Dove corre quel confine invisibile, che ci permette di non sentire il dolore degli altri? Cosa ci legittima a piangere per qualcuno e voltare le spalle all’altro? È un pensiero ce non può non venire alla mente in questi tristi giorni di guerre. Lo scrivo al plurale, perché sono molti i conflitti che affliggono donne e uomini, che non riusciamo a pensare come “sorelle o fratelli”. Nessuna di queste tragedie ci spinge però a sentirci coinvolti. Non ci sono morti di serie A o di serie B, o forse sì e forse aveva torto il grande Totò a sostenere che la morte è una livella. No, nemmeno la morte ci rende uguali.
“Nel corso della mia vita ho visto francesi, italiani, russi… So anche,
grazie a Montesquieu, che è possibile essere persiani. Ma quanto all’uomo,
dichiaro di non averlo mai incontrato in tutta la mia vita”. Così scriveva lo
statista e diplomatico francese del XVIII secolo Joseph de Maistre. Parole
ciniche, che riflettono però una mentalità molto diffusa ancora oggi, quasi
dominante. Quando si parla di individui, l’origine, l’appartenenza, la
nazionalità vengono prima del suo far parte del genere umano. Con una
finzione che trasforma la nascita in nazione, si finisce per creare un divario,
generare una barriera tra coloro che consideriamo “dei nostri” e gli altri.
Riusciamo a commuoverci per la distruzione di monumenti, talvolta lontano
da noi, come i Buddha di Bamiyan, abbattuti dai cannoni talebani nel 2001 o
come i manoscritti di Timbuctu, oppure per la triste immagine di un cormorano
impiastrato di petrolio, come nel caso della guerra del Kuwait del 1991. Non
siamo in grado di fare altrettanto con gli umani. Basti pensare al tipico
annuncio televisivo in occasione di un qualche disastro. Dopo l’annuncio del
fatto e del numero dei morti, solitamente segue la frase, pronunciata quasi con
un sospiro di sollievo: “nessun italiano tra le vittime”. Il fatto
di far parte della stessa comunità nazionale ce li fa sentire più intimi, più
vicini. I morti altrui non ci interessano.
“Morti zero” era lo slogan con cui i media martellavano l’opinione pubblica
all’epoca della guerra dell’ex Jugoslavia (1991-95). Quello zero si riferiva
però solamente ai “nostri” militari, quelli della Nato, non alle numerose
vittime jugoslave (quasi 100.000), molte delle quali anche civili. Riusciamo
talvolta a pensare in termini di natura e di arte universali, ma non riusciamo
invece ad abbandonare l’idea che gli esseri umani siano in qualche modo
marchiati da una nazionalità, da una cittadinanza, da un legame con un
territorio che, se non è il nostro, li rende automaticamente stranieri.
Così la sacrosanta pena provata per le vittime della guerra in
Ucraina, si ferma davanti a quel confine, che ci impedisce di provare
lo stesso sentimento per curdi, palestinesi, huti yemeniti, per le popolazioni
del Kivi e degli altri moltissimi luoghi dove si combatte e si uccide. Eppure,
come scrive Ambrose Bierce nel suo Dizionario del
diavolo, la frontiera è:
“In geografia politica, una linea immaginaria tra due nazioni, che separa i
diritti immaginari dell’una dai diritti immaginari dell’altra”.
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