è il primo libro di Julio Monteiro Martins che leggo, e non sarà l'ultimo.
è un po' romanzo, un po' racconto, un po' un insieme di memorie, un po' dizionario, come una specie di ipertesto, con l'ombra di B. sullo sfondo.
leggendo la parte-romanzo mi chiedevo spesso se a scrivere fosse Julio Monteiro Martins o Antonio Tabucchi.
impossibile raccontare il libro, bisogna leggerlo proprio, e ognuno tiri fuori quello che riesce.
Era una bella serata maggiolina dell’anno scorso, dopo un
reading di poesia, che Julio venne a dormire a casa mia. Nel suo bagaglio, un
oggetto per lui molto significativo, non aveva il pigiama, allora dovetti
dargliene uno dei miei. Ma io, un grissino quale mi vedete rispetto a lui che
era un uomo di peso, non trovai un pigiama che gli stesse bene. Julio, vedendo
i miei pigiami da bambola modella, rideva dicendomi: “non preoccuparti Gas,
dormo vestito come sono”. D’improvviso, dopo varie prove fastidiose per lui, mi
ricordai di un mio pigiama estivo che era tanto elastico che potevano entrarci
tre persone, glielo portai e gli dissi “Julio, questo dovrebbe andar bene per
forza, provatelo”. Infatti quel pigiama gli stava tanto bene che disse “ahh
questo si che va bene”. Ci siamo messi a ridere e chiacchierare. Passando da un
argomento all’altro siamo arrivati infine a parlare delle sue opere letterarie,
e lì Julio si fece tutto serio e divenne malinconico parlandomi della poca
considerazione delle sue opere in Italia. Lui si sentiva, e senza dubbio aveva
ragione, al pari di alcuni noti scrittori italiani, scrittori molto letti e
famosi rispetto a lui che si sentiva sconsiderato ingiustamente, nonostante le
sue opere non siano meno importanti delle loro. E nonostante fosse un letterato
veramente colto e di uno spessore culturale pari al loro, e non solo ma è anche
un maestro della scrittura creativa. Infatti se pensiamo all’antologia “Non siamo in vendita. Voci contro il
regime”, che hanno scritto insieme Julio Monteiro Martins,
Dario Fo, Erri De Luca, Antonio Tabucchi e altri, ci rendiamo conto, anche se è
un esempio banale, che Julio stava nel posto giusto tra questi scrittori famosi
in Italia e non solo, ma se andiamo a chiedere alla maggior parte degli
italiani chi è Dario Fo, o Erri De Luca, o Tabucchi quasi tutti li conoscono,
ma se chiediamo alle stesse persone chi fosse Julio Monteiro Martins
probabilmente la maggio parte alzerà le spalle e ti dirà “mmm non lo conosco”.
Sembra un esempio banale e invece non lo è. Lo scrittore senza un pubblico è un
progetto sospeso, una lettera che non arriva a destinazione. Ovviamente ciò non
significa che lo scrittore che ha più pubblico è il migliore. Non è per nulla
così.
Julio Martins però non era sofferente per la sua persona quanto
per quel sogno chiamato letteratura. E non credo che il problema degli
scrittori migranti, come Julio Martins, riguardi il canone letterario, sono
piuttosto altri le ragioni. Il primo dei problemi è il marketing, che riguarda la
letteratura in generale. Di questo problema Julio Martins era ben cosciente,
tant’è vero che nel suo libro postumo, La
macchina sognante, commenta questo fatto dicendo:
Gli editori sono ben lieti di “prendere un passaggio” dalla fama
di cui gode la cosiddetta celebrità. Si tratta di una strategia di marketing
sempre più diffusa questa di vendere i libri dei famosi, qualunque robaccia
siano, soprattutto in questo periodo di peggioramento della crisi economica
dove di libri se ne vendono sempre meno. Siamo davanti all’ennesima truffa a
scapito dell’arte, all’utilizzo improprio della forza dei media per spingere i
prodotti mediocri di questi falsi scrittori, che oggi fanno un romanzo, domani
un album di canzoni natalizie, domani l’altro un ristorantino di grido. Sono
fenomeni parassitari della letteratura, che provano a falsificare “l’aura” che
le è propria e la usurpano dai libri veri e necessari, colonizzando lo spazio
delle librerie e le recensioni sulla stampa. Ma tanto, sono fenomeni fastidiosi
ma effimeri, e alla fine voglio credere che i libri migliori arrivino in un
modo o nell’altro, a volte per le vie più strane, a chi li dovrà leggere
L’altro problema è lo strano e misterioso atteggiamento che ha
la cultura italiana nei confronti delle produzioni letterarie degli scrittori
italiani di adozione, o meglio dire semplicemente “italiani”. Dico strano
perché mentre lo sguardo italiano tende verso le traduzioni delle opere che
vengono dall’estero, chiudo l’occhio o ignora le opere scritte in italiano
dentro l’Italia, da scrittori, sempre secondo loro, non italiani. Questi poveri
scrittori stanno nel limbo letterario italiano, le loro opere non sono
importate dall’estero per essere prese in considerazione, e nemmeno considerate
come produzione letteraria italiana. Questo fatto mi stupisce davvero tanto,
perché se si fa caso l’italiano è parlato soltanto Italia, oltre ad alcune
regioni svizzere. Quindi se uno scrittore vive in Italia e scrive in italiano,
lo fa ovviamente per gli italiani, perché non considerarlo italiano? Perché
tenere legata l’opera letteraria scritta in italiano, e quindi italiana, alle origini del
suo compositore straniero? Mi stupisce questo atteggiamento culturale italiano
che cerca di negare questa ricchezza che può contribuire molto allo sviluppo
della cultura letteraria italiana.
In quella sera, dopo un po’ di chiacchiere, dissi a Julio
Martins: “sai Julio che io non ho letto nessuno dei tuoi romanzi?”. “ah si” mi
disse, “te ne manderò uno appena rientro a casa”. Uomo di parola qual era mi
mandò due giorni dopo, in formato digitale, il suo romanzo “madrelingua“. Pensavo fosse
un romanzo normale, ma quando l’ho letto, ho scoperto che non lo era. Era
invece un non-romanzo, un metaromanzo, come l’hanno definito i critici. “Perché
Julio mi ha mandato questo romanzo”, mi sono chiesto. La prima risposta che mi
sono dato era che probabilmente Julio avrebbe pensato che sarebbe stato
necessario a un giovane scrittore come me leggere un tale romanzo. Poi,
leggendo alcuni suoi scritti, sono arrivato alla conclusione che questo testo,
secondo me, uno dei migliori della sua produzione letteraria, e suppongo che lo
era anche per lo stesso Julio Martins. Un testo ricco di conoscenze culturali,
colmo di citazioni e riferimenti letterari, filosofici, poetici,
cinematografici, politici, sociali, geografici, storici ecc. Dimostra una perfetta,
nonché dilettevole, struttura narrativa, nonostante le interruzione dell’autore
nelle parentesi quadre che fungono da insegnamenti al lettore di come impostare
un romanzo, oltre ad essere davvero divertenti. E’ dunque un romanzo
istruttivo, un esercizio narrativo che lo scrittore offre generosamente ai suoi
lettori, svelando i misteri della composizione di un romanzo, e in cui rivela
anche la sua alta qualità di maestro della scrittura creativa. Analizzare
questo testo dunque richiede un lavoro più vasto e articolato di una semplice
recensione, per cui vorrei limitarmi ad analizzare un elemento essenziale del
romanzo, cioè il titolo, il quale non è stato ancora trattato dai critici, e
cerco di rivelarne il significato.
Nel suo libro postumo “La
Macchina Sognante”, Julio Martins ci rivela cos’è il titolo per lui
quando, nella quindicesima rubrica “Ancora sull’insegnamento a scrivere”, dice:
[…] il titolo in verità
è un genere letterario a se stante, particolare, i cui meccanismi formativi si
avvicinano più a quelli dell’arte poetica che a quelli della narrativa, ed è
forse la forma più sintetica di espressione letteraria che ci sia, più ancora
degli hai-ku giapponesi. Il titolo può fare un uso dell’ossimoro. Del nome
proprio […].
Quella forma poetica, come la chiama l’autore, ha la forza di
svegliare la curiosità del lettore dal primo sguardo. Il titolo di un libro è
come una chiave che hai tra le mani di una stanza chiusa, una stanza che
t’incuriosisce, per cui il lettore, attirato dalla curiosità, è incitato a
scoprire cosa nasconda questa stanza. Ma il titolo è anche il volto di un
libro, un volto velato che scopri soltanto dopo avere esplorato il libro
stesso. Una volta finito il libro, comprendi a pieno il senso e il significato
del titolo. Conciso e poetico, il titolo, dunque, esprime la totalità
dell’opera. Ma nel caso di “madrelingua”
di Julio Martins questa cosa funziona davvero? Il termine “madrelingua”,
anzitutto, ha un significato comune: è la lingua della propria patria, la
lingua che s’impara nei primi anni della vita. Per quanto vogliamo cercare, non
troviamo un altro significato a questo termine, nessun uso metaforico, tuttavia
è un termine molto espressivo nel caso di un autore che scrive in una lingua
che non è la sua madrelingua. Non credo però che Julio Martins, con questo
titolo, si riferisse a questo senso comune. Infatti, se torniamo al romanzo,
non troviamo un chiaro rapporto intrinseco tra titolo e contenuto. Il
romanzo, e lo sa bene chi l’ha letto, segue due linee parallele: da una parte,
è un esercizio narrativo, una spiegazione di come impostare e comporre un
romanzo, dall’altra è anche un romanzo che racconta una storia a tutti gli
effetti. Nel primo caso abbiamo a che fare con il linguaggio, ma non con una
lingua specifica, con la struttura del romanzo, l’inserimento degli avvenimenti
della nostra vita quotidiana nel testo narrativo. Infatti, l’autore è come uno
scultore che non ci mostra una statua già scolpita per invitarci ad osservarla,
ma ci invita ad osservare le fasi della scultura e anche gli attrezzi che ha
usato e il materiale di cui si è servito per il suo lavoro. Questo processo
però non riguarda una lingua precisa, madrelingua sia o no, ma è un processo
universale applicabile in qualsiasi lingua.
Ora osserviamo l’altra linea, cioè la storia che narra il
romanzo: Mané, coltivatore di bellezza, un brasiliano che vive in Italia, sta
per festeggiare i suoi sessant’anni. Ha una amante che chiama K43, ed è
chiamato da lei Y87. Suo amico Salvo Rizzo, un bancario – cinefilo, è insoddisfatto
della situazione in Italia, per cui vorrebbe andarsene. La sua amante,
Mercedes, è una colombiana che non vorrebbe ritornare in patria, e non vorrebbe
che Salvo lasciasse l’Italia.
Questi sono i personaggi della storia, i cui discorsi sono quotidiani,
tra problemi personali, sociali, storici e politici. Una storia che ricorda in
un certo senso il romanzo di Kundera “L’insostenibile
leggerezza dell’essere”, che ci siano dei riferimenti all’opera di
Kundera questa è una cosa da studiare. Come ben si nota nessuno dei personaggi
è scrittore, nessuno di loro ha problemi con la lingua, sia la madrelingua o
quella acquisita. Vero è che sia l’autore sia il narratore fanno riferimento
alla madrelingua, il portoghese, ma non è così centrale da fare pensare che il
titolo sia ispirato a questi riferimenti.
Qual è dunque il nesso tra il titolo e il romanzo?
Anzitutto bisogna sapere che Julio Martins ha vissuto tutta la
sua vita per la letteratura, quella letteratura che, com’è ben descritto
ne La Macchina Sognante,
è la cornice dentro il quale si muove tutta la vita umana. Nella terza rubrica
del libro postumo, intitolata “Letteratura e storia dell’uomo”, Julio Martins
asserisce che: […] la
letteratura offre al lettore la conoscenza di se stesso e del mondo, passando
attraverso tutte le sfumature comprese tra il sordido e il sublime (che alla
fine si toccano e si confondono […]. Tali conoscenze la
letteratura le offre indubbiamente anche all’autore, in quanto scrittore ma
anche in quanto lettore.
Ma quando lo scrittore perde la propria patria, o smarrisce il
suo senso, la letteratura può essere anche una patria? Julio Martins crede che
questo sia quasi possibile. Tant’è vero che in un suo racconto, Un mare così ampio, il
quale non è altro che la storia dello stesso Julio Martins, l’autore esprime
questo pensiero: Quando
sono tornato di nuovo, anonimo soldatino, atteso da nessuno, ho visto con
stupore che la patria per la quale il mio corpo era stato lacerato non mi
voleva, mi guardava con ribrezzo e diffidenza. La patria mi sputava addosso. E
per la prima volta mi è venuto in mente che se morire per la patria non vale
niente, e se non posso neppure vivere per la patria perché essa non me ne
fornisce i mezzi, forse dovrei imparare a vivere per me stesso e a morire per
il mio sogno, che è quasi una patria. Cos’è il sogno di Julio
Martins se non la letteratura, la macchina sognante, come gli piace chiamarla.
E se la letteratura è una patria, avrà pure una sua lingua, che è la
madrelingua di chi appartiene a questa patria. Ecco dunque che la “scrittura”
si presenta come la madrelingua degli abitanti di quel sogno, di quella patria
chiamata letteratura, di cui Julio Martins era un perfetto cittadino. Ma se
riprendiamo il concetto di “il limbo letterario italiano”, di cui Julio
Martins, come altri, ne è stato vittima, ci rendiamo conto che l’autore
italo-brasiliano si ribelle, con il suo sogno, contro “l’apartheid” letterario.
La patria “letteratura” accoglie senza discriminazione, chiunque usasse la sua
madrelingua, la “scrittura”, senza alcuna considerazione dell’appartenenza
geografica, religiosa, culturale o linguistica.
Per quanto riguarda la minuscola del titolo, credo sia
importante l’ipotesi di Lorenzo Spurio che asserisce, nella terza nota a piè
pagina, che: La minuscola
dell’iniziale può essere interpretata in vari modi, uno dei quali potrebbe
essere che è il titolo storpiato di qualche parola iniziale che, per qualche
ragione, si è persa, è stata cancellata, è stata volutamente celata. E,
infatti, chissà cosa voleva celare Julio Martins prima di questa parola? Ma ci
saranno altre ipotesi. Forse l’autore ha usato il minuscolo proprio per
attirare la nostra attenzione alla stranezza dell’uso, per lasciarci un indizio
per approfondire l’argomento.
Se avesse usato il maiuscolo, avrebbe attenuato l’attenzione al titolo.
Soltanto considerando che il titolo “madrelingua” si riferisce alla “scrittura” in
quanto madrelingua del sogno/patria “letteratura”, si può comprendere il nesso
tra il contenuto del romanzo e il titolo. Infatti, il contenuto del romanzo,
come abbiamo detto ripetutamente, è un esercizio della scrittura, quindi di
come usare questa “madrelingua”.
Se si prende il termine “madrelingua” alla lettera, allora vuol
riferirsi a una certa madrelingua, ma questa non era l’intenzione di Julio
Martins. Lo scrittore italo-brasiliano era cosciente dell’importanza della
“scrittura” in rapporto con la lingua. La lingua, ad esempio, è importante
nell’unità di un paese, qualsiasi paese sia. Infatti, se pensiamo alla storia
dell’Italia troviamo che la lingua è stata un fattore di grande importanza per
l’unità del paese. Ma la lingua italiana da dove deriva? Si, dal latino, ma è
stata confermata grazie alla letteratura, o si può dire anche alla scrittura.
Sono state opere, come la Divina
Commedia di Dante Alighieri, il Decameron di Boccaccio
e I promessi sposi di
Manzoni, per citarne alcune, a dare vita alla lingua italiana. Tant’è vero che
ora si dice che il 90% della lingua italiana è la stessa usata da Dante. Se non
fosse per quelle opere che hanno usato una lingua, con l’intenzione di
confermarla come lingua della patria, chissà quale lingua parlerebbero ora gli
italiani, e quale lingua avrei imparato io per scrivere queste righe? La mia
stessa madrelingua, l’arabo, è ancora viva e in uso nei paesi arabi grazie alla
scrittura e alla letteratura medievale, grazie a libri di poesia e di prosa
medievali, o al libro sacro, il Corano, che è comunque un’opera letteraria.
Julio Martins sa benissimo l’importanza della scrittura nel mantenere una
lingua e anche nel farla evolvere. Mi ricordo che durante la presentazione
di La grazie di casa mia,
Julio parlava di una parola che aveva inventato lui stesso e usato in uno dei
suoi romanzi, una parola che in italiano significa “svogliato” ma che non mi
ricordo come si pronuncia in brasiliano. Diceva che l’aveva sentita usare da
una persona, e che era entrata nell’uso quotidiano. Ma ha usato tale tecnica
anche in madrelingua.
Julio Martins ha usato la parola “saudade” che era entrata nella lingua
italiana già dal 1959 grazie ai giocatori. Infatti, ad un certo punto Mané
riferisce che: L’irrimediabile
nostalgia della patria che impediva ai calciatori brasiliani di adattarsi in
Italia – la saudade – ha regalato agli italiani questa bella parola della mia
madrelingua. Intanto Julio Martins propone, anzi vuole donare,
alla lingua italiana un’altra parola: sacanagem.
Infatti, il narratore continua: Ma
c’è un’altra parola brasiliana intraducibile che ho dovuto usare per spiegare a
me stesso cosa mi attirava di più in K43. Si tratta di sacanagem. Poi
il narratore comincia a spiegare le sfumature di questa parola, per poi
arrivare ad uno dei significati, che era quello che voleva utilizzare in quel
caso: Sacanagem è
l’atmosfera complice che si crea tra due persone, silenziosamente, in cui
prevale un’intensa comunicazione di carattere sessuale: una sorta di energia
dell’istinto, del ”mondo del basso” nelle parole di Bachtin [sapevo che un
giorno mi sarebbe servito], che irrompe dentro un rapporto formale, sociale,
insipido. È un po’ come feeling, ma di carattere sessuale.
Alla finta fine del romanzo il narratore-autore mette sullo stesso piano le due
parole, come due elementi centrali della vita: Saudade e sacanagem, di questo è fatta la vita. E cosa si potrebbe
chiedere di più?
Cosa c’è di più bello allora di considerare la “scrittura” come
“madrelingua” e la “letteratura” come patria, come una grande macchina sognante
di cui tutti dobbiamo far parte, dobbiamo essere i suoi fedeli cittadini,
seguendo l’esempio di Julio Martins.
estratti da “madrelingua” (Julio Monteiro
Martins)
Cosa faccio nella vita, io? [bella domanda]. Ho fatto venti o trenta cose diverse per molto tempo, fino ad accumulare un po’ di denaro [mentre io invece…], che ho investito saggiamente [in cosa?] permettendomi di arrivare al mio settimo decennio di esistenza come amante delle belle cose, [ma va…]. È giusto, no? Che almeno al terzo atto si possa sentire un po’ di musica [questa poi…].
[ah, prima che mi dimentichi, voglio aggiungere qualcosa sul
nome di questo personaggio: Mané. Mané Garrincha è stato un grande calciatore
del periodo della mia infanzia, qualcuno lo ritiene addirittura il più grande.
Tutti noi bambini brasiliani sapevamo a memoria il suo nome completo: Manoel
Alves dos Santos. Un onore concesso a solo due eroi del pallone. L’altro era
Pelé: Edson Arantes do Nascimento.]
Proprio ora, per esempio, ascolto i Lieder di Richard Strauss cantati da
Jessye Norman. Come sono belli! [Accipicchia!] Strauss aveva 85 anni quando li
ha composti, e si preparava serenamente per il Grande Nulla (è vero… queste
cose non si sanno mai…) [simpatico, eh?…] musicando le parole di Hermann Hesse
e di altri scrittori e poeti. ”Im Abendrot” è il suo saluto finale [risvolto di
copertina del CD] e si sente la punta del suo piede che saggia timidamente
quelle nuove acque [ma allora, dove hai detto che investi i tuoi soldi,
bello?].
Allora, non so se la mia risposta sia stata chiara: sono
un consumatore di bellezza. Compresa quella delle idee [addirittura]. Mi piace
tanto leggere e ora posso finalmente tirare giù dagli scaffali tutti quei libri
comprati negli anni e mai sfogliati. Per alcuni mi concedo il diritto di non
aprire la porta, né di rispondere al telefono a nessuno, nemmeno al mio amico
Salvo, e neppure a K43.
Ho proprio bisogno di scoprire certe cose. Sono un
”anziano in allestimento”.
Salvo ora pensa solo a Lui. Ho cercato di spiegargli che
quando si pensa ossessivamente ad una persona – non importa se bene o male, è
lo stesso – quella diventa il centro della propria vita, e arriva a dominarla
ossessivamente. Non possiamo permetterci di essere dominati da persone che
valgono meno di noi. Sarebbe stupido. E c’è di più, perché l’ossessione è una
forma contorta, sinuosa, di amore. È un segno di amore – non c’è altra parola –
regalare una parte così vasta del proprio territorio soggettivo a qualcuno. E a
quello lì, poi… Ho cercato di dirgli che la prima differenza fondamentale tra
schiavo e padrone è che il primo pensa in continuazione al secondo, mentre il
secondo non sa nemmeno dell’esistenza del primo.
Ma Salvo è stato sequestrato dall’immagine di Lui,
onnipresente. È diventato un cittadino-zombie, come tanti, ed io non so come
rompere quest’incantesimo.
[ricordo che ho esitato molto – anche per le ragioni esposte qua
sopra – prima di fare tutti questi riferimenti al Cavaliere del Lavoro Silvio
Berlusconi. Ma mi sono deciso perché è ormai chiaro che lui – o Lui, in questo
libro – non è per l’Italia solo il capo del Governo, o il fondatore di un partito
di destra che è arrivato al potere, ma una figura simbolica di grande
penetrazione, una sorta di ”esca” per l’inconscio collettivo degli italiani – e
non solo – che finirà per definire questo scorcio della Storia del paese, com’è
successo a Mussolini nel Ventennio, a Garibaldi o Lorenzo de’ Medici. Si tratta
di un archetipo che si ripropone con volti e ideologie diverse lungo i secoli,
e questo non c’entra niente con l’obiettiva grandezza o meschinità della loro
figura umana. La narrativa deve anche fare i conti con i personaggi del suo
tempo. Si potrebbe forse immaginare Il
rosso e il nero di Stendhal o Guerra
e pace di Tolstoj senza lo spettro di Napoleone sullo sfondo?]
Prima di presentarla a Salvo, ho avuto una sorta di
“storia” con Mercedes, ma lui non l’ha mai saputo. Siamo usciti insieme due
volte. La prima l’ho portata a mangiare una pizza dalla vecchia pazza, la
proprietaria di un ristorantino che urla ai clienti quando arrivano, porta le
richieste sempre sbagliate e ordina di alzarsi e andare via quando le pare. Ma
si mangia benissimo, una pizza da favola, e in fondo è anche divertente [la
pizzeria esiste, a Lucca. Ci ho portato Lorenzo la sera prima di scrivere
questo brano. La storia della vecchia pazza è ancora più interessante: mi hanno
raccontato che in gioventù era stata l’amante del miglior pizzaiolo della
città, il quale prima di morire le aveva insegnato i segreti di quella pizza
straordinaria. Alla sua morte si era sposata, e poi aveva aspettato
quarant’anni il momento di restare vedova per mettere finalmente in atto il suo
prezioso apprendistato, aprendo quella pizzeria: poiché il marito aveva dei
sospetti su quell’antico rapporto, lei non aveva potuto farlo prima per non
avvalorarli.]
Poi è stata la colombiana a portarmi in un bar di certi
argentini dai capelli lunghi e selvaggi, che servivano una batida de coco stupenda, bianca e
immacolata come il latte, ma con effetti tremendi a scoppio ritardato [più
pericolosa della caipirinha]. In
una di queste esplosioni alcoliche siamo arrivati a baciarci, ma poi niente.
Avevo capito sin dall’inizio che qualsiasi uomo fosse entrato nella sua vita in
quel momento avrebbe dovuto sedersi sulla panchina delle riserve, e avevo
capito anche – per questo serve avere sessant’anni! [ma è meglio non averli
ancora] – che la sua vulnerabilità e la sua insicurezza avrebbero potuto essere
mitigate soltanto da un uomo ancora più insicuro e vulnerabile di lei. E Salvo
era perfetto. Un uomo più sereno l’avrebbe fatta sentire, per contrasto, la più
miserevole delle creature.
Volete sapere chi era il suo ”uomo stabile”? Il
proprietario, quarantenne e sposato, di un’antica gioielleria fiorentina
ereditata di recente [mi ricorda il personaggio farmacista di Dona Flor e i suoi due mariti, di Amado].
Un uomo grigio, tirchio, metodico, frustrato e conformista. Mercedes era la sua
unica trasgressione, e gli bastava e avanzava. Per lei, invece, lui era
l’àncora principale, quella di prua, da quattro tonnellate [ma questo le spara
grosse!] Sì, perché le correnti attorno a lei c’erano, eccome!
La colombiana non era una palpitante creola di Macondo
[sempre ‘sta Macondo], ma un personaggio tragico in erba, una desperada [Desperada è
addirittura il titolo di un mio racconto, in cui il personaggio, Silvia, una
donna in verità molto più instabile e misteriosa della nostra colombiana, è
descritta in questo modo: ”Fra qualche minuto Silvia farà svenire sul nostro
letto il ‘Personaggio Cattivo’, e quando si sveglierà sarà di nuovo il
‘Personaggio Buono’. Sono due donne, ma solo una è sposata con me, quella
buona. L’altra non può sposarsi con nessuno, è un’anima torturata, una desperada, come nei vecchi film western
quei banditi messicani un po’ pazzi e scapigliati che avevano un coraggio
sovrumano, perché non avevano più niente da perdere eccetto la loro vita, che
ormai non valeva quasi nulla.”], che nessuna àncora può trattenere. Il suo
incubo maggiore è ciò che potrà finire per fare a sé stessa. Il male da cui, in
fondo, sa bene che non potrà sottrarsi a lungo.
Oggi capisco che quella sera ci siamo baciati per tenere
impegnate le labbra e non dirci quelle verità l’una sull’altro che ci pendevano
ormai dalla punta della lingua.
Ma nemmeno questo è del tutto vero. C’è un dettaglio –
che non è mica un dettaglio – a cui finora non ho accennato: Mercedes è bella.
Molto. Quel suo mezzo bicchiere di sangue africano le ha modellato labbra
carnose, zigomi sporgenti, un sudore odoroso come incenso [ci risiamo]. Forse
per questo l’ho baciata all’uscita dal bar. Come avrei potuto resistere, per di
più annebbiato dalla batida de coco degli
argentini? [ti capisco].
Vi ho raccontato della donna del mio amico e ora è giusto
che vi racconti della mia [in quest’ordine…].
Anche K43 è una bella donna, ma un tipo molto diverso da
Mercedes: toscana, di pelle bianchissima e capelli e occhi neri, tanto seria e
tanto profonda pare la donna mia, e non ha paura di niente.
E perché allora non lascia il marito per venire a vivere
con te? – potresti chiedermi [ma chi se ne frega?] [ok, smetto, smetto]. La
ragione è che non vuole distruggere quell’uomo che dice di amarla sopra ogni
cosa [questo è quello che lei racconta a te], ma anche perché – va detto – non
le ho mai chiesto di farlo. Mi ci vedete a cominciare a fare il marito ora,
imparando i rudimenti di questo ingrato mestiere? A volte è tardi per certe
cose [e questo è ciò che tu racconti a lei], e poi non ho voglia di aprire la
mia vita a un’intimità full time,
che non si sa mai quando si trasformerà in banale promiscuità [e perché mai?].
Lasciatemi stare.
Lei è un’apprendista, una mia discepola, diciamo [ah
sì?], in questo mio nuovo mestiere di consumatore di qualità [eh, dai…]. Anche
K43 ha sempre avuto una forte, naturale inclinazione verso ciò che è bello
(anche verso quello strano tipo di bello che si maschera da brutto per essere
più esclusivamente nostro) [non ce l’hai mica un esempio?]. Ma il suo sguardo,
il suo udito, la punta delle sue dita necessitavano di un ulteriore affinamento
per riconoscere ed apprezzare anche quelle opere straordinarie che sono
ricamate sul grigio, sul monotono, sulla noia. Doveva languire e rasserenarsi
fino a poter godere di Bergman o di Godard, di Musil e di Guimarães Rosa, di
Debussy e di Sibelius [”du’ palle”, direbbe qualcuno che conosco…]. Del buon
gelato alla crema di Venezia senza lo sciroppo sopra.
Credo lei abbia capito subito che io, Mané, avrei potuto
diventare suo maestro nei piaceri sottili [!] quando, la prima volta che è
venuta a casa mia – era una giornata afosa di mezz’estate – le ho offerto un
bicchiere d’acqua che ha bevuto in una sola sorsata, e alla fine le ho chiesto:
– Ti è piaciuta?
– Cosa?
– Quest’acqua.
– E che cos’ha?
– Non è molto fredda né molto gassata. Cioè, non devi
fermarti a metà del bicchiere. È perfetta per chi ha molta sete [e questa?!].
– Infatti, ripensandoci, mi è sembrata proprio perfetta.
Grazie [che carina, no?…].
Non sono molti gli uomini che possono vantarsi di aver
conquistato una giovane donna bellissima con un bicchiere d’acqua, vero?
[modesto, l’amico]. Ovviamente non è stata l’acqua [ovviamente…], ma la sua
qualità, la promessa di altre future qualità che quell’acqua le sussurrava [va
be’…].
L’irrimediabile nostalgia della patria che impediva ai
calciatori brasiliani di adattarsi in Italia – la saudade –
ha regalato agli italiani questa bella parola della mia madrelingua [già, il
titolo del libro, è vero…] (in passato. Oggi i calciatori guadagnano milioni di
euro e rimangono in Italia senza fare problemi [ma a volte li fanno, questi
ingrati]. Altro che saudade!). Ma
c’è un’altra parola brasiliana intraducibile che ho dovuto usare per spiegare a
me stesso cosa mi attirava di più in K43. Si tratta di sacanagem.
È una parola con diversi significati, e forse il più
utilizzato è quello di ”fare un torto”, o fregare qualcuno, quando viene
preceduta dal verbo ”fare”: fazer uma
sacanagem com… Ma quello che in questo caso mi interessa è l’altro
senso, quello sessuale. Sessuale sì, ma non carnale o fisico, bensì spirituale,
psicologico. Sacanagem è
l’atmosfera complice che si crea tra due persone, silenziosamente, in cui
prevale un’intensa comunicazione di carattere sessuale: una sorta di energia
dell’istinto, del ”mondo del basso” nelle parole di Bachtin [sapevo che un
giorno mi sarebbe servito], che irrompe dentro un rapporto formale, sociale,
insipido. Si dice: começou a rolar uma
sacanagem entre os dois (letteralmente: è cominciata a dispiegarsi
una sacanagem tra quei due),
per dire che uno spirito lascivo, lubrico, carico di desiderio sessuale (ma
senza l’innamoramento), pieno dell’urgenza di nascondersi da soli da qualche
parte, è comparso e si è affermato senza parole tra due persone. È questa la sacanagem, la figlia prodiga e gioiosa
della colpa cattolica e del politicamente scorretto, la più piacevole delle
trasgressioni, possibile, a portata di mano, basta che si trovi subito uno
sgabuzzino, una soffitta, un garage, un cinema quasi vuoto.
K43 aveva lo sguardo da sacanagem,
sempre, agli antipodi degli occhi sbarrati di Mercedes. E lo aveva dalla
mattina alla sera. Uno sguardo invitante, quasi pornografico, che diventava più
intenso quando, per contrasto, era più seria l’espressione del suo volto. Uno
sguardo che diceva che lei era lì a fare finta di interessarsi a tutte quelle
chiacchiere, mentre in verità l’unica cosa davvero interessante, purtroppo, non
poteva essere messa in scena in quel luogo, in quel momento. Ma prima o poi,
l’occasione sarebbe arrivata, e allora…
Col tempo ho capito che quella, la sacanagem, era una caratteristica del suo
sguardo, non della sua anima, che invece spesso era ben distante dalle cose
della sessualità, e si concentrava in problemi astratti molto complessi. Ma
questa scoperta non è riuscita ad affievolire gli effetti di quel suo sguardo
sull’eruzione dei miei istinti.
Se questa non è una buona ragione per fare entrare una
donna nella tua vita, allora non so proprio quale altra lo sarebbe.
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