Fra i dialoghi
socratici l’Eutifrone non è uno dei più celebri, anche se un grande studioso
come Giovanni Reale gli ha dedicato un magistrale saggio introduttivo in cui si
dimostra che, ben lungi dal non approdare a nulla, la discussione fornisce al
lettore attento tutti gli elementi necessari a formulare correttamente il
concetto di “santità”, da intendersi come contributo umano alla realizzazione
di quel Bene che è grato al dio.
Proprio sui temi del “santo” e dell’”empio” verte il dialogo, vivacissimo
e godibile, oltre che sulla natura degli dei (rectius: della divinità):
l’occasione è offerta dall’incontro fortuito dinanzi al tribunale ateniese fra
Socrate e Eutifrone, un indovino venuto ad accusare il proprio padre
dell’omicidio di un lavoratore a giornata (morto in realtà in prigionia dopo
aver assassinato uno schiavo). Socrate, a sua volta denunciato per empietà
(corromperebbe i giovani secondo il carrierista Meleto, icasticamente ritratto
con maliziosa ironia), non rinuncia malgrado la minaccia incombente a
confrontarsi con un uomo saldo nelle sue convinzioni che, messo alle strette,
dimostra una sconsolante pochezza.
Non è di filosofia che mi preme tuttavia parlare, ma assai più banalmente
della libertà di espressione concessa ai cittadini di uno stato che si vuole
democratico – com’è noto i regimi dittatoriali “puri” si impegnano a reprimere
qualsiasi voce dissenziente, ancorché flebile.
Partirei da una frase illuminante, pronunciata da Socrate all’inizio del
dialogo: “Agli Ateniesi, secondo me, non importa granché se pensano che uno
eccella per il suo sapere, purché non intenda far da maestro ad altri. Ma
quando sospettano che egli intenda rendere anche altri sapienti come lui,
allora si incolleriscono, o per invidia – come tu affermi – o per qualche altro
motivo (έίτε δι’άλλο τι)”. Focalizzandosi sulla propria amara esperienza
Socrate enuncia, a ben vedere, una verità universale: le “democrazie” reali
temono il dissenso non meno dei totalitarismi, ma fondando il proprio potere
più su un generico consenso che sulla coercizione possono permettersi un
approccio più liberale e un controllo meno occhiuto – soggiungerei che devono
comportarsi in tal modo, a pena di smentire la loro pretesa natura.
Se la sovranità appartiene al popolo – e non a un individuo, a
un’oligarchia o a una classe sociale – è logicamente necessario che chiunque ne
faccia parte possa dire la sua e contribuire a determinare le scelte politiche:
l’operato dei governanti può essere discusso e contestato, i loro eventuali
misfatti denunciati con asprezza, incontrando la libertà di parola e di
iniziativa l’unico limite del divieto di azioni violente. È lecito persino
sostenere opinioni antidemocratiche, a condizione che esse non sconfinino
nell’apologia, vale a dire nel concorso morale in atti sovversivi o criminosi.
Fin qui la teoria poiché, come ci rammenta l’antico filosofo, nella
pratica le cose vanno in ben altra maniera. Raramente, infatti, le maggioranze
– o chi si arroga il diritto di parlare in loro nome – accettano benignamente
le critiche, per motivate che siano: in genere le considerano una fastidiosa
interferenza, se non addirittura una sorta di tradimento. Finché esse tuttavia
non hanno la possibilità di influenzare il sentire comune vengono tollerate con
un’alzata di spalle, ed è proprio questo atteggiamento di “benevola”
sopportazione a rafforzare nei governati l’impressione di vivere in una società
libera e democratica. Se l’oppositore mugugna in silenzio, o al più comunica le
sue perplessità e i suoi caustici giudizi a una ristretta cerchia di amici
(inermi) egli non costituisce un pericolo, perché non è vettore di cambiamento;
qualora invece mostri attitudine a convincere e far proseliti allora sì che
attira l’attenzione dei reggitori, che iniziano a scorgere in lui un potenziale
ostacolo all’attuazione dei propri disegni egemonici. Questo ci dice Socrate
con la massima naturalezza, come fosse un’ovvietà – e lo è, solo che si tratta
di una verità artatamente nascosta, poiché contraddice il postulato secondo il
quale in democrazia convincimenti e parole sono liberi. E’ la conservazione del
dominio il “qualche altro motivo” che l’ateniese adombra: un motivo che conviene
non esplicitare, dacché il suo disvelamento mina le fondamenta dell’edificio
ideologico chiamato democrazia (in cui, sia detto per inciso, l’onesto Socrate
nutriva scarsa fiducia).
Ciò che un osservatore smaliziato poteva intravedere duemilacinquecento anni
or sono è oggi palese e, al contempo, assai meglio occultato: nel corso degli
ultimi decenni il potere ha sviluppato una capacità mimetica inimmaginabile ai
tempi dell’antica Grecia, grazie a tecniche di manipolazione (il marketing,
basato sullo studio scientifico delle reazioni umane) e a strumenti tecnologici
innovativi ed efficacissimi. Per ammantarsi di “democrazia” e affermare una
siderale superiorità su tutti gli altri (disprezzati e aggredibili senza
remore) i regimi euroatlantici post caduta dell’URSS vantano pregi e conquiste
epocali: le libertà civili, il pluralismo politico e informativo, il
riconoscimento ai cittadini di diritti sostanziali, il rispetto dei diritti
umani, la trasparenza dell’operato delle istituzioni.
Si tratta di artifici, se non addirittura di spudorate menzogne: la
trasparenza si limita alle informazioni inutili (si esaminino i contenuti del
D. Lgs. 33/2013 per sincerarsene) e alle storielle da copertina, ma gli arcana
imperii restano tali; i diritti tangibili e “monetizzabili” (sanità gratuita e
scuola pubblica valgono più di uno stipendio) sono sotto costante attacco, e la
loro riduzione viene “compensata” con surrogati introdotti per polverizzare il
tessuto sociale e creare nuove nicchie di mercato; i diritti umani – sempre
invocati quando a violarli sono gli altri – sono tenuti in non cale
ogniqualvolta le potenze occidentali decidono un intervento militare (al
massimo la loro lesione viene derubricata a spiacevole “effetto collaterale”
delle operazioni belliche) o se occorre regolare i conti con un irriducibile
avversario interno. Quanto a libertà e pluralismo sono dati per scontati e
costituiscono il punto di partenza di qualsiasi confronto con gli “altri”, ma
della loro genuinità è il caso di dubitare: innumerevoli sono le testate
giornalistiche, e tutte dichiaratamente indipendenti (di sinistra, di destra,
di centro), ma allorché si tratta di difendere gli interessi delle élite esse
si compattano e agiscono come un sol uomo, veicolando la versione dei fatti
gradita al sistema. Anche le poche voci (più) libere premettono ai loro
ragionamenti prudenti omaggi alla “verità” ufficiale – tipo la distinzione tra
aggressore e aggredito, che quando si discute di Ucraina non manca mai, come se
il passato prossimo non contasse niente e una legittima difesa preventiva o
“altruistica” fosse inconcepibile – che non le sottraggono comunque al biasimo
universale, che assume non di rado toni intimidatori. Qualcosa di analogo
capita alle forze politiche: quelle percepite come estranee al sistema sono
ignorate, derise o vilipese; il vissuto dei loro leader viene scandagliato alla
ricerca di scandali che, ove manchino, possono essere creati ad arte. A chi “si
ravvede” spetta però un posto a tavola: si consideri il trattamento riservato a
Di Maio finché “faceva il 5Stelle” (allora era un bibitaro, sbagliava due
congiuntivi su due, fingeva di avere una fidanzata ecc.) e la statura di
statista improvvisamente acquisita dopo la conversione a Draghi, all’europeismo
e alla NATO.
La scomunica colpisce chiunque si azzardi ad avanzare dubbi, ieri sulla
gestione della pandemia (che ha fatto strame di diritti costituzionali), oggi
sulle ragioni dell’Occidente nella guerra non dichiarata alla Russia: per
escludere un personaggio scomodo dal dibattito pubblico “serio” basta
affibbiargli l’etichetta di amico di Putin, così come fino a qualche mese fa
era sufficiente descriverlo come un no vax. La costruzione del nemico inizia
dalla banalizzazione delle idee espresse, dalla sua riduzione a caricatura:
tutto il resto viene di conseguenza.
Chi non conta nulla rischia poco o nulla, a parte qualche insulto da parte
di facinorosi (io posso scrivere quello che scrivo perché stimato incapace di
incidere, e perché il mio pessimismo non addita soluzioni), chi sa arringare
una vasta platea incorre in più gravi conseguenze, può venire isolato e perdere
il posto, la rispettabilità o la cattedra.
E poi ci sono quelli che il sistema giudica davvero perniciosi – e perciò
da ridurre al silenzio. Sappiamo a quale fine sia andato incontro Socrate, e
sappiamo anche il perché: riottenuto il potere al prezzo di una dura lotta, i
“democratici” ateniesi vedevano in lui un perturbatore della pubblica quiete,
un “cattivo maestro” in grado di instillare il dubbio nei sudditi e sviarli dalla
retta via dell’obbedienza al regime. Mutatis mutandis è la storia di Julian
Assange, la cui imperdonabile colpa è stata quella di rivelare al mondo i
crimini commessi dalla superpotenza americana a Guantanamo, Falluja ecc.
Socrate fu condannato alla pena capitale dopo un processo farsa, e la sua
docile accettazione della sentenza fu un’estrema, vibrante accusa al sistema
che lo stava togliendo di mezzo piuttosto che un sottomettersi a leggi
ingiuste. Anche Assange ha subito – e sta ancora subendo – una persecuzione,
nutrita di denunce strumentali, campagne di delegittimazione e sentenze
preconfezionate. Segregato dal 2012, poi incarcerato in attesa del processo,
l’attivista e giornalista australiano è ora in attesa di estradizione negli
Stati Uniti d’America, con la prospettiva di trascorrere gli anni che gli
restano rinchiuso in un’angusta cella: il suo crimine consiste nell’aver
disvelato “di che lagrime grondi e di che sangue (…) lo scettro” dei governanti
democratici. I giornali mainstream non sembrano appassionarsi alla vicenda, e
seriosi commentatori contrappongono lo “spione” Assange al perseguitato
Navalny, “eroe” perché avverso a Putin e dunque spendibile dalla propaganda
occidentale.
Sì, la frase pronunciata da Socrate è ancora attualissima, la sua
drammatica vicenda giudiziaria si ripete sotto i nostri occhi distratti. In
venticinque secoli quella che definiamo “democrazia” non ha fatto passi avanti,
anche se ha perfezionato l’arte dell’inganno e della contraffazione
dell’inafferrabile veritas, ridotta a un adattabile fantasma.
Forse è la democrazia stessa ad essere contraffazione e fantasma.
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