noi sono nati dopo gli accordi di pace del 1992, la protesta in piazza non è mai stata davvero una strada per mostrare la propria insoddisfazione di cittadini. Almeno non da un punto di vista generazionale. Siamo cresciuti con madri che facevano la lista dei morti e ricordavano il rumore delle pallottole negli anni ottanta, quando migliaia di salvadoregni sono scesi in piazza per protestare contro la repressione statale.

La paura sussurrata
Senza che i traumi della guerra fossero stati risolti, quanti di noi sono nati dopo la guerra e nei quartieri operai hanno imparato a tacere per altre cose. A insegnarci il silenzio, negli ultimi decenni, sono state le gang. Gli ordini sono scritti nei vicoli e nelle strade di un infinito numero di comunità che queste controllano: “Ver, oir y callar” (Vedere, ascoltare, tacere) è sempre stato il presupposto.
E in generale il compito è stato portato a termine. Quando le famiglie salvadoregne parlano delle gang, non le chiamano così. Si parla dei “muchachos” (i ragazzi). Quando qualcuno, all’interno di una comunità, si azzarda a raccontare l’ultima estorsione o l’ultima violenza fisica inflitta dai “ragazzi”, lo dice a bassa voce, sussurrando. La paura trasforma le proteste in mormorii e silenzi. Nel Salvador una marcia contro gli omicidi commessi dalle gang Mara Salvatrucha o Barrio 18 sarebbe impensabile. La gente ha imparato che dare voce al malcontento può costare la vita.
La settimana scorsa il silenzio generalizzato nei confronti della violenza ha cominciato a cedere. Perché il muro di silenzio relativo agli abusi sessuali è stato scalfito. Nei tribunali salvadoregni solo una denuncia su dieci per abusi sui minori porta a una condanna. Il 90 per cento delle denunce si conclude con l’impunità. Però lo scorso 4 novembre, centinaia di persone sono scese in piazza con una parola d’ordine: “Toccare una bambina è un crimine”.
Questa massa di persone arrabbiate ha cominciato a scendere in piazza a febbraio, dopo che Eduardo Jaime Escalante, un magistrato, era arrivato con la sua auto in un quartiere operaio e, secondo le accuse del procuratore, aveva toccato la vagina di una bambina di dieci anni che giocava con un suo coetaneo.
L’uomo era fuggito a piedi quando alcuni familiari della bambina lo avevano sorpreso, lasciando però la sua auto sul posto. Così sono riusciti a identificarlo. L’uomo è stato accusato di aggressione sessuale contro minore, un delitto passibile di una pena tra otto e 12 anni di carcere. Ma la commissione che si occupa del caso, composta da due magistrati, ha concluso la settimana scorsa che la condotta di cui è accusato il loro collega è, al massimo, un’infrazione punibile con una multa compresa tra dieci e trenta giorni di salario.
Il verdetto è caduto come acqua bollente su persone abituate a disinteressarsi dei problemi altrui. Scottandole. E il paese centroamericano, che normalmente accetta la violenza nelle sue espressioni più estreme, ha detto basta.
Una donna che possiede una flotta di 25 taxi ha invitato tutti i suoi autisti a scrivere “Toccare una bambina è un crimine” sui parabrezza di tutti i veicoli. Cartelli con la stessa frase sono circolati in città e il presidente della repubblica ha fatto sua questa causa pubblicando dei tweet sull’argomento. Il movimento femminista si è assicurato che il caso non fosse sfruttato dai politici per i loro interessi. In una società che per decenni ha taciuto comincia una mobilitazione in difesa delle bambine e delle donne.

Non dimenticare
Nel 1999, quando Katya Miranda, una bambina di nove anni, fu violentata e assassinata in una fattoria di famiglia, non ci fu una protesta che dicesse agli aggressori: siamo qui e vi controlliamo.
Il suo caso si trasformò in un simbolo dell’impunità con la quale in Salvador si palpeggiano, si violentano e si uccidono le bambine. Nel 2013, quando Ana Elizabeth Chicas, una giovane di 18 anni, fu assassinata dal suo ex partner, non ci fu nessuno che si mobilitò per difenderla, neppure nelle strade del suo polveroso villaggio nel dipartimento di Usulután, nell’est del paese. Nel 2016, quando Karen e Andrea, di 12 e 14 anni, sono scomparse a Cojutepeque, non c’è stata alcuna mobilitazione per ritrovarle. Al di fuori delle organizzazioni e dei movimenti femministi, la violenza contro le donne si è ridotta, nel migliore dei casi, a qualche hashtag sui social network.
Il triangolo settentrionale dell’America Centrale è una regione troppo abituata alla violenza. Lo strumento per eccellenza con cui misuriamo il fallimento, o il successo, delle politiche pubbliche che la combattono è stata la riduzione del numero dei morti ogni giorno. Quando si parla di violenza si pensa alle gang, agli scontri con la polizia, ai cimiteri clandestini. Pensiamo poco alle bambine e alle donne violentate, molestate e umiliate.
La commissione che si occupa del caso del magistrato Escalante, per esempio, secondo il verdetto non ritiene che prendere una bambina di dieci anni per le spalle e poi abbassare la mano fino ai suoi genitali sia di per sé un atto violento. Non ci sono state pallottole, urla, sangue o spari. Solo una bambina sconvolta. Oppure, poiché il fatto è avvenuto rapidamente e al di sopra dei vestiti, i magistrati hanno concluso che esso costituisse un “contatto impudico”. Ai sensi della legge, questo tipo di contatto avviene quando qualcuno approfitta della “distrazione” di una vittima che transita in un qualche luogo pubblico per toccarla. Sembra che il messaggio sia che sono le bambine a non doversi distrarre, a restare all’erta casomai apparisse un uomo in giacca e cravatta che tocchi la loro vagina.
Le proteste di questa settimana sono una piccola conquista per un paese tollerante nei confronti delle intimidazioni, delle aggressioni e delle violenza. Solo nel 2018 la polizia ha ricevuto 4.304 denunce di violenza sessuale, e tutti sono d’accordo sul fatto che una tale cifra sia un’approssimazione per difetto rispetto alla realtà. Anche se la recente manifestazione spalanca la porta a un movimento sociale che reclama giustizia per le donne, è una risposta che arriva tardi.
Nessuna marcia permetterà alla bambina di dieci anni di poter nuovamente uscire a giocare senza paura, nessuna protesta ridarà la vita a Katya Miranda, ad Ana Elizabeth né a Karen e Andrea. Però è stato confortante vedere che per un momento questa società, che puzza di marcio per i tanti cadaveri che nasconde, abbia dato l’impressione di avere ancora senso della giustizia.

(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano salvadoregno El Faro.

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