La sociologia, secondo Tim Ingold, dovrebbe cominciare dallo studio degli alberi: dal modo in cui, in un bosco, essi vivono le loro forme di convivialità, si relazionano fra loro, quelli grandi che curano i più piccoli, le storie che si tramandano a vicenda, tutti che crescono insieme secondo ordini misteriosi, in barba agli incendi ricorrenti, alle deforestazioni brutali, all’uso massiccio e posticcio che ne fanno gli esseri umani sempre colmi di stupida hybris. Entrare in un bosco, continua l’antropologo scozzese, è come varcare la soglia di una biblioteca o di una cattedrale: i tronchi sfilano via come gli scaffali dei libri o le colonne delle chiese. “Ogni tronco – leggiamo in Corrispondenze, nuovo libro di Ingold appena pubblicato da Cortina (cura, traduzione e introduzione di Nicola Perullo, pp. 246, € 22) – ogni codex (come gli antichi chiamavano sia i tronchi sia i libri) custodisce la sua storia; non però fra le sue fodere, come per i libri, ma in alto, fra le volte a ventaglio del tetto della cattedrale o i ramificati decori delle sue vetrate. Per leggere questa storia dovete tendere il collo”. Del resto, gli uomini vanno e vengono, gli alberi restano: dopo gli incendi risorgono i boschi; meno probabile che rinasca invece, in seguito a questo grande suicidio di massa che stiamo vivendo, la società umana.
Ecco un
tipico esempio di ciò che fa innervosire gli antropologi più tradizionali, e in
generale tutti coloro che continuano pacificamente a ritenere che le scienze
sociali debbano occuparsi unicamente dell’uomo e della sua storia, e non, come
da parecchio tempo si mostra e dimostra (Descola, Latour, Viveiros, Kohn, Despret,
Morizot…), dell’intero mondo comune, fatto di umani e non umani, viventi e
minerali, eventi atmosferici, materiali, tecnologie, sogni e fantasmi. Dal
punto di vista dei saperi più accademici, l’idea che il sociologo o
l’antropologo possa – anzi, debba – occuparsi delle comunità di alberi, dei
boschi, appare una provocazione, così come viene considerato a dir poco assurdo
far parlare le pietre, rappresentare la saliva di un cavallo o ascoltare i
suoni della neve, come Ingold fa in questo libro. Una tal specie di afflato
poetico, di visionarietà, dà luogo peraltro a uno stile, se pure rigoroso,
tutt’altro che ascetico e oggettivante, una maniera di scrivere che
rimanderebbe più alla letteratura che non la scienza – separazione, diciamolo
ancora, durissima a morire.
Da cui le
forti resistenze che, non solo nel nostro Paese, si ergono a difesa dell’idea
(che uno come Einstein, per esempio, ripeteva in continuazione) secondo cui
tutte le scienze, esatte o umanistiche, in fondo non si occupano che dell’uomo:
posizione antropocentrica i cui scricchiolii epistemologici sono già la spia
della sua urgente rivedibilità.
Concezione
che il lavoro di ricerca di uno come Ingold, studioso serissimo delle culture
artiche, considera non pertinente: non ci sono nature (sì, al plurale) se non
umanizzate, impregnate del lavoro della specie umana; così come non ci sono
culture se non in relazione agli altri esseri e cose naturali – o, sarebbe
meglio dire, non umani. Le reti di parentela, per dirne una, non sono altro che
esiti delle fittissime relazioni fra animali e piante, fatte di prede e
predatori, cacce e fughe, alleanze e conflitti, dove ogni tanto, per caso o per
necessità, emergono figure che, pavoneggiandosi, amano sentirsi troppo umane. E
che lo sono fino a un certo punto, a determinate condizioni: se esistono leggi
di natura, è perché il diritto è invenzione umana, un’umanità che, però, esiste
solo in funzione di costrizioni che sono potenzialità, limitazioni che si
trasformano in opportunità.
Ed ecco,
tornando ai boschi, un bell’esempio di ciò che questo studioso geniale e
indisciplinato, scanzonato e insieme profondissimo, definisce, appunto, corrispondenze fra
uomo e uomo, certo, ma soprattutto fra esseri viventi d’ogni tipo, o se si
vuole d’ogni natura, umana e non umana, permanente o aleatoria, palpabile o
meno. Corrispondere, come bene chiarisce Perullo nel suo saggio introduttivo, è
un modo di vivere che, immergendosi nel tutto (Thoreau, Naess), ne trae spunti
per intessere relazioni ulteriori e reinventare forme d’esistenza. Così, le
strade che attraversano i boschi sono sempre, secondo Ingold, percorsi che
puntano verso il nulla, le quali non hanno antropocentrici obiettivi, poiché
sono sentieri perennemente interrotti (e il riferimento agli Holzwege non
è affatto casuale) da altri innumerevoli esseri che, attraversandoli
perpendicolarmente, li determinano e insieme li cancellano, in un gioco
continuo, dai ritmi variabili, di echi reciproci, di spostamenti metaforici.
Dove ogni
metafora, ogni costrutto retorico, va preso sul serio, ossia, fondamentalmente,
alla lettera – in modo da filare la metafora, direbbero i semiologi. Così
queste corrispondenze che costituiscono il libro in questione, ricordano, da un
lato, quelle celeberrime di Baudelaire (autore chiave per Ingold), mentre,
dall’altro, non sono altro che forme sensibili di comunicazione postale, come
quando, scrivendo a mano, risulta difficile, e peraltro inutile, distinguere
l’apporto del gesto fisico che impregna la carta di inchiostro da quello degli
affetti che si prova a condividere, a corrispondere appunto. La corrispondenza,
in questo senso, non è una forma di cultura che mira ad adeguare cose e
intellezioni ma un esercizio mentale che prova a prendere in carico relazioni
variegate fatte di generosità, apertura, confronto e, comunque, visione
critica. Per questa ragione il sapere costruito da Ingold non può in alcun modo
assumere le forme della conoscenza accademica (“tutta la conoscenza è merda,
prodotto di scarto di una reazione metabolica”), adagiandosi piuttosto
sulla philìa originaria della filosofia, su quel dilettantismo
amatoriale che, inviso ai più, Ingold rivendica come basilare condizione di
possibilità di ogni sguardo antropologico che è insieme poesia, arte, design,
riflessione intellettuale.
Da questo punto di vista, chiarisce l’autore, dilettantismo non è rifiutare l’expertise in sé (grossa insidia) ma le sue conseguenze politiche, l’autoritarismo implicito che ogni specialismo finisce per comportare. Così, corrispondere non è interagire: nessuna interattività (grande mito d’oggi) nella proposta di Ingold; semmai, nota Perullo, corrispondere è provare a essere il più possibile saggi, saggi senza idee (Jullien) o immagini fisse, e proprio per questo tendenzialmente giusti, pregni di compiti da portare avanti, ma senza ostinazione, con una responsabilità sempre rivedibile, cangiante in funzione di nuove, future corrispondenze che non possono non oltrepassare ogni barriera specie-specifica (Haraway, Barad).
Leggere questo libro straordinario, corrispondere con esso, è ovviamente il miglior modo per entrare nel merito di tali questioni, per capirle e, prima ancora, accettarle, condividerle, metterle in pratica e in gioco. Laddove Making, altro libro eccellente uscito un paio d’anni fa sempre da Cortina, costituiva il volet teorico del pensiero di Ingold, questo Corrispondenze ne fornisce piuttosto il volet, se non pratico, sicuramente più vicino alla vita quotidiana, al vissuto, all’esistenza in atto.
Partendo da sollecitazioni di artisti, curatori di musei, attivisti, cineasti, scrittori o alpinisti, Ingold scrive lettere immaginarie al lettore raccontando di sue esperienze esemplari, come passeggiare sulla spiaggia di Aberdeen durante una terribile mareggiata, recarsi in aereo da Chicago a Londra, girovagare da turista o, inutile dirlo, immergersi nei boschi. In queste occasioni accade qualcosa di imprevisto, qualcosa che fa scattare una riflessione inedita, un approfondimento laterale della speculazione antropologico-filosofica, una piccola illuminazione che è anche, sempre, una messa in ombra. “Che cosa succede – si domanda l’autore – quando il preciso e cristallino reticolo delle nostre concezioni si scontra con l’esuberanza e la dismisura di un mondo fatto di vita e di morte, di crescita e decomposizione? Questi due aspetti possono rimanere sospesi come in equilibrio? E questo equilibrio è in grado di stabilire un senso di tranquillità in mezzo al tumulto degli elementi?”. A essere tirati in ballo, in queste missive, sono proprio gli elementi cosiddetti aristotelici, l’aria, l’acqua, la terra, il fuoco e i loro infiniti possibili rapporti, le loro innumerevoli combinazioni, incontri e scontri.
A un certo punto Ingold racconta la parabola di Apelle, pittore alla corte di Alessandro Magno, che non riesce a dipingere la saliva schiumosa di un cavallo e, infuriato, lancia verso il quadro la spugna con cui puliva i pennelli, ottenendo proprio l’effetto desiderato. È proprio quando si cede allo sconforto, commenterà secoli dopo Sesto Empirico per illustrare il senso del suo scetticismo, quando cioè si getta la spugna, che, spossati, si trovano nuove forze per ricominciare, facendo corrispondere felicemente le nostre concettualizzazioni con la furia degli elementi. Il caso e la necessità vanno a braccetto. Tutte le narrazioni di Ingold hanno quest’aura di parabola e conservano questa struttura, questa dinamica elementare (meglio: elementale).
Ne basti, qui, una sola, quella della pietra che, dalle parti di Selinunte, parla, anzi scrive in prima persona una sua missiva al lettore, raccontando la propria vita, una vita che attraversa i secoli, i millenni, assistendo a una Storia che distrattamente la include. La storia degli uomini è anche sempre storia delle cose, dei materiali, degli oggetti: basta variare il punto di vista e allungare i tempi. Così la pietra racconta di come la roccia originaria si sia formata dai detriti di piccoli foraminiferi, alghe e coralli che si depositano sul fondale marino, poi prosciugatosi. Un minerale, dunque, come resurrezione di vecchie ossa di numerosi esseri viventi. Dalla roccia ripensata come cava, con inaudita violenza gli uomini estraggono una massa di forma cilindrica, la nostra pietra parlante che, insieme a tante altre, viene impilata a formare delle colonne.
La sua
pesantezza, il richiamo verso la terra, è garanzia di questo suo inedito
sopravvivere per aria, in un tempio greco di eccezionale prestanza che si
propone di esprimere, grazie all’opera dell’uomo, la grandezza degli dèi. La
pietra è ora parte di un tutto, di una grande opera d’arte. La quale però, a un
certo punto, viene giù, nel lavoro congiunto di un terremoto e delle guerre
puniche. La pietra è di nuovo a terra, segno metonimico di quand’era colonna,
ma adesso è puro blocco roccioso, levigato per venti secoli dall’aria e
dall’acqua, su cui i turisti amano accomodarsi sospirando nostalgicamente per
il bel tempo andato. Finché qualcuno, con del calcestruzzo (roccia
artificiale), non prova a rimettere su le colonne, a progettare ricostruzioni
sedicenti filologiche, a far rivivere alla pietra le sue inaudite vertigini. E
la vicenda continuerà, irrimediabilmente, una vicenda dove la pietra ci sarà
ancora, chissà in quale forma, mentre degli uomini che credevano d’averla
inventata non resterà alcun ricordo.
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