sabato 28 maggio 2022

Madrelingua – Julio Monteiro Martins

è il primo libro di Julio Monteiro Martins che leggo, e non sarà l'ultimo.

è un po' romanzo, un po' racconto, un po' un insieme di memorie, un po' dizionario, come una specie di ipertesto, con l'ombra di B. sullo sfondo.

leggendo la parte-romanzo mi chiedevo spesso se a scrivere fosse Julio Monteiro Martins o Antonio Tabucchi.

impossibile raccontare il libro, bisogna leggerlo proprio, e ognuno tiri fuori quello che riesce.

 

ecco sagarana la rivista online creata da Julio

 

qui un bel racconto di Julio

qui tanti lo ricordano




Era una bella serata maggiolina dell’anno scorso, dopo un reading di poesia, che Julio venne a dormire a casa mia. Nel suo bagaglio, un oggetto per lui molto significativo, non aveva il pigiama, allora dovetti dargliene uno dei miei. Ma io, un grissino quale mi vedete rispetto a lui che era un uomo di peso, non trovai un pigiama che gli stesse bene. Julio, vedendo i miei pigiami da bambola modella, rideva dicendomi: “non preoccuparti Gas, dormo vestito come sono”. D’improvviso, dopo varie prove fastidiose per lui, mi ricordai di un mio pigiama estivo che era tanto elastico che potevano entrarci tre persone, glielo portai e gli dissi “Julio, questo dovrebbe andar bene per forza, provatelo”. Infatti quel pigiama gli stava tanto bene che disse “ahh questo si che va bene”. Ci siamo messi a ridere e chiacchierare. Passando da un argomento all’altro siamo arrivati infine a parlare delle sue opere letterarie, e lì Julio si fece tutto serio e divenne malinconico parlandomi della poca considerazione delle sue opere in Italia. Lui si sentiva, e senza dubbio aveva ragione, al pari di alcuni noti scrittori italiani, scrittori molto letti e famosi rispetto a lui che si sentiva sconsiderato ingiustamente, nonostante le sue opere non siano meno importanti delle loro. E nonostante fosse un letterato veramente colto e di uno spessore culturale pari al loro, e non solo ma è anche un maestro della scrittura creativa. Infatti se pensiamo all’antologia “Non siamo in vendita. Voci contro il regime”, che  hanno scritto insieme Julio Monteiro Martins, Dario Fo, Erri De Luca, Antonio Tabucchi e altri, ci rendiamo conto, anche se è un esempio banale, che Julio stava nel posto giusto tra questi scrittori famosi in Italia e non solo, ma se andiamo a chiedere alla maggior parte degli italiani chi è Dario Fo, o Erri De Luca, o Tabucchi quasi tutti li conoscono, ma se chiediamo alle stesse persone chi fosse Julio Monteiro Martins probabilmente la maggio parte alzerà le spalle e ti dirà “mmm non lo conosco”. Sembra un esempio banale e invece non lo è. Lo scrittore senza un pubblico è un progetto sospeso, una lettera che non arriva a destinazione. Ovviamente ciò non significa che lo scrittore che ha più pubblico è il migliore. Non è per nulla così.

Julio Martins però non era sofferente per la sua persona quanto per quel sogno chiamato letteratura. E non credo che il problema degli scrittori migranti, come Julio Martins, riguardi il canone letterario, sono piuttosto altri le ragioni. Il primo dei problemi è il marketing, che riguarda la letteratura in generale. Di questo problema Julio Martins era ben cosciente, tant’è vero che nel suo libro postumo, La macchina sognante, commenta questo fatto dicendo:

Gli editori sono ben lieti di “prendere un passaggio” dalla fama di cui gode la cosiddetta celebrità. Si tratta di una strategia di marketing sempre più diffusa questa di vendere i libri dei famosi, qualunque robaccia siano, soprattutto in questo periodo di peggioramento della crisi economica dove di libri se ne vendono sempre meno. Siamo davanti all’ennesima truffa a scapito dell’arte, all’utilizzo improprio della forza dei media per spingere i prodotti mediocri di questi falsi scrittori, che oggi fanno un romanzo, domani un album di canzoni natalizie, domani l’altro un ristorantino di grido. Sono fenomeni parassitari della letteratura, che provano a falsificare “l’aura” che le è propria e la usurpano dai libri veri e necessari, colonizzando lo spazio delle librerie e le recensioni sulla stampa. Ma tanto, sono fenomeni fastidiosi ma effimeri, e alla fine voglio credere che i libri migliori arrivino in un modo o nell’altro, a volte per le vie più strane, a chi li dovrà leggere

L’altro problema è lo strano e misterioso atteggiamento che ha la cultura italiana nei confronti delle produzioni letterarie degli scrittori italiani di adozione, o meglio dire semplicemente “italiani”. Dico strano perché mentre lo sguardo italiano tende verso le traduzioni delle opere che vengono dall’estero, chiudo l’occhio o ignora le opere scritte in italiano dentro l’Italia, da scrittori, sempre secondo loro, non italiani. Questi poveri scrittori stanno nel limbo letterario italiano, le loro opere non sono importate dall’estero per essere prese in considerazione, e nemmeno considerate come produzione letteraria italiana. Questo fatto mi stupisce davvero tanto, perché se si fa caso l’italiano è parlato soltanto Italia, oltre ad alcune regioni svizzere. Quindi se uno scrittore vive in Italia e scrive in italiano, lo fa ovviamente per gli italiani, perché non considerarlo italiano? Perché tenere legata l’opera letteraria scritta in italiano, e quindi italiana, alle origini del suo compositore straniero? Mi stupisce questo atteggiamento culturale italiano che cerca di negare questa ricchezza che può contribuire molto allo sviluppo della cultura letteraria italiana.

In quella sera, dopo un po’ di chiacchiere, dissi a Julio Martins: “sai Julio che io non ho letto nessuno dei tuoi romanzi?”. “ah si” mi disse, “te ne manderò uno appena rientro a casa”. Uomo di parola qual era mi mandò due giorni dopo, in formato digitale, il suo romanzo “madrelingua“. Pensavo fosse un romanzo normale, ma quando l’ho letto, ho scoperto che non lo era. Era invece un non-romanzo, un metaromanzo, come l’hanno definito i critici. “Perché Julio mi ha mandato questo romanzo”, mi sono chiesto. La prima risposta che mi sono dato era che probabilmente Julio avrebbe pensato che sarebbe stato necessario a un giovane scrittore come me leggere un tale romanzo. Poi, leggendo alcuni suoi scritti, sono arrivato alla conclusione che questo testo, secondo me, uno dei migliori della sua produzione letteraria, e suppongo che lo era anche per lo stesso Julio Martins. Un testo ricco di conoscenze culturali, colmo di citazioni e riferimenti letterari, filosofici, poetici, cinematografici, politici, sociali, geografici, storici ecc. Dimostra una perfetta, nonché dilettevole, struttura narrativa, nonostante le interruzione dell’autore nelle parentesi quadre che fungono da insegnamenti al lettore di come impostare un romanzo, oltre ad essere davvero divertenti. E’ dunque un romanzo istruttivo, un esercizio narrativo che lo scrittore offre generosamente ai suoi lettori, svelando i misteri della composizione di un romanzo, e in cui rivela anche la sua alta qualità di maestro della scrittura creativa. Analizzare questo testo dunque richiede un lavoro più vasto e articolato di una semplice recensione, per cui vorrei limitarmi ad analizzare un elemento essenziale del romanzo, cioè il titolo, il quale non è stato ancora trattato dai critici, e cerco di rivelarne il significato.

Nel suo libro postumo “La Macchina Sognante”, Julio Martins ci rivela cos’è il titolo per lui quando, nella quindicesima rubrica “Ancora sull’insegnamento a scrivere”, dice: […] il titolo in verità è un genere letterario a se stante, particolare, i cui meccanismi formativi si avvicinano più a quelli dell’arte poetica che a quelli della narrativa, ed è forse la forma più sintetica di espressione letteraria che ci sia, più ancora degli hai-ku giapponesi. Il titolo può fare un uso dell’ossimoro. Del nome proprio […].

Quella forma poetica, come la chiama l’autore, ha la forza di svegliare la curiosità del lettore dal primo sguardo. Il titolo di un libro è come una chiave che hai tra le mani di una stanza chiusa, una stanza che t’incuriosisce, per cui il lettore, attirato dalla curiosità, è incitato a scoprire cosa nasconda questa stanza. Ma il titolo è anche il volto di un libro, un volto velato che scopri soltanto dopo avere esplorato il libro stesso. Una volta finito il libro, comprendi a pieno il senso e il significato del titolo. Conciso e poetico, il titolo, dunque, esprime la totalità dell’opera. Ma nel caso di “madrelingua” di Julio Martins questa cosa funziona davvero? Il termine “madrelingua”, anzitutto, ha un significato comune: è la lingua della propria patria, la lingua che s’impara nei primi anni della vita. Per quanto vogliamo cercare, non troviamo un altro significato a questo termine, nessun uso metaforico, tuttavia è un termine molto espressivo nel caso di un autore che scrive in una lingua che non è la sua madrelingua. Non credo però che Julio Martins, con questo titolo, si riferisse a questo senso comune. Infatti, se torniamo al romanzo, non troviamo un chiaro rapporto intrinseco tra titolo e contenuto. Il romanzo, e lo sa bene chi l’ha letto, segue due linee parallele: da una parte, è un esercizio narrativo, una spiegazione di come impostare e comporre un romanzo, dall’altra è anche un romanzo che racconta una storia a tutti gli effetti. Nel primo caso abbiamo a che fare con il linguaggio, ma non con una lingua specifica, con la struttura del romanzo, l’inserimento degli avvenimenti della nostra vita quotidiana nel testo narrativo. Infatti, l’autore è come uno scultore che non ci mostra una statua già scolpita per invitarci ad osservarla, ma ci invita ad osservare le fasi della scultura e anche gli attrezzi che ha usato e il materiale di cui si è servito per il suo lavoro. Questo processo però non riguarda una lingua precisa, madrelingua sia o no, ma è un processo universale applicabile in qualsiasi lingua.

Ora osserviamo l’altra linea, cioè la storia che narra il romanzo: Mané, coltivatore di bellezza, un brasiliano che vive in Italia, sta per festeggiare i suoi sessant’anni. Ha una amante che chiama K43, ed è chiamato da lei Y87. Suo amico Salvo Rizzo, un bancario – cinefilo, è insoddisfatto della situazione in Italia, per cui vorrebbe andarsene. La sua amante, Mercedes, è una colombiana che non vorrebbe ritornare in patria, e non vorrebbe che Salvo lasciasse l’Italia.

Questi sono i personaggi della storia, i cui discorsi sono quotidiani, tra problemi personali, sociali, storici e politici. Una storia che ricorda in un certo senso il romanzo di Kundera “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, che ci siano dei riferimenti all’opera di Kundera questa è una cosa da studiare. Come ben si nota nessuno dei personaggi è scrittore, nessuno di loro ha problemi con la lingua, sia la madrelingua o quella acquisita. Vero è che sia l’autore sia il narratore fanno riferimento alla madrelingua, il portoghese, ma non è così centrale da fare pensare che il titolo sia ispirato a questi riferimenti.

Qual è dunque il nesso tra il titolo e il romanzo?

Anzitutto bisogna sapere che Julio Martins ha vissuto tutta la sua vita per la letteratura, quella letteratura che, com’è ben descritto ne La Macchina Sognante, è la cornice dentro il quale si muove tutta la vita umana. Nella terza rubrica del libro postumo, intitolata “Letteratura e storia dell’uomo”, Julio Martins asserisce che: […] la letteratura offre al lettore la conoscenza di se stesso e del mondo, passando attraverso tutte le sfumature comprese tra il sordido e il sublime (che alla fine si toccano e si confondono […]. Tali conoscenze la letteratura le offre indubbiamente anche all’autore, in quanto scrittore ma anche in quanto lettore.

Ma quando lo scrittore perde la propria patria, o smarrisce il suo senso, la letteratura può essere anche una patria? Julio Martins crede che questo sia quasi possibile. Tant’è vero che in un suo racconto, Un mare così ampio, il quale non è altro che la storia dello stesso Julio Martins, l’autore esprime questo pensiero: Quando sono tornato di nuovo, anonimo soldatino, atteso da nessuno, ho visto con stupore che la patria per la quale il mio corpo era stato lacerato non mi voleva, mi guardava con ribrezzo e diffidenza. La patria mi sputava addosso. E per la prima volta mi è venuto in mente che se morire per la patria non vale niente, e se non posso neppure vivere per la patria perché essa non me ne fornisce i mezzi, forse dovrei imparare a vivere per me stesso e a morire per il mio sogno, che è quasi una patria. Cos’è il sogno di Julio Martins se non la letteratura, la macchina sognante, come gli piace chiamarla. E se la letteratura è una patria, avrà pure una sua lingua, che è la madrelingua di chi appartiene a questa patria. Ecco dunque che la “scrittura” si presenta come la madrelingua degli abitanti di quel sogno, di quella patria chiamata letteratura, di cui Julio Martins era un perfetto cittadino. Ma se riprendiamo il concetto di “il limbo letterario italiano”, di cui Julio Martins, come altri, ne è stato vittima, ci rendiamo conto che l’autore italo-brasiliano si ribelle, con il suo sogno, contro “l’apartheid” letterario. La patria “letteratura” accoglie senza discriminazione, chiunque usasse la sua madrelingua, la “scrittura”, senza alcuna considerazione dell’appartenenza geografica, religiosa, culturale o linguistica.

Per quanto riguarda la minuscola del titolo, credo sia importante l’ipotesi di Lorenzo Spurio che asserisce, nella terza nota a piè pagina, che: La minuscola dell’iniziale può essere interpretata in vari modi, uno dei quali potrebbe essere che è il titolo storpiato di qualche parola iniziale che, per qualche ragione, si è persa, è stata cancellata, è stata volutamente celata. E, infatti, chissà cosa voleva celare Julio Martins prima di questa parola? Ma ci saranno altre ipotesi. Forse l’autore ha usato il minuscolo proprio per attirare la nostra attenzione alla stranezza dell’uso, per lasciarci un indizio per approfondire l’argomento.
Se avesse usato il maiuscolo, avrebbe attenuato l’attenzione al titolo.

Soltanto considerando che il titolo “madrelingua” si riferisce alla “scrittura” in quanto madrelingua del sogno/patria “letteratura”, si può comprendere il nesso tra il contenuto del romanzo e il titolo. Infatti, il contenuto del romanzo, come abbiamo detto ripetutamente, è un esercizio della scrittura, quindi di come usare questa “madrelingua”.

Se si prende il termine “madrelingua” alla lettera, allora vuol riferirsi a una certa madrelingua, ma questa non era l’intenzione di Julio Martins. Lo scrittore italo-brasiliano era cosciente dell’importanza della “scrittura” in rapporto con la lingua. La lingua, ad esempio, è importante nell’unità di un paese, qualsiasi paese sia. Infatti, se pensiamo alla storia dell’Italia troviamo che la lingua è stata un fattore di grande importanza per l’unità del paese. Ma la lingua italiana da dove deriva? Si, dal latino, ma è stata confermata grazie alla letteratura, o si può dire anche alla scrittura. Sono state opere, come la Divina Commedia di Dante Alighieri, il Decameron di Boccaccio e I promessi sposi di Manzoni, per citarne alcune, a dare vita alla lingua italiana. Tant’è vero che ora si dice che il 90% della lingua italiana è la stessa usata da Dante. Se non fosse per quelle opere che hanno usato una lingua, con l’intenzione di confermarla come lingua della patria, chissà quale lingua parlerebbero ora gli italiani, e quale lingua avrei imparato io per scrivere queste righe? La mia stessa madrelingua, l’arabo, è ancora viva e in uso nei paesi arabi grazie alla scrittura e alla letteratura medievale, grazie a libri di poesia e di prosa medievali, o al libro sacro, il Corano, che è comunque un’opera letteraria. Julio Martins sa benissimo l’importanza della scrittura nel mantenere una lingua e anche nel farla evolvere. Mi ricordo che durante la presentazione di La grazie di casa mia, Julio parlava di una parola che aveva inventato lui stesso e usato in uno dei suoi romanzi, una parola che in italiano significa “svogliato” ma che non mi ricordo come si pronuncia in brasiliano. Diceva che l’aveva sentita usare da una persona, e che era entrata nell’uso quotidiano. Ma ha usato tale tecnica anche in madrelingua. Julio Martins ha usato la parola “saudade” che era entrata nella lingua italiana già dal 1959 grazie ai giocatori. Infatti, ad un certo punto Mané riferisce che: L’irrimediabile nostalgia della patria che impediva ai calciatori brasiliani di adattarsi in Italia – la saudade – ha regalato agli italiani questa bella parola della mia madrelingua. Intanto Julio Martins propone, anzi vuole donare, alla lingua italiana un’altra parola: sacanagem. Infatti, il narratore continua: Ma c’è un’altra parola brasiliana intraducibile che ho dovuto usare per spiegare a me stesso cosa mi attirava di più in K43. Si tratta di sacanagem. Poi il narratore comincia a spiegare le sfumature di questa parola, per poi arrivare ad uno dei significati, che era quello che voleva utilizzare in quel caso: Sacanagem è l’atmosfera complice che si crea tra due persone, silenziosamente, in cui prevale un’intensa comunicazione di carattere sessuale: una sorta di energia dell’istinto, del ”mondo del basso” nelle parole di Bachtin [sapevo che un giorno mi sarebbe servito], che irrompe dentro un rapporto formale, sociale, insipido. È un po’ come feeling, ma di carattere sessuale. Alla finta fine del romanzo il narratore-autore mette sullo stesso piano le due parole, come due elementi centrali della vita: Saudade e sacanagem, di questo è fatta la vita. E cosa si potrebbe chiedere di più?

Cosa c’è di più bello allora di considerare la “scrittura” come “madrelingua” e la “letteratura” come patria, come una grande macchina sognante di cui tutti dobbiamo far parte, dobbiamo essere i suoi fedeli cittadini, seguendo l’esempio di Julio Martins.

da qui



estratti da “madrelingua” (Julio Monteiro Martins)

Cosa faccio nella vita, io? [bella domanda]. Ho fatto venti o trenta cose diverse per molto tempo, fino ad accumulare un po’ di denaro [mentre io invece…], che ho investito saggiamente [in cosa?] permettendomi di arrivare al mio settimo decennio di esistenza come amante delle belle cose, [ma va…]. È giusto, no? Che almeno al terzo atto si possa sentire un po’ di musica [questa poi…].

[ah, prima che mi dimentichi, voglio aggiungere qualcosa sul nome di questo personaggio: Mané. Mané Garrincha è stato un grande calciatore del periodo della mia infanzia, qualcuno lo ritiene addirittura il più grande. Tutti noi bambini brasiliani sapevamo a memoria il suo nome completo: Manoel Alves dos Santos. Un onore concesso a solo due eroi del pallone. L’altro era Pelé: Edson Arantes do Nascimento.]

Proprio ora, per esempio, ascolto i Lieder di Richard Strauss cantati da Jessye Norman. Come sono belli! [Accipicchia!] Strauss aveva 85 anni quando li ha composti, e si preparava serenamente per il Grande Nulla (è vero… queste cose non si sanno mai…) [simpatico, eh?…] musicando le parole di Hermann Hesse e di altri scrittori e poeti. ”Im Abendrot” è il suo saluto finale [risvolto di copertina del CD] e si sente la punta del suo piede che saggia timidamente quelle nuove acque [ma allora, dove hai detto che investi i tuoi soldi, bello?].

Allora, non so se la mia risposta sia stata chiara: sono un consumatore di bellezza. Compresa quella delle idee [addirittura]. Mi piace tanto leggere e ora posso finalmente tirare giù dagli scaffali tutti quei libri comprati negli anni e mai sfogliati. Per alcuni mi concedo il diritto di non aprire la porta, né di rispondere al telefono a nessuno, nemmeno al mio amico Salvo, e neppure a K43.

Ho proprio bisogno di scoprire certe cose. Sono un ”anziano in allestimento”.

 

 

Salvo ora pensa solo a Lui. Ho cercato di spiegargli che quando si pensa ossessivamente ad una persona – non importa se bene o male, è lo stesso – quella diventa il centro della propria vita, e arriva a dominarla ossessivamente. Non possiamo permetterci di essere dominati da persone che valgono meno di noi. Sarebbe stupido. E c’è di più, perché l’ossessione è una forma contorta, sinuosa, di amore. È un segno di amore – non c’è altra parola – regalare una parte così vasta del proprio territorio soggettivo a qualcuno. E a quello lì, poi… Ho cercato di dirgli che la prima differenza fondamentale tra schiavo e padrone è che il primo pensa in continuazione al secondo, mentre il secondo non sa nemmeno dell’esistenza del primo.

Ma Salvo è stato sequestrato dall’immagine di Lui, onnipresente. È diventato un cittadino-zombie, come tanti, ed io non so come rompere quest’incantesimo.

[ricordo che ho esitato molto – anche per le ragioni esposte qua sopra – prima di fare tutti questi riferimenti al Cavaliere del Lavoro Silvio Berlusconi. Ma mi sono deciso perché è ormai chiaro che lui – o Lui, in questo libro – non è per l’Italia solo il capo del Governo, o il fondatore di un partito di destra che è arrivato al potere, ma una figura simbolica di grande penetrazione, una sorta di ”esca” per l’inconscio collettivo degli italiani – e non solo – che finirà per definire questo scorcio della Storia del paese, com’è successo a Mussolini nel Ventennio, a Garibaldi o Lorenzo de’ Medici. Si tratta di un archetipo che si ripropone con volti e ideologie diverse lungo i secoli, e questo non c’entra niente con l’obiettiva grandezza o meschinità della loro figura umana. La narrativa deve anche fare i conti con i personaggi del suo tempo. Si potrebbe forse immaginare Il rosso e il nero di Stendhal o Guerra e pace di Tolstoj senza lo spettro di Napoleone sullo sfondo?]

 

 

Prima di presentarla a Salvo, ho avuto una sorta di “storia” con Mercedes, ma lui non l’ha mai saputo. Siamo usciti insieme due volte. La prima l’ho portata a mangiare una pizza dalla vecchia pazza, la proprietaria di un ristorantino che urla ai clienti quando arrivano, porta le richieste sempre sbagliate e ordina di alzarsi e andare via quando le pare. Ma si mangia benissimo, una pizza da favola, e in fondo è anche divertente [la pizzeria esiste, a Lucca. Ci ho portato Lorenzo la sera prima di scrivere questo brano. La storia della vecchia pazza è ancora più interessante: mi hanno raccontato che in gioventù era stata l’amante del miglior pizzaiolo della città, il quale prima di morire le aveva insegnato i segreti di quella pizza straordinaria. Alla sua morte si era sposata, e poi aveva aspettato quarant’anni il momento di restare vedova per mettere finalmente in atto il suo prezioso apprendistato, aprendo quella pizzeria: poiché il marito aveva dei sospetti su quell’antico rapporto, lei non aveva potuto farlo prima per non avvalorarli.]

Poi è stata la colombiana a portarmi in un bar di certi argentini dai capelli lunghi e selvaggi, che servivano una batida de coco stupenda, bianca e immacolata come il latte, ma con effetti tremendi a scoppio ritardato [più pericolosa della caipirinha]. In una di queste esplosioni alcoliche siamo arrivati a baciarci, ma poi niente. Avevo capito sin dall’inizio che qualsiasi uomo fosse entrato nella sua vita in quel momento avrebbe dovuto sedersi sulla panchina delle riserve, e avevo capito anche – per questo serve avere sessant’anni! [ma è meglio non averli ancora] – che la sua vulnerabilità e la sua insicurezza avrebbero potuto essere mitigate soltanto da un uomo ancora più insicuro e vulnerabile di lei. E Salvo era perfetto. Un uomo più sereno l’avrebbe fatta sentire, per contrasto, la più miserevole delle creature.

Volete sapere chi era il suo ”uomo stabile”? Il proprietario, quarantenne e sposato, di un’antica gioielleria fiorentina ereditata di recente [mi ricorda il personaggio farmacista di Dona Flor e i suoi due mariti, di Amado]. Un uomo grigio, tirchio, metodico, frustrato e conformista. Mercedes era la sua unica trasgressione, e gli bastava e avanzava. Per lei, invece, lui era l’àncora principale, quella di prua, da quattro tonnellate [ma questo le spara grosse!] Sì, perché le correnti attorno a lei c’erano, eccome!

La colombiana non era una palpitante creola di Macondo [sempre ‘sta Macondo], ma un personaggio tragico in erba, una desperada [Desperada è addirittura il titolo di un mio racconto, in cui il personaggio, Silvia, una donna in verità molto più instabile e misteriosa della nostra colombiana, è descritta in questo modo: ”Fra qualche minuto Silvia farà svenire sul nostro letto il ‘Personaggio Cattivo’, e quando si sveglierà sarà di nuovo il ‘Personaggio Buono’. Sono due donne, ma solo una è sposata con me, quella buona. L’altra non può sposarsi con nessuno, è un’anima torturata, una desperada, come nei vecchi film western quei banditi messicani un po’ pazzi e scapigliati che avevano un coraggio sovrumano, perché non avevano più niente da perdere eccetto la loro vita, che ormai non valeva quasi nulla.”], che nessuna àncora può trattenere. Il suo incubo maggiore è ciò che potrà finire per fare a sé stessa. Il male da cui, in fondo, sa bene che non potrà sottrarsi a lungo.

Oggi capisco che quella sera ci siamo baciati per tenere impegnate le labbra e non dirci quelle verità l’una sull’altro che ci pendevano ormai dalla punta della lingua.

Ma nemmeno questo è del tutto vero. C’è un dettaglio – che non è mica un dettaglio – a cui finora non ho accennato: Mercedes è bella. Molto. Quel suo mezzo bicchiere di sangue africano le ha modellato labbra carnose, zigomi sporgenti, un sudore odoroso come incenso [ci risiamo]. Forse per questo l’ho baciata all’uscita dal bar. Come avrei potuto resistere, per di più annebbiato dalla batida de coco degli argentini? [ti capisco].

 

 

Vi ho raccontato della donna del mio amico e ora è giusto che vi racconti della mia [in quest’ordine…].

Anche K43 è una bella donna, ma un tipo molto diverso da Mercedes: toscana, di pelle bianchissima e capelli e occhi neri, tanto seria e tanto profonda pare la donna mia, e non ha paura di niente.

E perché allora non lascia il marito per venire a vivere con te? – potresti chiedermi [ma chi se ne frega?] [ok, smetto, smetto]. La ragione è che non vuole distruggere quell’uomo che dice di amarla sopra ogni cosa [questo è quello che lei racconta a te], ma anche perché – va detto – non le ho mai chiesto di farlo. Mi ci vedete a cominciare a fare il marito ora, imparando i rudimenti di questo ingrato mestiere? A volte è tardi per certe cose [e questo è ciò che tu racconti a lei], e poi non ho voglia di aprire la mia vita a un’intimità full time, che non si sa mai quando si trasformerà in banale promiscuità [e perché mai?]. Lasciatemi stare.

Lei è un’apprendista, una mia discepola, diciamo [ah sì?], in questo mio nuovo mestiere di consumatore di qualità [eh, dai…]. Anche K43 ha sempre avuto una forte, naturale inclinazione verso ciò che è bello (anche verso quello strano tipo di bello che si maschera da brutto per essere più esclusivamente nostro) [non ce l’hai mica un esempio?]. Ma il suo sguardo, il suo udito, la punta delle sue dita necessitavano di un ulteriore affinamento per riconoscere ed apprezzare anche quelle opere straordinarie che sono ricamate sul grigio, sul monotono, sulla noia. Doveva languire e rasserenarsi fino a poter godere di Bergman o di Godard, di Musil e di Guimarães Rosa, di Debussy e di Sibelius [”du’ palle”, direbbe qualcuno che conosco…]. Del buon gelato alla crema di Venezia senza lo sciroppo sopra.

Credo lei abbia capito subito che io, Mané, avrei potuto diventare suo maestro nei piaceri sottili [!] quando, la prima volta che è venuta a casa mia – era una giornata afosa di mezz’estate – le ho offerto un bicchiere d’acqua che ha bevuto in una sola sorsata, e alla fine le ho chiesto:

– Ti è piaciuta?

– Cosa?

– Quest’acqua.

– E che cos’ha?

– Non è molto fredda né molto gassata. Cioè, non devi fermarti a metà del bicchiere. È perfetta per chi ha molta sete [e questa?!].

– Infatti, ripensandoci, mi è sembrata proprio perfetta. Grazie [che carina, no?…].

Non sono molti gli uomini che possono vantarsi di aver conquistato una giovane donna bellissima con un bicchiere d’acqua, vero? [modesto, l’amico]. Ovviamente non è stata l’acqua [ovviamente…], ma la sua qualità, la promessa di altre future qualità che quell’acqua le sussurrava [va be’…].

 

 

L’irrimediabile nostalgia della patria che impediva ai calciatori brasiliani di adattarsi in Italia – la saudade – ha regalato agli italiani questa bella parola della mia madrelingua [già, il titolo del libro, è vero…] (in passato. Oggi i calciatori guadagnano milioni di euro e rimangono in Italia senza fare problemi [ma a volte li fanno, questi ingrati]. Altro che saudade!). Ma c’è un’altra parola brasiliana intraducibile che ho dovuto usare per spiegare a me stesso cosa mi attirava di più in K43. Si tratta di sacanagem.

È una parola con diversi significati, e forse il più utilizzato è quello di ”fare un torto”, o fregare qualcuno, quando viene preceduta dal verbo ”fare”: fazer uma sacanagem com… Ma quello che in questo caso mi interessa è l’altro senso, quello sessuale. Sessuale sì, ma non carnale o fisico, bensì spirituale, psicologico. Sacanagem è l’atmosfera complice che si crea tra due persone, silenziosamente, in cui prevale un’intensa comunicazione di carattere sessuale: una sorta di energia dell’istinto, del ”mondo del basso” nelle parole di Bachtin [sapevo che un giorno mi sarebbe servito], che irrompe dentro un rapporto formale, sociale, insipido. Si dice: começou a rolar uma sacanagem entre os dois (letteralmente: è cominciata a dispiegarsi una sacanagem tra quei due), per dire che uno spirito lascivo, lubrico, carico di desiderio sessuale (ma senza l’innamoramento), pieno dell’urgenza di nascondersi da soli da qualche parte, è comparso e si è affermato senza parole tra due persone. È questa la sacanagem, la figlia prodiga e gioiosa della colpa cattolica e del politicamente scorretto, la più piacevole delle trasgressioni, possibile, a portata di mano, basta che si trovi subito uno sgabuzzino, una soffitta, un garage, un cinema quasi vuoto.

K43 aveva lo sguardo da sacanagem, sempre, agli antipodi degli occhi sbarrati di Mercedes. E lo aveva dalla mattina alla sera. Uno sguardo invitante, quasi pornografico, che diventava più intenso quando, per contrasto, era più seria l’espressione del suo volto. Uno sguardo che diceva che lei era lì a fare finta di interessarsi a tutte quelle chiacchiere, mentre in verità l’unica cosa davvero interessante, purtroppo, non poteva essere messa in scena in quel luogo, in quel momento. Ma prima o poi, l’occasione sarebbe arrivata, e allora…

Col tempo ho capito che quella, la sacanagem, era una caratteristica del suo sguardo, non della sua anima, che invece spesso era ben distante dalle cose della sessualità, e si concentrava in problemi astratti molto complessi. Ma questa scoperta non è riuscita ad affievolire gli effetti di quel suo sguardo sull’eruzione dei miei istinti.

Se questa non è una buona ragione per fare entrare una donna nella tua vita, allora non so proprio quale altra lo sarebbe.

da qui



 



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