Quando si è in tempi di emergenza, prima quella sanitaria ora quella bellica, i/le lavorator* non se la passano bene. Lo sanno i bene i/le lavorator* ucraini. Ma lo sanno bene anche i/le lavorator*, precari e non, in Italia.
Negli ultimi mesi, il tasso di inflazione ha raggiunto un valore medio su
base annua in Europa del 7,5%. Secondo i dati Eurostat, l’incremento medio dei
salari è stato del 3%. Ciò significa che il potere d’acquisto si è ridotto di
4,5 punti.
Tali valori, tuttavia, variano da paese a paese. Vediamo come.
L’anno scorso (2021) in Francia il salario minimo è aumentato tre volte
(complessivamente del 5,9%), e i sindacati si sono posti l’obiettivo di
arrivare a 2 mila euro al mese. In Spagna il salario minimo ha raggiunto i
mille euro e le mensilità sono 14. In Portogallo, il sindacato ha chiesto un
aumento da 705 euro al mese a 800. In Germania per gli 85 mila lavoratori delle
acciaierie, il sindacato IG Metall sta cercando di ottenere un aumento
dell’8,2%, e intanto i chimici-farmaceutici hanno ottenuto una ‘una tantum’ da
1400 euro. In Danimarca il sindacato Fnv sta cercando di fare aumentare il
salario minimo da 10 a 14 euro all’ora. In Lussemburgo e a Cipro, i salari sono
agganciati all’inflazione.
Secondo Luca Visentini, segretario generale
della Confederazione Europea dei Sindacati (CES), “gli aumenti salariali
maggiori sono in Germania, Austria e Francia”. “Ma”, aggiunge, “sono in corso
grandi campagne anche in Belgio, Spagna e Portogallo”.
In Italia, invece, non si batte chiodo. I salari non solo non aumentano ma
rimangono fermi a livello nominale. Ciò si traduce in un forte calo del potere
d’acquisto. Poche settimane fa, il ministro del lavoro Orlando – bisogna
riconoscerlo – ha preso atto che il calo dei salari reali non è un fattore
positivo per una congiuntura economica già stressata dalle varie forme di
emergenza in vigore. E aveva proposto di legare gli incentivi e gli aiuti
monetari alle imprese nei settori più in difficoltà (i cd. ristori) ad una
corrispondente ripresa salariale. Di fatto, parte dei ristori doveva essere
devoluti ai lavoratori. Un gioco a somma positiva per le imprese, che potevano
beneficiare di parte dei sussidi e di un possibile aumento di ricavi se il
potere di spesa del lavoro – e quindi la domanda –aumentava. Eppure, netto è
stato il diniego di Confindustria, talmente netto che oggi tale proposta è
finita nel dimenticatoio, come si è visto a proposito dell’ultimo decreto del
governo Draghi a sostegno dell’economia.
Come abbiamo visto, in altri paesi europei la situazione è differente e il
sindacato, seppur in modo flebile, è in grado di far sentire la propria voce.
La ragione ce la spiega la stessa Ces, per bocca del suo segretario: “In tutti i Paesi
dove c’è un salario minimo legale si sta agendo su due fronti, proteggendo le
categorie più povere con aumenti decisi per legge e nello stesso tempo facendo
crescere la scala salariale al momento del rinnovo dei contratti”.
Detto in altre parole: è grazie all’esistenza di un salario minimo, che
fissa un plafond verso il basso sotto il quale non si può andare, che la
contrattazione collettiva è in grado di ottenere aumenti stipendiali.
In Italia non c’è un salario minimo. Cisl e Uil sono ferocemente contrarie
e la posizione della Cgil, pur aprendo delle porte, non è univoca. A parte i 5S
e Sinistra Italiana, i partiti della maggioranza fanno finta di non vedere. Ma
la capacità contrattuale dei 5S e di SI (che è all’opposizione) è risibile di
fronte all’autoritarismo di Draghi.
La contrarietà all’introduzione di un salario minimo legale è argomentata
con la paura che tale misura potrebbe mettere a repentaglio la contrattazione
collettiva. Ma l’Istat ci ricorda che più della metà
dei/lle lavorator* in Italia (54,5%, pari a 6,8 milioni di persone) è in attesa
del rinnovo contrattuale, soprattutto nel settore terziario.
Questa settimana è stato rinnovato il contratto per il trasporto pubblico
locale, che era scaduto 4 anni e mezzo fa (54 mesi!). 90 euro lordi di aumento
medio mensile e 500 euro una tantum per la vacanza contrattuale. Se
l’aumento di 90 euro fosse stato applicato alla scadenza del contratto,
l’incremento del monte salari medio tabellare sarebbe stato per ogni singolo
lavoratore pari a 4860 euro, quasi dieci volte di più dell’una tantum di
compensazione per la “vacanza contrattuale”: una vergogna.
Si tratta di una situazione paradigmatica. L’Italia è l’unico paese europeo
in cui si sciopera (non sempre con successo) non sul merito del rinnovo ma per
chiedere che cominci la trattativa. È una prassi talmente consolidata che è
diventata l’asse portante della strategia padronale. Le associazioni datoriali
(Confindustria in testa) procrastinano nel tempo l’avvio delle trattive per un
rinnovo contrattuale, sapendo che ciò consente loro un cospicuo risparmio e una
riduzione del costo del lavoro, poiché la compensazione per la vacanza
contrattuale sarà sempre inferiore a ciò che avrebbero dovuto pagare se il
nuovo contratto fosse diventato operativo il giorno dopo la sua scadenza, come il
rinnovo del trasporto pubblico locale ben evidenzia.
Si spiega così la crisi salariale italiana, la più profonda del continente
europeo. La causa sta certo nella protervia padronale ma anche nell’incapacità
sindacale di capire che solo l’introduzione di un salario minimo potrà
invertire questa drammatica tendenza.
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