La riforma del fisco avviata a
dicembre 2021 con le modifiche delle aliquote Irpef e del sistema di detrazioni
sui figli a carico vede in questi giorni ulteriori sviluppi tramite una serie
di emendamenti sulla legge delega. Di particolare rilievo, tra le varie
questioni trattate, è il tema della tassazione delle cosiddette rendite
finanziarie e immobiliari, attorno al quale si è scatenato un tipico esempio di
dibattito fuorviante in cui si scontrano posizioni che eludono completamente il
macroscopico problema di giustizia fiscale che si cela nella struttura più
profonda del fisco italiano.
L’obiettivo dell’intervento del
governo in un’ottica di medio periodo sarebbe quello di giungere ad una
“coerente tassazione duale”,
aggiustando le aliquote attuali in vista di un’unica aliquota che colpisca le
cosiddette rendite finanziarie e immobiliari allo stesso modo. A ciò si opporrebbero
Lega e Forza Italia, terrorizzate dal rischio di un aumento del carico fiscale
sui redditi immobiliari.
Vale la pena ripartire dalle origini
della questione. Cosa si cela, anzitutto, dietro l’espressione
“tassazione duale”? La tassazione duale, spesso
denominata dual income tax (DIT), è un
sistema alternativo a quello della comprehensive income tax.
Quest’ultimo prevede che tutti i redditi afferenti ad un soggetto, di qualunque
natura siano, si cumulino per costituire il reddito complessivo, che verrà
tassato progressivamente, ossia con aliquote percentuali crescenti al crescere
del reddito personale. In Italia l’imposta che, teoricamente, potrebbe
ricomprendere tutti i redditi percepiti dai contribuenti è l’IRPEF.
Nella dual income tax si
separano invece i redditi da lavoro da quelli da capitale, prevedendo per
questi ultimi un regime proporzionale (aliquota unica senza progressività)
distinto da quello generale progressivo, entro cui ricadrebbero solo i redditi da lavoro.
Quando il governo Draghi parla di
riforma tesa a riprodurre il modello di tassazione duale si riferisce più in
generale alla rigida separazione dei redditi derivanti dal capitale finanziario
e immobiliare (fuori quindi dall’attività d’impresa) rispetto agli altri
redditi (da lavoro e d’impresa).
L’attuale sistema fiscale in realtà
già prevede tutta una serie di eclatanti eccezioni alla logica della comprehensive income tax che la riforma del 1974
avrebbe dovuto perseguire, coerentemente con il dettato costituzionale (art.
53). Nel concreto significa che molte tipologie di reddito sono escluse
dalla base imponibile dell’Irpef progressiva e soggette a tassazione
sostitutiva agevolata: è il caso dei redditi derivanti da affitto di
immobili (con aliquota al 21% e addirittura al 10% per affitti a canoni
concordati nel regime della cedolare secca).
Ma anche dei redditi da dividendi
azionari (guadagni percepiti in quanto azionista di una società per azioni), da
interessi (guadagni percepiti in quanto possessore di titoli obbligazionari) e
da plusvalenze azionarie e immobiliari (guadagni percepiti sulla differenza tra
prezzo di acquisto e prezzo di vendita di attività finanziarie e
immobiliari). Per tutte queste tipologie vi è ad oggi
un’aliquota del 26%, ridotta al 12,5% per i titoli di Stato italiani
o di paesi esteri inseriti in una specifica lista e titoli di risparmio
postali. A ciò si aggiunge la presenza di un’imposta, l’IRES, che colpisce i
redditi delle società di capitali al 24%, redditi che in seguito al momento
della distribuzione sotto forma di dividendi verranno ritassati in capo al
socio al 26%.
Si tratta con tutta evidenza di un sistema
odiosamente iniquo che comporta due forme di disparità di trattamento. In primo luogo, la presenza di aliquote
proporzionali (invarianti al variare del reddito tassato) per tutte le
tipologie di reddito elencate crea un’equiparazione tra piccoli redditi
derivanti dall’uso del capitale e redditi plurimilionari, disattendendo il
principio di equità verticale (per cui redditi di diversa entità andrebbero
trattati in modo diverso) e violando la prescrizione costituzionale di
progressività del sistema impositivo. In secondo luogo, e di maggior rilievo,
trattare con aliquote agevolate redditi derivanti dall’impiego di capitale
finanziario e immobiliare e redditi sorti da attività di imprese sotto forma di
società di capitali (in genere imprese di dimensioni grandi o grandissime)
significa accordare un privilegio fiscale ad una parte cospicua dei redditi da
capitale – non solo i più elevati, ma anche quelli più slegati dalla logica
produttiva e occupazionale – in rapporto ai redditi da lavoro (dipendente e
autonomo) che vengono invece tassati, assieme ai redditi d’impresa non società
di capitali, in forma ben più severa e attuando la progressività dell’imposta.
Significa cioè fare esattamente
l’opposto di ciò che la giustizia sociale ed economica richiederebbe di fare:
ovvero colpire con maggior severità i redditi legati al mero uso del capitale e
in modo più leggero i redditi derivanti da sforzo, capacità e impegno
lavorativo.
La giustificazione di questo oltraggio
alla giustizia e al buon senso comune risiede nello spauracchio della fuga dei
capitali. I redditi
da capitale, infatti, in particolare i più “mobili” (redditi finanziari e
redditi legati e grandi società multinazionali) avrebbero un’elevata
propensione alla migrazione verso i paesi che garantiscono le migliori
condizioni fiscali. La paura di fughe massicce di capitali giustificherebbe
allora la necessità di trattarli fiscalmente con i guanti.
Questo argomento, sistematicamente
usato per giustificare l’ingiustificabile, è però di una bassezza argomentativa
disarmante. Come se un uomo che indossa delle pesanti catene si rammaricasse di
non poter correre, asserendo che non ci sono soluzioni al suo problema. Tutti
sanno però, anche se non lo dicono, che le catene possono essere tolte, così
come la libera circolazione dei capitali può essere rimossa modificando le
regole del gioco. La verità è allora un’altra: che la libera circolazione dei
capitali è stata ed è tutt’ora il più potente dispositivo di disuguaglianza
sociale usato per mantenere costantemente funzionante l’arma del ricatto sui
livelli salariali e sul carico fiscale sopportato dalle diverse classi sociali.
Ebbene, di fronte allo scandalo degli
sfacciati privilegi fiscali di cui oggi i redditi da capitale godono, qual è
l’obiettivo del governo Draghi quando asserisce di voler perfezionare la Dual
income tax? L’obiettivo
è quello di arrivare ad un’unica aliquota omogenea che colpisca tutti i redditi
da capitale estranei all’attività d’impresa, ovvero i redditi immobiliari e
finanziari, eliminando la giungla di aliquote sostitutive multiple divise per
sotto-tipologia di reddito. Per farlo si propone di procedere in due tempi. In
un primo momento si dovrebbe transitare ad un sistema a due aliquote: 15% per
tutti i redditi di natura finanziaria (dividendi, interessi, plusvalenze)
accorpando le precedenti aliquote del 12,5% e del 26% ed eliminando così il
vantaggio fiscale accordato sino ad oggi ai titoli di Stato; 26% per i redditi
di natura immobiliare eliminando le due aliquote al 10% e al 21%. In un secondo
momento si dovrebbe poi convergere verso un’aliquota unica, la cui entità non è
nota (si ventila il 23% o una percentuale inferiore) sia per i redditi
immobiliari che per quelli finanziari.
È chiaro che né la fase transitoria
né quella definitiva inciderebbero sul carico fiscale complessivo medio
sopportato dalle categorie di reddito suddette che, sebbene con proporzioni
diverse da oggi, con un ulteriore vantaggio per i redditi finanziari e un
piccolo svantaggio per quelli immobiliari, continuerebbero a godere di uno
status di privilegio enorme rispetto alla tassazione che colpisce i redditi da
lavoro e continuerebbero ad essere sottratte al meccanismo della progressività
dell’imposta.
E non finisce qui. Nello schema
proposto verrebbe meno il vantaggio fiscale accordato ai titoli di Stato
rispetto alle attività finanziarie private, fino ad oggi gelosamente conservato
nella normativa al fine di sostenere l’attrattività delle obbligazioni
pubbliche da parte degli investitori, in un periodo di rendimenti netti molto
bassi. La fine di questo “privilegio”, giudicata necessaria dagli epigoni del
libero mercato, potrebbe sicuramente rappresentare, nell’angusto quadro di
finanza pubblica attuale, un problema non banale sulla gestione del debito
pubblico.
Lega e Forza Italia hanno alzato gli
scudi asserendo che nessuno deve pagare un euro in più di imposte in questa
transizione e minacciando di ingaggiare una dura battaglia per difendere la
cedolare secca sugli affitti al 10% e al 21%. Tutto il dibattito che ne è nato
tra fautori e detrattori della riforma oscura, tuttavia, drammaticamente il
vero punto della questione: il fatto che i redditi da capitale sfuggono
completamente alla tassazione progressiva e godono di indecenti privilegi al
cospetto dei redditi da lavoro.
Rovesciando questo punto
apparentemente fermo che tutti i partiti politici prendono come dato ineliminabile,
bisognerebbe ripartire per una proposta di drastica revisione del nostro
sistema tributario in senso progressivo e universalistico.
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