articoli, video e immagini di Amira Hass, Hanin Majadli, Clara Capelli, Ahmad Amara, Mazin Qumsiyeh, Michele Giorgio, Yumna Patel, Gideon Levy, Husam Zomlot, Manuela Valsecchi, Ilan Pappe, Paola Caridi, , Basil al-Adraa, Oren Ziv, Vincenzo Costa, Paolo Desogus, Shireen Abu Akleh, Mauro Biani, Carlos Latuff, Sa’ed Arouri, Dirar Taffeche, Edward Said, Mohammad Bakri
Nel 1998 Feltrinelli pubblicò Tra guerra e pace. Ritorno in Palestina-Israele,
di Edward Said (Il volume si compone di due brevi memorie di viaggio che si
possono leggere come due intensi pamphlet: l’uno, contro Israele; l’altro,
contro Arafat. Più intimo e personale, il primo; più esplicitamente politico,
il secondo).
a p.86 il suo amico Israel Shahak
dice: “Nulla potrà spazzare via questi insediamenti, se non una catastrofe
naturale o un’operazione militare veramente devastante. Diversamente,
resteranno per sempre”, parole del 1996.
ALLORA ADESSO SIETE INORRIDITI?
– Gideon Levy
Il relativo orrore espresso per
l’uccisione di Shireen Abu Akleh è giustificato e necessario. È anche tardivo e
ipocrita. Ora siete sconvolti? Il sangue di una famosa giornalista, per quanto
coraggiosa ed esperta fosse – ed era – non è più rosso del sangue di una
anonima studente delle superiori che un mese fa stava tornando a casa in un
taxi pieno di donne in questa stessa Jenin quando è stata uccisa dagli spari
dei soldati israeliani.
Così è stata uccisa Hanan
Khadour. Anche allora il portavoce militare ha cercato di mettere in dubbio
l’identità dei tiratori: “La questione è al vaglio”. È passato un mese e questo
“esame” non ha prodotto nulla, e non lo farà mai – ma i dubbi sono stati
piantati e sono germogliati nei campi israeliani della negazione e della repressione,
dove a nessuno interessa davvero il destino di una 19enne ragazza palestinese,
e la coscienza morta del Paese è di nuovo messa a tacere. C’è un solo crimine
commesso dai militari di cui la destra e l’establishment accetteranno mai la
responsabilità? Solo uno?
Abu Akleh sembra essere un’altra
storia: una giornalista di fama internazionale. Proprio domenica scorsa un
giornalista più locale, Basel al-Adra, è stato attaccato da soldati israeliani
nelle colline di South Hebron, e nessuno si è preoccupato. E un paio di giorni
fa, due israeliani che hanno aggredito i giornalisti durante la guerra di Gaza
lo scorso maggio sono stati condannati a 22 mesi di carcere. Quale punizione
sarà inflitta ai soldati che hanno ucciso, se lo hanno fatto, Abu Akleh? E
quale punizione è stata inflitta a chi ha deciso e realizzato lo spregevole
bombardamento degli uffici dell’Associated Press a Gaza durante i combattimenti
dell’anno scorso? Qualcuno ha pagato per questo crimine? E che dire dei 13
giornalisti uccisi durante la guerra di Gaza nel 2014? E il personale medico
ucciso durante le manifestazioni al confine di Gaza, tra cui la 21enne Razan
al-Najjar, che è stata uccisa a colpi di arma da fuoco dai soldati mentre
indossava la sua uniforme bianca? Nessuno è stato punito. Tali fatti saranno
sempre coperti da una nuvola di cieca giustificazione e immunità automatica per
i militari e il culto dei suoi soldati.
Anche se viene trovato il
proiettile israeliano fumante che ha ucciso Abu Akleh, e anche se viene trovato
un filmato che mostra il volto dell’assassino, sarà trattato dagli israeliani
come un eroe al di sopra di ogni sospetto. Si è tentati di scrivere che se
palestinesi innocenti devono essere uccisi dai soldati israeliani, è meglio che
siano famosi e titolari di passaporti statunitensi, come Abu Akleh. Almeno
allora il Dipartimento di Stato americano esprimerà un po’ di dispiacere, ma
non troppo, per l’insensata uccisione di un suo cittadino da parte dei soldati
di uno dei suoi alleati.
Al momento di scrivere, non era
ancora chiaro chi avesse ucciso Abu Akleh. Questo è il risultato della
propaganda di Israele: seminare dubbi, che gli israeliani si affrettano ad
afferrare come fatti e giustificazioni, anche se il mondo non ci crede e di
solito ha ragione. Quando il giovane palestinese Mohammed al-Dura è stato
ucciso nel 2000, la propaganda israeliana ha anche cercato di offuscare
l’identità dei suoi assassini; non ha mai dimostrato le sue affermazioni e
nessuno le ha acquistate. L’esperienza passata mostra che i soldati che hanno
ucciso la giovane donna in taxi sono gli stessi soldati che potrebbero uccidere
un giornalista.
È lo stesso spirito; possono
sparare a loro piacimento. Coloro che non sono stati puniti per l’omicidio di
Hanan hanno continuato con Shireen.
Ma il crimine inizia molto prima
della sparatoria. Il crimine inizia con il saccheggio di ogni città, campo
profughi, villaggio e camera da letto della Cisgiordania ogni notte, quando
necessario ma soprattutto quando non necessario. I corrispondenti militari diranno
sempre che ciò è stato fatto per il motivo di “arrestare sospetti”, senza
specificare quali sospetti e di cosa sono sospettati, e la resistenza a queste
incursioni sarà sempre vista come “una violazione dell’ordine” – l’ordine in
cui i militari possono fare quello che vogliono e i palestinesi non possono
fare nulla, non manifestano certo resistenza.
Abu Akleh è morta da eroe,
facendo il suo lavoro. Era una giornalista più coraggiosa di tutti i
giornalisti israeliani messi insieme. È andata a Jenin e in molti altri luoghi
occupati, che loro hanno visitato raramente, se non mai, e ora devono chinare
il capo in segno di rispetto e lutto. Avrebbero anche dovuto smettere di
diffondere la propaganda diffusa dai militari e dal governo sull’identità dei
suoi assassini. Fino a prova contraria, senza ombra di dubbio, la conclusione
predefinita deve essere: l’esercito israeliano ha ucciso Shireen Abu Akleh.
scriveva Edward Said:
…COMPRENDERE quanto è accaduto
agli ebrei in Europa sotto i nazisti significa riuscire a capire quanto vi sia
di universale nell’esperienza umana quando è sottoposta a condizioni
disastrose. Vuol dire compassione, comprensione umana, e un assoluto ritrarsi
dall’idea di uccidere per ragioni etniche, religiose o nazionaliste.
A tale comprensione e compassione
non mi sento di porre condizioni di alcun genere: sono sentimenti che si
provano perché tali, e non per trarne un vantaggio politico. Eppure un simile
passo avanti in termini di consapevolezza da parte degli arabi dovrebbe essere
accolto da un analogo desiderio di compassione e di comprensione da parte degli
israeliani e dei sostenitori di Israele, i quali si sono impegnati in ogni possibile
forma di negazione e di espressione di non-responsabilità difensiva ogni volta
che si è arrivati al problema del ruolo centrale esercitato da Israele nella
storica privazione della terra, da noi subita come popolo. Tutto ciò è davvero
ignobile. Ed è del tutto inaccettabile limitarsi a dire (come fanno tanti
sionisti liberali) che faremmo bene a procedere verso la creazione di due stati
separati dimenticando senz’altro il passato. La cosa è tanto insultante per la
memoria ebraica dell’Olocausto quanto lo è per i palestinesi che continuano a
venire privati dei loro territori da parte di Israele.
LA QUESTIONE fondamentale è che
le esperienze di ebrei e palestinesi sono storicamente e organicamente legate
fra loro. Volerle tenere separate significa falsificare ciò che vi è di
autentico in ciascuna di esse. Affinché possa esservi un futuro comune noi
dobbiamo pensare le nostre storie legate fra loro, per quanto difficile la cosa
possa apparire. E quel futuro dovrà comprendere arabi ed ebrei, insieme, liberi
da ogni progetto tendente all’esclusione, basato sulla negazione, che miri a
escludere uno dei due contendenti per mezzo dell’altro, sia dal punto di vista
teorico che da quello politico. E’ questa la vera sfida. Tutto il resto è assai
più facile.
(traduzione di Maria Antonietta Saracino)
https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/1998002263 1-2
1998
…Vorrei accennare, inoltre, a un
altro aspetto fondamentale della causa palestinese e dell’intero popolo arabo:
la dignità. Il punto fondamentale che va messo in luce è la larghissima forbice
che divide la nostra società dai pochi che ci comandano. Questi sembrano
sottostimare se stessi e le loro nazioni, paurosi di aprirsi al loro popolo e
terrificati d’irritare il fratello maggiore, gli Stati Uniti. Perché la
collettività degli arabi non ha strillato il suo «no» contro l’intervento
americano in Iraq? Contro le follie di Bush e del suo potere ricevuto da Dio,
nessun leader arabo ha avuto il coraggio, come un leader di un grande popolo,
di dire che noi abbiamo le nostre tradizioni e la nostra religione? Dov’è il
supporto arabo, politico, economico e diplomatico, per sostenere un movimento
anti-occupazione nella West Bank e a Gaza?
Forse la cosa che più mi colpisce
dell’incapacità araba di dare dignità alla causa palestinese è la situazione in
cui è caduta l’Anp. Abu Mazen, una figura di secondo rilievo con scarso peso
anche tra i suoi, è stato scelto da Arafat, Israele e Stati Uniti proprio per
la sua inconsistenza. Non è né un oratore né un grande organizzatore, e ho
paura che esaudirà i desideri di Israele senza occuparsi di quelli del suo
popolo. Un uomo che al vertice di Aqaba parlava come il pupazzo di un
ventriloquo, che leggeva discorsi scritti dal nemico. Lentamente sembra, però,
che le cose stiano cambiando e che Abu Mazen e Abu Ammar (Arafat ndt), nelle
aspettative popolari, stiano per essere rimpiazzati da nuovi leaders e forze
emergenti. La più promettente è formata dai membri dell’Iniziativa Nazionale
Palestinese (di Mustafà Bargouti, n.d.r.), le cui attività hanno radici
profonde nelle classi lavorative, e tra i giovani intellettuali. Offrono
servizi sociali ai disoccupati e assistenza sanitaria nei campi profughi. Sono
queste iniziative che rivelano la dignità e la giustezza della nostra
battaglia, che viene appoggiata da persone di tutto il mondo, tra cui Rachel
Corrie.
* Da The alternative information center (trad. di Pier
Mattia Tommasino)
https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003032109
1-7-2003
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