SABATO 4 giugno alle 16 – manifestazione nazionale
piazza della Repubblica, Roma
Il 17 aprile lo Stato turco ha lanciato
una nuova campagna militare volta ad occupare nuove aree del Kurdistan
meridionale, mentre prosegue i suoi attacchi in Rojava e a Sengal.
Il presidente fascista turco Erdogan ha
dato l’ordine per questo attacco poiché presume che l’attenzione della comunità
internazionale sia completamente concentrata sulla guerra in Ucraina. Vuole
quindi trarre vantaggio dalla situazione attuale e portare a termine l’ennesimo
attacco contro il popolo curdo. Questa guerra di occupazione mostra ancora una
volta che Erdogan st cercando di manipolare la comunità internazionale
affermando che sta lavorando per raggiungere la pace e la stabilità in Ucraina.
Parallelamente all’invasione turca
l’esercito iracheno sta attaccando gli ezidi sopravvissuti nel 2014 al
genocidio dello Stato Islamico per smantellare la loro amministrazione
autonoma, un sistema organizzativo sviluppato per dare alla gente la
possibilità di non dover lasciare la propria patria e di essere in grado di
difendersi, Tutto ciò avviene con la complicità del partito di Barzani il KDP e
il governo centrale iracheno di Mustafa al-Kadhimi.
Attraverso la guerra la Turchia sta
cercando di imporre il suo predominio politico e militare fino a Mosul e
Kirkuk, e punta a raggiungere i confini del Patto Nazionale (“Misak-ı Milli”
ratificato nell’ultimo parlamento ottomano), il sogno di un secolo.
Dobbiamo rompere il silenzio
sull’invasione turca del Kurdistan meridionale e agire!
• Chiediamo a tutti i governi e
alle organizzazioni internazionali, comprese le Nazioni Unite, la NATO, l’UE,
il Consiglio d’Europa e la Lega araba, di intraprendere un’azione urgente
contro questa violazione del diritto internazionale, di condannare
inequivocabilmente questo crimine di aggressione e di chiedere che la Turchia
ritiri le sue truppe dal Kurdistan meridionale
• Chiediamo ai partiti politici,
alle organizzazioni per i diritti umani, alle organizzazioni per la pace, ai
sindacalisti e agli attivisti di opporsi a questa aggressione della Turchia.
Manifestazione nazionale a Roma con
concentramento in Piazza la Repubblica alle ore 16
Per adesioni:
Ufficio d’informazione del Kurdistan
Comitato ‘’il tempo è arrivato; Liberta
per Ocalan’’
Rete Kurdistan Italia
Comunità curda in Italia
Dobbiamo resistere alla guerra femminicida: la guerra di Stato turca di
occupazione del sud Kurdistan
Dossier del TJK-E sulla guerra di
occupazione turca in Kurdistan meridionale (*)
INDICE
1. Introduzione – La nuova fase
dell’aggressione dello Stato Turco in Kurdistan.
2. Background degli attacchi
3. L’invasione e il movimento delle donne
4. Supporto e azione internazionale
1. La nuova fase dell’aggressione
dello Stato Turco in Kurdistan
Il 14 aprile 2022 nuove incursioni aeree e
bombardamenti hanno annunciato la nuova fase dell’aggressione turca contro il
Kurdistan. Tali attacchi concentrati sulle regioni a sud del Kurdistan: Zap,
Metina, Avasin, sono stati seguiti dall’avanzata di migliaia di soldati
trasformandosi, quindi, in una carica su vasta scala che sta proseguendo sino
ad oggi. L’obiettivo immediato dell’invasione militare è quindi lontano
dall’essere le Forze di Difesa del Popolo, quanto la guerriglia curda. Ad ogni
modo, questa escalation deve essere vista come la fase più recente nell’attacco
supportato dallo stato turco verso la popolazione curda, verso la democrazia
nella regione curda e verso le conquiste del Movimento di Liberazione Curda e
del Movimento delle Donne Curde. Esploreremo questi avvenimenti dalla
prospettiva del Movimento delle Donne Curde in Europa (TJK-E).
Discuteremo: il contesto di questi attacchi la relazione tra la questione
femminista e globalmente delle donne la necessità dell’azione internazionale
per difendersi dall’aggressione imperialista.
2. Background
Il contesto politico dietro questi
attacchi è l’obiettivo del partito di governo turco AKP-MHP di far rivivere le
ambizioni dell’impero ottomano ed estendere il proprio controllo nella regione.
Per fare ciò, la coalizione AKP-MHP cerca di dividere e distruggere il popolo
curdo e di rafforzare le politiche di genocidio contro di essa. E’ importante
capire gli effetti di queste politiche attraverso la regione e non solo in
maniera isolata. Ciò contempla: le permanenti occupazioni oltre confine di
Afrin e Serekaniye, entrambe ricche di ben documentate violazioni dei diritti umani
e dei crimini contro l’umanitàl’incessante aggressione militare in Siria e
nella parte ovest del Kurdistan (Rojava)la distruzione delle riserve idriche ed
energetiche della società civile gli attacchi intensificati sulla regione degli
Yazidi di Shengal (Sinjar) gli attacchi dei droni oltre confine sulle aree
civili, incluso il campo per rifugiati Makhmour. Questi attacchi fanno parte di
un’ampia strategia contro la società civile curda e contro il movimento per la
democrazia, l’ecologia e la liberazione delle donne. Il governo del Partito
Democratico del Kurdistan (KDP) nel governo regionale del Kurdistan sta
collaborando con lo stato turco nell’attuale invasione del sude del Kurdistan,
incluse le incursioni nello Shengal. Tale tradimento fa anche parte di un
tentativo di dividere il popolo curdo e metter l’uno contro l’altro. Nelle
ultime due settimane si è assistito a molteplici azioni illegali da parte
dell’esercito turco, incluso il bombardamento di quartieri abitati da civili a
Kobane nonché all’uso di armi chimiche nell’invasione del Kurdistan. E’
importante sottolineare che la tempistica di questi attacchi rispetto alla
guerra in coso in Ucraina, non è una coincidenza. Lo Stato Turco conta sul
fatto che lo sguardo del mondo è rivolto all’Ucraina per la propria avanzata
imperialista. In quanto membro della NATO, la Turchia sta sfruttando al meglio
lo scontro della NATO con la Russia.
3. L’invasione e il movimento
delle donne
Il movimento curdo delle donne è divenuto
fonte d’ispirazione per la lotta globale delle donne. Le conquiste del
movimento delle donne si sono imposte all’attenzione globale nella regione
del Kurdistan ovest (Rojava), dove il movimento è stato capace di
mettere in pratica i propri valori e costruire una partecipazione politica delle
donne, l’autodifesa e varie forme di emancipazione. Il movimento di
liberazione delle donne in Rojava ha dato l’avvio ad una radicale
trasformazione sociale storicamente caratterizzata dal matrimonio forzato,
dalla violenza sulle donne e dalla loro esclusione in ambito economico,
politico e sociale. L’aver collocato la trasformazione femminista della società
curda al centro del movimento, diventando un esempio unico a livello mondiale,
ha sollecitato l’attenzione ed il supporto delle femministe di tutto il
mondo. In tutti gli attacchi del Movimento di Liberazione Curda, lo stato
turco punta in modo deliberato e sistematico alle donne e alle organizzazioni
delle donne. Ciò è stato ben documentato, in particolare dalle invasioni
di Afrin e Serekaniye e include l’uso sistematico della violenza di genere e
del femminicidio come strumento di guerra e occupazione. L’attuale
offensiva militare va anche compresa all’interno di questo contesto. Le
politiche dell’AKP-MHP non riguardano solo il genocidio contro i curdi; tentano
di uccidere i valori del movimento, e i principi che il movimento ssta
costruendo, attraverso una società democratica, come la liberazione delle
donne. Divenendo organizzato e politicamente attivo, il Movimento delle
Donne Curde, è capace di difendersi ed essere la spina dorsale di un forte
movimento sociale di democrazia e contro l’imperialismo. Lo stato turco sa
che il movimento delle donne ed il supporto internazionale che questo ha, sono
alla base della lotta per la libertà del Kurdistan. Le implicazioni
dell’imperialismo dello stato turco e il suo attacco alla trasformazione
femminista sono noti globalmente.
4. Supporto e azione
internazionale
La persistente resistenza diretta
dell’invasione da parte delle forze di autodifesa è stata decisiva. Oltre a
questo, dall’inizio dell’invasione, le organizzazioni della società civile, i
gruppi politici e i gruppi umanitari del mondo, hanno condannato questi
attacchi. E’ importante intensificare il supporto internazionale. Il TJK-E
si appella a tutte le organizzazioni di donne, ai movimenti, ai gruppi e ai
loro alleati per supportare il popolo curdo contro l’invasione e il
genocidio. Abbiamo un bisogno urgente che tutti le organizzazioni per i
diritti delle donne, i diritti umani e le organizzazioni della società civile
in Europa levino le loro voci contro questa guerra. Tutti i governi
dovrebbero essere spinti a prendere posizione contro l’imperialismo, la
brutalità e i crimini di guerra di questa guerra condotta da un membro della
NATO. Chiediamo al pubblico internazionale, in particolare alle donne di
tutto il mondo, di schierarsi con noi contro questi attacchi.
Kurdish Women’s Movement in Europe TJK-E
Movimento Curdo per le Donne in Europa
TJK-E
(*) ripreso da retejin.org – 22 aprile
2022
Curdi “prezzo” da pagare alla Nato? La
vergogna e la miopia dell’Occidente - Davide
Grasso
Non pochi, nel mondo dell’informazione,
stanno commentando le pressioni turche su Svezia e Finlandia dicendo che i
curdi saranno verosimilmente “il prezzo da pagare” per l’allargamento
dell’alleanza atlantica in Europa. Espressioni dure, pronunciate spesso con
l’aria serafica di chi la sa lunga di realpolitik, e non può permettersi di
credere a principi astratti; modi di presentare il contesto che implicano di
ritenere inevitabile, a meno di non essere anime belle, comprendere che il
popolo curdo non può essere rispettato quanto quello ucraino. Se qualcuno
dovesse pensare che questo è razzismo, si sentirà affermare che l’Ucraina è più
vicina. Mariupol dista però da Roma 3.036 chilometri, mentre la provincia di
Aleppo, dove i curdi delle Ypg-Ypj sono stati in questi mesi bombardati dalla
Turchia e assediati da Assad, 2.934 chilometri.
L’Ucraina è in Europa: ma questo non
impedisce di analizzare le conseguenze mediterranee ed eurasiatiche delle
politiche che, di fatto, ci vengono imposte. Sabino Cassese afferma che
l’avversione turca all’inclusione di Svezia e Finlandia nella Nato è
superabile, poiché la posizione di Erdogan è “negoziale”: prevede infatti
“soltanto” la consegna di presunti militanti del Pkk alle autorità turche. Che
sarà mai di fronte ai benefici di questo allargamento, che – si pensa –
impedirà massacri e distruzioni ben peggiori di quelli di Aleppo, della Siria e
del Kurdistan? Le relazioni internazionali non scorrono, invece, su binari così
nitidi o a compartimenti stagni. Anche Luigi Di Maio, per minimizzare il
problema, pensa sia sufficiente ripetere che si tratta di “questioni
bilaterali”. Erano bilaterali anche le questioni riguardanti la vendita di armi
alla Turchia, usate contro i curdi in Iraq e in Siria; e contrariamente alla
parola data in pubblico dal ministro degli esteri nell’ottobre 2019, i commerci
sono continuati senza il minimo rispetto per l’opinione pubblica italiana.
Sia per ragioni morali e politiche che per
ragioni strategiche la questione curda non è, in realtà, un quadro che si possa
appendere alla parete per fare bella figura con i propri potenziali estimatori,
per poi darlo via quando si crede più conveniente comprare o vendere
qualcos’altro. Sono donne e uomini, bambine e bambini, non pacchi postali che
possono essere imprigionati, uccisi e perseguitati perché il loro principale
aguzzino è membro della Nato. Non è vero, in ogni casi, che la sudditanza alle
richieste di Erdogan “convenga” alle popolazioni europee. Potremmo infatti
scoprire che le povere vittime “sacrificali” curde costituiscono (e svelano)
problemi geopolitici che non sono né marginali né negoziabili, e tantomeno in
modo “bilaterale”.
La prima ragione è politica: consegnare
dissidenti a un regime totalitario che ne detiene migliaia in condizioni
agghiaccianti (si vedano le opere di Zehra Doğan) significa confessare ancora
una volta che la difesa dei diritti umani è, per l’Unione Europea, meramente di
facciata. Il già diffuso scetticismo popolare verso la credibilità delle classi
dirigenti dell’UE vedrebbe confermata l’idea che l’affermazione dei criteri di
azione fondati su principi giuridici o morali non conta nulla: le democrazie
liberali non avrebbero problemi a causare tortura e morte per chi si oppone a
regimi sanguinari. Non si pensi che non vi sia sensibilità, tra gli strati
sociali meno privilegiati delle società europee, verso questi elementi della
comunicazione politica; e non per altruismo, ma perché chi non può controllare
razionalmente il carattere tecnico delle informazioni monetarie, finanziarie ed
economiche che impattano sulla sua vita, può comunque trarre conclusioni
generali sull’attendibilità di chi gliele fornisce.
Con questo si viene al secondo punto.
Questa percezione negativa non ha al momento canali di espressione orientati in
senso progressivo. La lezione che la Nato impartisce alle masse tanto cristiane
quanto musulmane d’Asia e d’Europa ogni volta che permette le violenze turche
contro i curdi (una popolazione altrettanto numerosa degli ucraini) favorisce
la propaganda di partiti come Russia Unita di Putin, che denuncia con una certa
facilità il doppiopesismo occidentale sul diritto internazionale e
l’autodeterminazione dei popoli. Vero è che questo doppiopesismo è lo stesso di
Mosca, ma non è detto che gran parte dell’opinione pubblica occidentale se ne
accorga. Non è un problema legato solo alle leggi del cuore o all’onorabilità
(pur importantissime): implica un aspetto giuridico. La Turchia occupa e
bombarda ampi territori siriani e iracheni per colpire i movimenti sociali
progressisti del Pkk e del Pyd, e i movimenti arabi ed ezidi loro alleati che
hanno liberato quei territori dall’Isis, detenendo con difficoltà migliaia di
criminali di quell’organizzazione.
Non esiste alcuna sanzione internazionale
contro queste aggressioni, che nulla hanno di diverso, quanto a illegalità
internazionale, da quelle russe, causando peraltro forme di ingegneria
demografica, colonialismo d’insediamento, diversione delle risorse idriche
oltre a mezzo milione di profughi e migliaia di vittime combattenti e civili.
Ben al di là dell’inestimabile protezione che Svezia e Finlandia hanno fornito
finora ad attivisti e richiedenti asilo curdi, ciò che Erdogan sta negoziando è
un’ulteriore via libera della Nato a operazioni militari nella Siria del
nord-est, dove gli Stati Uniti hanno truppe e dove Erdogan intende distruggere
le conquiste democratiche siriane e irachene, autoctone e secolari, promosse
dal Pyd e dal Pkk in questi anni. È grave semmai che Ue e Usa, per tutelare le
relazioni con il presidente turco, non abbiano ancora espunto il Pkk da una
lista alquanto arbitraria delle organizzazioni terroristiche, visto che
cooperano in Siria con il Pyd che è un partito del tutto analogo, unico in
grado di resistere militarmente e politicamente al jihadismo più estremo,
nell’area dove da dieci anni questo tenta ogni volta di rialzare la testa (e
visto che Erdogan, a Idlib, coopera con Hayat Tahrir as-Sham, alias Al-Qaeda).
Questo è l’ultimo aspetto, decisivo e
strategico. La Turchia è un paese plurale, con una società ricca di pulsioni
volte a una forma democratica del moderno. Con le sue purghe e la sua violenza
il presidente ha però trasformato il paese in una prigione votata alla
rifondazione legalizzata del jihad globale, disciplinato politicamente da una
guida statale che siede nel Consiglio d’Europa e in quello della Nato.
L’esercito turco tiene sotto il suo comando in Siria bande criminali come Ahrar
al-Sharqiya e Failaq Al-Majd, che commettono crimini contro l’umanità e in cui
militano ex miliziani di Daesh e Al-Qaeda.
Tali o simili jihadisti siriani sono stati
mandati da Ankara a combattere in Libia, in Azerbaijan e persino in Kashmir. La
legittimazione globale e comunicativa di un regresso globale del e nel mondo
islamico, operata da Erdogan, non è meno pericolosa di altri fenomeni. Passa
anche per le moschee che il governo turco finanzia in Europa: spesso centrali
operative, ideologiche e propagandistiche di una Fratellanza musulmana sempre
attiva nelle nostre società, come in Medio oriente, per marginalizzare le
musulmane e i musulmani che non condividono le rappresentazioni dell’islam
proprie dei governi turco e qatariota.
Il jihad globale istituzionalizzato ordito
oggi dall’abile Erdogan, predicato o armato che sia, si è formato sulle ceneri,
ma anche in rapporto, con quello clandestino lanciato a suo tempo da Bin Laden.
Questo non incontra gli interessi strategici e fondamentali dei mediorientali e
degli europei che intendano vivere in pace, libertà e nel rispetto reciproco.
Questi interessi non sono negoziabili perché sono tutt’uno con ciò che motiva
concretamente l’avversione all’espansionismo coloniale di Putin in Ucraina,
alle violenze israeliane in Palestina e che in passato ha motivato la giusta
opposizione all’invasione angloamericana dell’Iraq. Permettere
l’imprigionamento di militanti e combattenti per la libertà, e nuove guerre
d’invasione, per accontentare Erdogan rende ipocrita la giustificazione usata
per l’adesione di Svezia e Finlandia alla Nato: l’avversità alle invasioni e la
deterrenza della loro possibilità.
Pensare che la sproporzione di interesse
strategico tra Europa e Medio oriente, e tra Mare del nord e Mediterraneo, sia
così ampia da giustificare capitolazioni del genere significa avere una
percezione della politica e degli equilibri mondiali forse inadatta persino al
Settecento. Il Partito Giustizia e Sviluppo di Erdogan non controlla, come
Russia Unita di Putin, una potenza nucleare, né gran parte del capitale
fossile; ma ne controlla gran parte del transito, e ha aspirazioni all’egemonia
ideologica sull’intero mondo musulmano, dal Marocco all’Afghanistan. Credere
che vendere al despota i suoi dissidenti e oppositori ci conduca alla pace è
miope. Abbiamo interesse a vivere bene con gli altri popoli, che devono vivere
bene a loro volta; questo ci permetterebbe di effettuare commerci più stabili,
sicuri e giusti con le altre terre. Il “prezzo” da pagare per questo non è
consegnare i curdi, ma aiutarli nell’ottica di favorire un cambiamento politico
interno alla Turchia.
(*) ripreso da /www.micromega.net
Una nota della “bottega” sui legami
Erdogan-Isis
Su «Il fatto quotidiano» del 28
maggio Davide Grasso ha scritto «Le tante relazioni pericolose tra Erdogan e i
terroristi Isis» (chi è abbonato a «Il fatto» lo può leggere sul sito)
rispondendo a un lungo articolo, davvero disinformato, di Alessandro Orsini che
lodava il sultano di Ankara per essersi battuto contro l’Isis. Le cose stanno
molto diversamente. Come ricorda Grasso i legami – armi, via libera alle
frontiere ecc – fra Erdogan e Stato Islamico sono ben documentati. Quanto
all’accusa di Orsini secondo cui l’Italia non agì contro i terroristi
“islamici”, Grasso spiega: «lo Stato italiano nulla ha fatto contro l’Isis in
Siria […] mentre centinaia di italiani sono partiti per il Rojava per sostenere
le Ypg, alcuni combattendo in prima persona fino a cadere sul campo come
Lorenzo Orsetti […] contro l’equipaggiamento anche italiano in dotazione all’
esercito turco. Se la ministra Pinotti, durante la liberazione di Raqqa, non
cedette alle richieste americane di coinvolgimento italiano, fu proprio per non
scontentare Erdogan».
Il
prezzo del sì: estradizione dei curdi e armi per Ankara - Chiara Cruciati
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan
vede sempre opportunità nelle faglie europee, di fronte a una crisi o a un
cambio di paradigma ha spesso la carta buona da giocare. Lo ha fatto con
l’emergenza migratoria siriana in piena guerra civile, strappando all’Europa
sei miliardi di euro per “gestire” tre milioni di profughi, e lo ha fatto
nell’ottobre 2019 con il ritiro Usa dalla Siria del nord-est, occupando un
pezzo di Rojava dove impiantare un semi-emirato islamista.
Oggi sul tavolo ha l’adesione alla Nato di Svezia e Finlandia. Erdogan sa che
serve l’unanimità e ha posto le sue condizioni, niente arriva gratis: Helsinki
e Stoccolma devono cessare di essere Stati-santuario del Pkk, consegnargli i
membri del Partito curdo dei Lavoratori e cancellare l’embargo di armi verso
Ankara deciso proprio nel 2019, a fronte dell’occupazione delle città
curdo-siriane di Gire Spi e Serekaniye.
Così i due paesi scandinavi invieranno
delegazioni in Turchia per negoziare il sì di Ankara all’adesione. Il prezzo lo
pagheranno i curdi, quelli in diaspora e chi in Medio Oriente lavora da anni
alla costruzione di società alternative al settarismo regionale, tra Siria e
Iraq.
In Svezia e Finlandia vivono circa 100mila
curdi, l’80% in territorio svedese. L’emigrazione è iniziata negli anni ‘70,
per farsi più prepotente dopo il colpo di stato turco del 1980. Secondo Ankara,
da qui il Pkk gestirebbe la sua rete di finanziamenti e reclutamento in Europa,
grazie alla tolleranza delle autorità locali.
Il ministro degli esteri Cavusoglu ha
detto di aver condiviso con le autorità svedesi le prove della presenza di
membri del Pkk sul territorio dello stato, liberi di operare: «Gli abbiamo
detto che non ci basta la dichiarazione della Svezia che il Pkk è già sulla
loro lista del terrorismo – ha riportato ai giornalisti Cavusoglu domenica
scorsa, dopo un incontro con gli omologhi di Helsinki e Stoccolma – Ci hanno
risposto che penseranno a un nuovo piano».
Lunedì qualche dettaglio in più.
Ankara avrebbe chiesto alla Svezia l’estradizione di undici presunti membri del
Pkk, alla Finlandia di sei, seppur la lista dei desideri sarebbe ben più lunga:
secondo il ministero della giustizia turco, negli ultimi cinque anni sarebbero
state mosse 33 richieste di estradizione, mai accolte.
Un comportamento che agli occhi turchi è
incomprensibile, soprattutto alla luce della propaganda durata decenni intorno
all’omicidio di Olof Palme del 1986: all’epoca si seguì anche la pista curda,
rispuntata a fine anni ‘90 dopo le dichiarazioni di un ex membro del Pkk che
dava al suo gruppo la responsabilità della morte del primo ministro svedese.
Ordinata dallo stesso Ocalan, si disse, dopo che Stoccolma aveva dato il via
libera all’estradizione di otto combattenti. Una pista presto abbandonata ma che
non esita a ricomparire nei momenti di necessità turchi.
E poi c’è il legame che Stoccolma ha intessuto con l’Amministrazione autonoma della
Siria del nord-est, espressione del confederalismo democratico teorizzato dal
leader del Pkk, Ocalan: oltre al sostegno attraverso la coalizione anti-Isis,
una delegazione di alto livello svedese – con a capo la ministra degli esteri
Ann Linde – nel 2020 ha fatto visita alle Forze democratiche siriane
(federazione multietnica e multiconfessionale nata durante la lotta all’Isis e
ora impegnata contro l’invasione turca) e lo scorso anno il ministro della
difesa Hultqvist ha avuto un colloquio video con il loro leader, Mazloum Abdi,
a cui ha rinnovato l’appoggio del suo paese.
La seconda richiesta viene da sé:
scongelare l’esportazione di armi. «Non diremo di sì ai paesi che applicano
sanzioni alla Turchia», il commento di lunedì del presidente turco a cui
servono armi per proseguire nelle guerre in giro per il Mediterraneo. A partire
proprio da quella contro le comunità curde sparse tra Turchia, Siria e Iraq:
l’ultima operazione, “Blocco dell’Artiglio”, è cominciata a metà aprile e
prende di mira le regioni di Zap e Avasin, le montagne del nord iracheno base
militare e ideologica del Pkk. Oltre 900 i bombardamenti turchi.
Ma non va come dovrebbe: quasi impossibili da espugnare, le montagne garantiscono
al Pkk la difesa utile al contrattacco. Se secondo l’esercito turco, in un mese
le perdite sarebbero state di soli sei soldati, molto diverso è il bilancio
delle Hpg, le forze armate curde: in un comunicato di due giorni fa danno conto
di 427 militari turchi uccisi, sette droni e un elicottero abbattuti.
ripreso dal quotidiano il
manifesto
https://www.labottegadelbarbieri.org/erdogan-non-e-uomo-di-pace-anzi/
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