Sánchez volta le spalle al popolo saharawi - Marco Santopadre
La
svolta di Sánchez sulla vicenda saharawi i cittadini spagnoli l’hanno
incredibilmente appresa, venerdì scorso, grazie ai notiziari dei media
marocchini; «senza alcun dibattito parlamentare né previa comunicazione ai
media del paese» ha scritto il quotidiano progressista El Diario.
Finora tutti i governi spagnoli avevano difeso (almeno formalmente) una
soluzione basata su quanto stabilito dalle risoluzioni dell’ONU e sul rispetto
del diritto all’autodeterminazione della popolazione saharawi. Ma in una
lettera inviata a Mohammed VI, il leader socialista ha comunicato di
condividere il piano di Rabat che chiede un riconoscimento internazionale della
sovranità marocchina sull’ex Sahara spagnolo in cambio della concessione di un
certo grado di autonomia ai territori occupati dal 1975.
Nella missiva, Sánchez giudica «l’iniziativa di autonomia marocchina,
presentata nel 2007, come la base più seria, realistica e credibile per
risolvere la controversia».
Madrid si allinea così alla decisione di Donald Trump, che nel dicembre 2020 diede l’ok
all’annessione marocchina dell’ex 53esima provincia spagnola in cambio della
normalizzazione delle relazioni tra Rabat e Tel Aviv (che nel frattempo hanno fatto molti
progressi, anche sul fronte militare).
La reazione del Fronte Polisario
Scontata e rabbiosa la reazione del “Frente Popular de Liberación de Saguía el
Hamra y Río de Oro” – l’organizzazione che storicamente rappresenta la
popolazione saharawi e porta avanti la resistenza – e del governo della
Repubblica Araba Saharawi Democratica, il cui territorio è occupato, per l’80%,
dal Marocco. In un comunicato l’esecutivo della RASD condanna la decisione di
Madrid definendola in «totale contraddizione con la legalità internazionale e
le risoluzioni dell’Onu». Da parte sua il Fronte Polisario ha deplorato la
mossa di Sánchez definendola un «ulteriore ostacolo» agli sforzi diretti a una
soluzione negoziale del conflitto e riaffermando «la propria volontà di
continuare la lotta armata per la liberazione». Del resto, dopo circa 30 anni
di congelamento delle ostilità – in attesa che l’Onu organizzasse il previsto
referendum per l’autodeterminazione contemplato dalle sue risoluzioni, che però
non si è mai visto – nel novembre del 2020 i combattimenti sono ripresi – per
quanto a bassa intensità – dopo la violazione da parte del Marocco del cessate
il fuoco siglato nel 1991
.
Spagna. Contrari destra e sinistra
Tornando alle reazioni in casa, a destra il blitz di Sánchez non è piaciuto. Il
leader in pectore del PP, il galiziano Alberto Núñez Feijóo, ha bollato la
presa di posizione del premier come «drastica e sconsiderata». Temendo
concessioni alle rivendicazioni marocchine sulle enclavi nordafricane di Ceuta
e Melilla se non addirittura sulle Canarie, la stampa conservatrice, unanime,
parla di «cedimento al Marocco». L’ex premier popolare José Maria Aznar ha
invece definito la svolta della Moncloa sul Sahara Occidentale un «errore
storico» che il paese «pagherà caro».
Sul
fronte opposto, la mossa del PSOE ha prodotto l’ennesimo strappo con gli
alleati di governo di Podemos, che hanno informato di non condividerla affatto,
così come le formazioni nazionaliste e di sinistra basche, catalane e
galiziane. Anche la Ministra del Lavoro e vicepremier Yolanda Díaz e il
ministro Alberto Garzòn (di Izquierda Unida) si sono smarcati.
Per la leader dei morados, Ione Belarra, la Spagna deve
rispettare il diritto internazionale e il conflitto nel Sahara richiede «una
soluzione politica equa, duratura e accettabile per tutte le parti in
conformità con le risoluzioni dell’ONU, a partire dall’autodeterminazione del
popolo saharawi». Per quanto in disaccordo, però, i viola non sono certo
intenzionati a mettere in discussione l’alleanza di governo con i socialisti.
L’avallo di Sánchez alle richieste marocchine mira al varo di relazioni
preferenziali – sul piano geopolitico, commerciale e militare – con il paese
nordafricano, dopo anni di relazioni burrascose.
Madrid in cerca della normalizzazione
Agli inizi degli anni Duemila, Madrid e Rabat si sono affrontati militarmente
per il controllo dell’isolotto di Perejil, nello Stretto di Gibilterra. Nel
2021, poi, la crisi è di nuovo esplosa dopo l’accoglienza riservata da Sánchez
a Brahim Ghali, il leader del Fronte Polisario a lungo ricoverato sotto falso
nome in un ospedale della Rioja a causa di alcune complicanze dovute al Covid
19. La vendetta marocchina è giunta il 18 maggio, quando 8000 migranti
riuscirono a raggiungere Ceuta grazie alla “distrazione” delle guardie di
frontiera di Rabat. Madrid accusò il Marocco di utilizzare i profughi come
strumento di ricatto e Rabat imputò a Sánchez una connivenza con gli avversari
della sua integrità territoriale.
Ora però Madrid vuole voltare pagina e cerca una base legale sulla quale basare
il soddisfacimento dei suoi interessi nell’area, a partire dallo sfruttamento
delle risorse ittiche dei pescosi mari al largo delle coste del Sahara
Occidentale o dei giacimenti di fosfati. «Cominciamo una nuova tappa basata sul
rispetto degli accordi, l’assenza di azioni unilaterali, la trasparenza e la
comunicazione permanente» recita un comunicato diffuso dalla Moncloa, che mette
l’accento sulla necessità di fare dei progressi nella comune gestione dei
flussi migratori nel Mediterraneo e nell’Atlantico. Secondo indiscrezioni, il
ministro degli Esteri José Manuel Albares dovrebbe presto recarsi a Rabat per
preparare la visita del premier spagnolo, che intanto il 23 marzo si è recato a
Ceuta e Melilla.
Alle prese con una fronda nel suo stesso partito, Sánchez può comunque contare
sul sostegno pubblico espresso dall’ex premier Zapatero e dell’ex ministro
degli Esteri (anch’egli socialista) Moratinos, che durante il loro mandato
provarono a convincere l’esecutivo – ma dovettero desistere – a sostenere il
piano marocchino di annessione.
L’Algeria disapprova
Ora si attendono però le reazioni dell’inviato speciale dell’Onu per il Sahara,
Staffan de Mistura (nominato da poco dopo due anni durante i quali la carica
era rimasta vacante), e del governo algerino, da sempre principale sponsor
della lotta dei saharawi per l’indipendenza, utilizzata spesso come arma contro
i nemici di Rabat. Il governo di Algeri, al quale Madrid ha chiesto un aumento
delle forniture di gas, ha richiamato “per consultazioni” il proprio
ambasciatore a Madrid, Said Moussi, dicendosi stupito per il cambio di
posizione della Spagna. Contemporaneamente, l’ambasciatrice marocchina in Spagna,
Karima Benyaich, è tornata a Madrid dopo il suo ritorno in patria nel maggio
del 2021.
Nei
mesi scorsi il governo algerino ha già interrotto le relazioni con il Marocco
bloccando il flusso del gas che prima arrivava in Spagna e Portogallo
transitando sul territorio di Rabat attraverso il condotto Maghreb-Europa. Ora
il gas algerino fluisce verso Madrid attraverso un altro condotto – il MedGaz –
che bypassa il territorio marocchino ma che però ha una portata limitata, a cui
Algeri sopperisce inviandolo in Spagna e in Portogallo attraverso delle navi
cisterna.
Secondo alcuni media iberici, ora l’Algeria potrebbe provare a far pressione
sul governo spagnolo, per convincerlo a tornare indietro sulla decisione di
sostenere l’annessione marocchina del Sahara Occidentale, aumentando i prezzi
del gas venduto a Madrid fino al 2024. L’Algeria fornisce il 43% del gas
importato dalla Spagna, seguita a distanza dagli Stati Uniti (14%) e dalla
Nigeria (11%).
Il governo algerino avrebbe recentemente rifiutato le richieste statunitensi di
riapertura del gasdotto Maghreb-Europa (GME), ed anzi avrebbe chiesto al
governo spagnolo di non rivendere al Marocco una parte del combustibile che
Madrid importa dall’Algeria.
Il Marocco nel frattempo, avrebbe raggiunto un accordo con la società
petrolifera Sound Energy per collegare i suoi giacimenti di gas di Tendrara al
GME.
Dal canto suo l’Algeria starebbe lavorando ad un progetto volto a realizzare un
lungo gasdotto che la collegherebbe alla Nigeria attraverso il Niger, e che
potrebbe far arrivare fino all’Europa circa 30 miliardi di metri cubi di gas
l’anno. Le autorità algerine avrebbero già preso accordi in questo senso con il
governo del Niger.
LINK E
APPROFONDIMENTI
https://pagineesteri.it/2021/12/29/africa/il-sahara-occidentale-tra-occupazione-e-greenwashing/
La pessima salute di ferro del
governo Sánchez - Maurizio Matteuzzi
Qualcuno tracciando, nel gennaio scorso, un bilancio
di metà mandato della coalizione fra i socialisti del PSOE e la “nuova
sinistra” di Unidas Podemos, scrisse della “pessima salute di ferro del governo
progressista spagnolo”. Un ossimoro azzeccato.
Ma in pochi mesi lo
scenario anche in Spagna è drammaticamente cambiato e l’attacco in febbraio
della Russia di Putin all’Ucraina con la relativa risposta NATO-UE – e anche
molto altro – ha mandato giudizi e previsioni a carte quarantotto. E se oggi lo
stato di salute del governo guidato da Pedro Sánchez resta pessimo, non appare
più nemmeno così di ferro. Molti in Spagna considerano questo il passaggio più
critico da quando nel gennaio 2020 il governo ottenne l’investitura delle
Cortes. C’è anche chi, non solo in una destra colpita anch’essa dalla crisi,
vede non più così sicuro l’approdo della legislatura alla sua naturale scadenza
elettorale nel 2023.
Fino a fine 2021, nell’imperversare della pandemia,
il governo di coalizione fra due soci che non si amano ha in buona sostanza
tenuto fede agli impegni presi e implementato la “agenda progressista”
faticosamente pattuita. Livelli record di spesa in sede di bilancio, misure
sociali, riforme delle pensioni e del lavoro, leggi a forte impatto simbolico e
politico quali eutanasia, riders, reddito minimo vitale, affitti, trans e LGBT,
violenze di genere e femminicidio, memoria democratica, clima e transizione
energetica verde, campagna di vaccinazione che ha toccato l’80% della
popolazione, sblocco dell’impasse catalana con tanto di indulto per i leader
indipendentisti…
La ripresa economica, dopo il disastro provocato nel
2020 dal covid, non ha però assecondato, finora, le speranze di Sánchez.
Nel ’21 l’occupazione ha superato per la prima volta i livelli del 2007, ma la
crescita del 7.2% annunciata dal governo per quell’anno è andata via via
riducendosi: prima al 6.5% per poi scendere al 5%. Il maggior tasso di crescita
dell’ultimo ventennio ma pur sempre troppo basso. Soprattutto considerando che
nel dicembre scorso il tasso d’inflazione era già schizzato oltre il 6% per poi
lambire, con gli effetti collaterali della guerra in Ucraina – bollette di luce
e gas, prezzo di gasolio e benzina, annunciato aumento delle spese militari dei
paesi NATO, etc. etc. – la soglia insostenibile del 10% a fine marzo.
Pedro Sánchez e il suo governo, sotto assedio di una
rabbiosa destra storica – il Partido Popular – che non si rassegna a non essere
più al potere e di una nuova destra cavernicola – i fascio-franchisti di VOX –
che è ormai il terzo partito spagnolo, non possono fare a meno di una economia
che corra veloce, pena il rischio di regalare le bandiere della protesta alla
piazza e ai gilet gialli di cui si vedono già i sintomi nelle massicce
manifestazioni e scioperi di trasportatori, agricoltori, pescatori, autonomi,
etc.; nonché il rischio che, come accaduto in altri paesi (la Francia, l’Italia),
i ceti popolari delusi dalla sinistra riversino i loro voti sulla destra.
Sánchez lo sa bene. Per questo a fine di marzo ha
annunciato un “Plan de Choque de Respuesta a la Guerra”, un “piano d’urto”
anticrisi da 16 miliardi di euro che prevede uno “escudo social” con tagli
fiscali e aumento del reddito minimo vitale.
Se basterà e funzionerà è da vedere. Decisivo sarà
il fattore tempo. Perché il 2023, anno di elezioni regionali e politiche, è
vicino mentre il rimescolamento fra e nelle forze politiche è al massimo.
Il PSOE, dopo la svolta centrista nel congresso di
ottobre, è forse tentato di rompere con Podemos (almeno questo è il timore di
Podemos che non si fida di Sánchez) per giocare la carta della grande
coalizione con il PP che ha appena cambiato la leadership.
Il Partido Popular, che si è liberato del
fallimentare Pablo Casado e ha appena eletto col 98% dei voti il suo
nuovo leader, Alberto Núñez Feijóo, presidente della Galizia, “moderato e
centrista”, è chiamato a decidere se continuare e formalizzare l’alleanza
con l’ultra-destra di VOX come già accade in molte città e regioni (la linea
della presidente della Comunidad di Madrid, la sfegatata trumpista Isabel Díaz
Ayuso) o rilanciare una linea di centro-destra e/o avventurarsi in una qualche
forma di appeasement con il PSOE .
Podemos che perde peso elettorale e ingoia rospi
(l’ultimo la clamorosa giravolta con cui Sánchez riconosce la sovranità del
Marocco sul Sahara Occidentale, ex colonia spagnola, a danno del Fronte
Polisario) ma non rompe perché “siamo l’unica garanzia che il governo faccia
politiche progressiste”. E aspetta con crescente nervosismo che la comunista
Yolanda Díaz, popolarissima ministra del lavoro, avvii il suo progetto di
“Frente Amplio” nell’arduo tentativo di riunire gruppi e gruppuscoli della
nuova sinistra che si sono andati frantumando.
Poi c’è VOX, che incalza il PP di Núñez Fejóo
intimandogli di “decidere con chi vuole negoziare”, se con Pedro Sánchez e il
suo governo chavista in salsa iberica o con i patrioti anticomunisti di VOX.
Saranno due anni di fuoco.
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