Due popoli nella universalità del dolore
Da New York, dove insegna letterature comparate, un intervento
dell'intellettuale palestinese Edward Said. Mentre gli accordi di Oslo per la
pace toccano forse il loro momento più basso, Said ricorda come le sofferenze
di ebrei e palestinesi siano storicamente legate e quanto insultante sarebbe
trascurare il peso di questa eredità, sia per la memoria dell'Olocausto che per
i palestinesi, i quali continuano a venire privati dei loro territori da
Israele
EDWARD SAID –
U NA
DELLE PIU'IMPORTANTI differenze fra gli arabi che vivono nel mondo arabo e
quelli che si trovano in Occidente è il fatto che questi ultimi sono costretti
a confrontarsi quotidianamente con l'esperienza ebraica dell'anti-semitismo e
del genocidio. Anno dopo anno è una valanga sempre crescente di libri, film,
articoli e fotografie. Il 1996 è stato l'anno di Schindler's List,
il film di Spielberg che ha messo davanti agli occhi di centinaia di milioni di
persone, letteralmente, gli orrori dell'Olocausto. Vi sono state numerose
polemiche circa le ragioni della catastrofe tedesca, circa i motivi per cui una
nazione grandemente civilizzata, che aveva prodotto i maggiori filosofi e
musicisti europei e alcuni tra i più brillanti scienziati, poeti e studiosi
potesse essere precipitata non soltanto nella follia del Nazismo, ma nel più
spaventoso progetto di sterminio umano che la Storia ricordi. Chiunque oggi
viva negli Stati Uniti, in Francia o in qualunque paese europeo non può
sfuggire alle immagini di Auschwitz e Dachau, ai continui richiami alla
sofferenza e al tormento patiti dagli ebrei, prova incessante della disumanità
di massa, rivolta principalmente contro un popolo solo, gli ebrei, i quali,
nonostante i successi ottenuti e il contributo da essi apportato alla cultura,
vennero ridotti allo stato di bestie, per poi essere uccisi a milioni coi gas e
nei forni crematori.
E' CERTAMENTE
VERO che gran parte di questa storia non solo circola ovnque nelle Università,
nelle scuole, nei musei e nei discorsi pubblici in Occidente, ma è anche
oggetto di controversie, come ha recentemente dimostrato il libro di Daniel
Goldhagen, Hitler's Willing Executioners. La tesi sostenuta da
Goldhagen è che ogni tedesco, non solo i membri del partito nazista o gli
psicopatici dell'entourage di Hitler erano favorevoli e presero materialmente
parte al genocidio nei confronti degli ebrei. La maggior parte degli storici si
sono trovati in disaccordo con questo punto di vista estremo, ma la questione del
diffuso senso di colpa degli europei e in particolare dei cristiani, continua a
turbare il mondo occidentale. Fra gli ebrei americani, una comunità alla quale
era stato risparmiato l'orrore di quanto accadde in Europa, l'Olocausto viene
studiato e commemorato con grande fervore; ad esempio, è degno di nota il fatto
che Washington sia la sede di un Museo dell'Olocausto di proporzioni grandiose,
piuttosto che il luogo nel quale si commemora lo sterminio degli indiani
d'America o quello di milioni di schiavi africani. Entro certi limiti,
pertanto, l'Olocausto viene usato retrospettivamente per giustificare le realtà
politiche contemporanee. E' consuetudine dei critici mettere in relazione la
storia della sofferenza degli ebrei con i grandi successi ottenuti dalla
comunità ebraica in America, o l'Olocausto e Israele, dei quali l'uno conduce
all'altro e lo vendica. E di certo è stata portata alla luce una quantità di
storia sufficiente a dimostrare che il movimento sionista più attaccato alla
tradizione è parso a volte meno interessato a salvare l'intera popolazione
ebraica dalla eliminazione che a salvarne una parte affinché potesse stabilirsi
in Palestina; con analogo atteggiamento, esponenti dell'ala destra sionista (ad
esempio Shamir) durante il periodo nazista ebbero contatti con i tedeschi per
averne in cambio sostegno e aiuto.
Nel
complesso, tuttavia, l'assoluta enormità di quanto è accaduto tra il 1933 e il
1945 fa impallidire ogni nostra capacità di descrizione e di comprensione.
Quanto più si studiano questo periodo storico e i suoi eccessi, tanto più si è
costretti a concludere che per qualunque essere umano degno di tale nome il
massacro di tanti milioni di innocenti deve pesare con tutta la sua forza, e
non può essere altrimenti, sulle generazioni successive, di ebrei e di non
ebrei.
Per quanto
si possa convenire con ciò che scrive Tom Segev nel suo libro The
Seventh Million, quando afferma che Israele ha sfruttato l'Olocausto per
ragioni politiche, può esservi poco dubbio che la memoria collettiva di quella
tragedia e il fardello di paura con il quale essa grava oggi sulle spalle di
tutti gli ebrei non si debbono minimizzare; certo, nella storia umana vi sono
stati altri massacri collettivi (indiani d'America, armeni, bosniaci, curdi,
ecc...), ed è certamente vero che alcuni di tali massacri non sono stati
sufficientemente riconosciuti dai loro esecutori né adeguatamente risarciti, ma
non vi è alcun motivo, a mio parere, per non piegarsi, pieni di orrore e di
paura, davanti alla tragedia del tutto speciale che ha travolto il popolo
ebraico.
I N
PARTICOLARE, come arabo, ritengo importante riuscire a comprendere questa
esperienza collettiva, e nella maniera più dettagliata di cui siamo capaci: un
atto di comprensione, questo, che rassicura circa l'umanità di ciascuno e
stabilisce che una catastrofe del genere non debba più venir dimenticata né
debba mai più ripetersi.
Una simile
immagine della sofferenza del popolo ebraico ha potuto avvalersi di
commentatori arabi durante il processo ad Adolf Eichmann in Israele nei primi
anni '60, quando il processo in questione venne usato da Israele per far
conoscere tutti gli orrori del genocidio nazista. Commentatori appartenenti
alle falangi della destra libanese hanno sostenuto a gran voce che l'intera
faccenda era propaganda priva di fondamento, ma altrove, sulla stampa araba del
tempo (in Egitto e sulla stampa libanese conservatrice) l'affare Eichmann venne
riportato con tutta la giusta considerazione spettante agli spaventosi eventi
accaduti in Germania in tempo di guerra. Eppure, secondo uno studio del
periodo, condotto da Usama Makdisi, giovane storico libanese, presso la Rice
University di Huston, Texas, i resoconti arabi del processo giunsero alla
conclusione che sebbene ciò che era stato fatto agli ebrei in Germania fosse
senza dubbio un crimine contro l'umanità, quello commesso da Israele, e cioè
aver privato e scacciato un intero popolo, fosse un crimine non meno grave, e
dello stesso tipo.
Makdisi
arrivò alla conclusione che non vi era alcun tentativo di porre sullo stesso
piano l'Olocausto e la catastrofe palestinese, ma solo che, giudicate secondo
gli stessi parametri, Israele e Germania erano ambedue colpevoli di crimini
scellerati di grandezza spaventosa. La mia sensazione è che forse il processo
Heichmann si sia rivelato utile agli arabi nel corso delle battaglie
psicologiche degli anni '60 come mezzo per far rilevare la durezza di Israele
nei confronti degli arabi e non particolarmente come tentativo di far conoscere
ai lettori arabi i dettagli dell'esperienza ebraica.
D I
TUTTO QUESTO ho già parlato un un articolo sulla coesistenza, perchè questo
problema sottolinea l'ironia storica dell'attuale momento di stallo, che forse
soltanto gli arabi e gli ebrei della diaspora sono in grado di comprendere in
pieno e in un certo senso di trascendere. Al momento non vi è alcuna pace
reale, cosa che tutti, ad eccezione degli osservatori più ostinati e ingenui
dovranno ammettere. Come ho già affermato in un mio precedente articolo
(comparso sul numero speciale del Manifesto, il 19 dicembre scorso)
il comportamento recentemente assunto da Israele e rappresentato dalla
brutalità stravagante, ma regolarmente mai derivante da provocazioni, di
Netanyahu, si esprime in una linea di continuità che ha origine nei primi
lontani giorni di vita del paese, durante i quali il disprezzo, il dispiegarsi
del potere grossolano e della sistematica brutalità esercitata nei confronti
dei Palestinesi rappresentava il presupposto centrale.
Da un lato
questa deplorevole strategia politica non giustifica in alcun modo i tentativi
retrospettivamente compiuti dagli israeliani o dai palestinesi di usare
l'Olocausto per assolvere la crudeltà di Israele o per liquidare l'Olocausto
stesso come evento totalmente irrilevante o addirittura non plausibile. Il
cinismo non è di nessun aiuto: come disse una volta Oscar Wilde, il cinico
conosce il prezzo di ogni cosa ma non conosce il valore di niente. Noi possiamo
dimostrarci tanto impazienti verso l'atteggiamento israeliano circa la
"sicurezza psicologica" quanto verso i recenti tentativi degli arabi
di arruolare personaggi quali l'abietto Roger Garaudy al fine di gettare il
dubbio sui sei milioni di vittime. Nessuno dei due fa progredire la causa della
pace, o quella della reale coesistenza tra popoli la cui parte di sofferenza
storica li unisce inestricabilmente.
E PPURE,
SE SI ECCETTUANO alcuni intellettuali ebrei qua e là, ad esempio il rabbino
americano Marc Ellis, o il professor Israel Chahak, le riflessioni sulla triste
storia dell'antisemitismo e sulla solitudine degli ebrei, da parte di pensatori
ebrei, oggi, si è dimostrata del tutto inadeguata. Questo perché è necessario
stabilire un legame tra ciò che è accaduto agli ebrei durante la Seconda Guerra
Mondiale e la catastrofe che ha colpito i Palestinesi; ma tale connessione non
può essere stabilita solo sul piano retorico o come argomentazione volta a
demolire o sminuire il vero contenuto sia dell'Olocausto che del 1948.
Nessuno dei
due eventi è simile all'altro. Allo stesso modo, nessuno dei due può giustificare
la violenza di oggi. Infine, né l'uno né l'altro debbono venire minimizzati.
C'è abbastanza sofferenza e ingiustizia per tutti. Ma a meno di stabilire una
connessione tale per cui si consideri la tragedia ebraica come l'evento
direttamente responsabile della catastrofe palestinese attraverso qualcosa che
chiameremo "necessità" (anziché pura volontà), non potremo coesistere
come due comunità segnate da sofferenze che le rendono separate e tra loro non
comunicanti.
Il
fallimento della Conferenza di Oslo è consistito nel pianificare, in termini di
separazione, una divisione oggettiva di popolazioni in entità individuali ma
diseguali, anziché riuscire a cogliere il fatto che il solo modo per elevarsi
oltre quell'infinito andirivieni di violenza e disumanizzazione consiste
nell'accettare l'universalità e l'integrità dell'esperienza dell'altro, e
cominciare a progettare una vita comune, insieme.
Non riesco
in alcun modo 1) a non considerare gli ebrei di Israele realmente e
in misura decisiva come la conseguenza permanente dell'Olocausto, e 2) a non
richiedere loro, al tempo stesso, il riconoscimento di ciò che hanno fatto ai
palestinesi durante e dopo il 1948. Questo significa che come palestinesi noi
esigiamo da loro considerazione e risarcimento senza in alcun modo minimizzare
la loro storia di sofferenza e di genocidio. Si tratta del solo riconoscimento
reciproco che valga la pena di ottenere, e il fatto che gli attuali governi e
governanti siano incapaci di simili gesti sta a testimoniare la povertà di
spirito e di immaginazione che ci affligge tutti. E' questo l'ambito in cui
ebrei e palestinesi che vivono fuori dalla Palestina storica possono giocare un
ruolo costruttivo, ruolo impossibile a coloro che vivono all'interno di questo
territorio, sottoposti alla pressione quotidiana esercitata dall'occupazione e
dal confronto dialettico. Il dialogo deve aver luogo al livello che ho qui
esposto, e non su problemi degradati di strategia e di tattica politica.
Quando si
considerano le ampie linee di pensiero della filosofia ebraica che vanno da
Buber a Levinas e ci si rende conto della quasi totale assenza di riflessione
sulla questione palestinese, ci si accorge di quanto cammino rimanga ancora da
fare. Quella che si desidera, pertanto, è una idea di coesistenza che sia
rispettosa delle differenze tra ebrei e palestinesi, ma che sia anche
rispettosa verso la storia comune della diversa lotta e della diversa
sopravvivenza che li lega.
NON
PUO' ESSERVI più alto imperativo etico e morale delle discussioni e dello
scambio dialettico su questo. Noi dobbiamo accettare l'esperienza ebraica con
tutto ciò che essa comporta di orrore e di paura; ma al tempo stesso dobbiamo
esigere che alla nostra esperienza venga data una attenzione non minore o forse
che essa venga riportata su un diverso livello di attualità storica. Chi
vorrebbe mai porre sullo stesso piano, dal punto di vista morale, lo sterminio
di massa con l'espropriazione di massa? Sarebbe sciocco persino tentare di
farlo. Ma le due cose pur essendo del tutto diverse, sono decisamente legate
fra loro, nella lotta per la conquista della Palestina, che è stata così
intransigente, con elementi così inconciliabili tra loro.
Mi rendo
conto del fatto che parlare di priorità delle sofferenze degli ebrei, in un
momento in cui le nostre case vengono abbattute, in cui la nostra esistenza
quotidiana è ancora soggetta alle umiliazioni e alla prigionia che ci viene
imposta da Israele e dai suoi numerosi sostenitori in Europa e soprattutto
negli Stati Uniti, potrà apparire come una sorta di insolenza. Non accetto
l'idea che togliendoci la nostra terra il sionismo abbia riscattato la storia
degli ebrei, e non riesco nemmeno ad accettare l'idea della necessità di
privare della propria terra tutto il popolo palestinese. Ma riesco ad ammettere
l'idea che le distorsioni create dall'Olocausto abbiano generato distorsioni
nelle sue vittime, e che tali distorsioni si riproducano oggi nelle vittime del
sionismo stesso, e cioè i palestinesi.
COMPRENDERE
quanto è accaduto agli ebrei in Europa sotto i nazisti significa riuscire a
capire quanto vi sia di universale nell'esperienza umana quando è sottoposta a
condizioni disastrose. Vuol dire compassione, comprensione umana, e un assoluto
ritrarsi dall'idea di uccidere per ragioni etniche, religiose o nazionaliste.
A tale
comprensione e compassione non mi sento di porre condizioni di alcun genere:
sono sentimenti che si provano perché tali, e non per trarne un vantaggio
politico. Eppure un simile passo avanti in termini di consapevolezza da parte
degli arabi dovrebbe essere accolto da un analogo desiderio di compassione e di
comprensione da parte degli israeliani e dei sostenitori di Israele, i quali si
sono impegnati in ogni possibile forma di negazione e di espressione di
non-responsabilità difensiva ogni volta che si è arrivati al problema del ruolo
centrale esercitato da Israele nella storica privazione della terra, da noi
subita come popolo. Tutto ciò è davvero ignobile. Ed è del tutto inaccettabile
limitarsi a dire (come fanno tanti sionisti liberali) che faremmo bene a
procedere verso la creazione di due stati separati dimenticando senz'altro il
passato. La cosa è tanto insultante per la memoria ebraica dell'Olocausto
quanto lo è per i palestinesi che continuano a venire privati dei loro territori
da parte di Israele.
LA QUESTIONE
fondamentale è che le esperienze di ebrei e palestinesi sono storicamente e
organicamente legate fra loro. Volerle tenere separate significa falsificare
ciò che vi è di autentico in ciascuna di esse. Affinché possa esservi un futuro
comune noi dobbiamo pensare le nostre storie legate fra loro, per quanto
difficile la cosa possa apparire. E quel futuro dovrà comprendere arabi ed
ebrei, insieme, liberi da ogni progetto tendente all'esclusione, basato sulla
negazione, che miri a escludere uno dei due contendenti per mezzo dell'altro,
sia dal punto di vista teorico che da quello politico. E' questa la vera sfida.
Tutto il resto è assai più facile.
(traduzione
di Maria
Antonietta Saracino)
https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/1998002263
…Vorrei accennare, inoltre, a un altro aspetto
fondamentale della causa palestinese e dell'intero popolo arabo: la dignità. Il
punto fondamentale che va messo in luce è la larghissima forbice che divide la
nostra società dai pochi che ci comandano. Questi sembrano sottostimare se
stessi e le loro nazioni, paurosi di aprirsi al loro popolo e terrificati
d'irritare il fratello maggiore, gli Stati Uniti. Perché la collettività degli
arabi non ha strillato il suo «no» contro l'intervento americano in Iraq?
Contro le follie di Bush e del suo potere ricevuto da Dio, nessun leader arabo
ha avuto il coraggio, come un leader di un grande popolo, di dire che noi
abbiamo le nostre tradizioni e la nostra religione? Dov'è il supporto arabo,
politico, economico e diplomatico, per sostenere un movimento anti-occupazione
nella West Bank e a Gaza?
Forse la cosa che più mi colpisce dell'incapacità
araba di dare dignità alla causa palestinese è la situazione in cui è caduta
l'Anp. Abu Mazen, una figura di secondo rilievo con scarso peso anche tra i
suoi, è stato scelto da Arafat, Israele e Stati Uniti proprio per la sua
inconsistenza. Non è né un oratore né un grande organizzatore, e ho paura che
esaudirà i desideri di Israele senza occuparsi di quelli del suo popolo. Un
uomo che al vertice di Aqaba parlava come il pupazzo di un ventriloquo, che
leggeva discorsi scritti dal nemico. Lentamente sembra, però, che le cose
stiano cambiando e che Abu Mazen e Abu Ammar (Arafat ndt), nelle
aspettative popolari, stiano per essere rimpiazzati da nuovi leaders e forze
emergenti. La più promettente è formata dai membri dell'Iniziativa Nazionale
Palestinese (di Mustafà Bargouti, n.d.r.), le cui attività hanno radici
profonde nelle classi lavorative, e tra i giovani intellettuali. Offrono
servizi sociali ai disoccupati e assistenza sanitaria nei campi profughi. Sono
queste iniziative che rivelano la dignità e la giustezza della nostra
battaglia, che viene appoggiata da persone di tutto il mondo, tra cui Rachel
Corrie.
* Da The alternative information center(trad.
di Pier Mattia Tommasino)
https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003032109 1-7-2003
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