Li avevamo lasciati così, mano nella mano, buttando una monetina nella Fontana di Trevi, e a lasciarsi andare a un profluvio di aggettivi enfatici: “accordo storico, che garantisce regole fiscali eque, moderne ed efficaci”, fine della “corsa verso il basso” nella competizione fiscale fra Stati, finalmente le multinazionali pagheranno tutte le tasse che devono, dove devono, etc.
Erano i leader dei paesi del G20,
a Roma, lo scorso ottobre, che festeggiavano l’accordo politico raggiunto un
paio di settimane prima (8 ottobre 2021) a livello di negoziati OCSE intitolato
“Soluzione in 2 pilastri per
rispondere alle sfide fiscali derivanti dalla digitalizzazione dell’economia”. Si trattava di definire, attraverso un accordo a
livello internazionale fra 137 paesi, un nuovo sistema di tassazione per i
gruppi multinazionali, cioè quei gruppi di imprese capaci di spostare le
proprie attività e i propri profitti da un angolo all’altro del pianeta alla
ricerca di vantaggi salariali, normativi e fiscali; una risposta in particolare
(ma non solo) agli scandali degli anni precedenti dei giganti del digitale
(Google, Apple, Facebook, etc.) che attraverso complessi schemi societari – il
più celebre conosciuto con il nome di Double Irish with a Dutch Sandwich – riuscivano spesso a sottrarre completamente da
imposizione una larga parte dei loro profitti.
·
L’accordo OCSE si compone di due parti, che di fatto viaggiano
separate. Il primo pilastro riguarda il “dove”: per i gruppi multinazionali con
fatturato superiore ai 20 miliardi di euro e una redditività pari almeno al
10%, l’accordo prevede una “redistribuzione dei diritti di tassazione” fra i
vari paesi, basato essenzialmente sulle vendite effettuate in ogni paese; in
altre parole, a prescindere dal paese dove risiede l’impresa (o dove
artificialmente sposta i propri profitti), questa pagherebbe una quota delle
proprie imposte nei vari paesi dove sviluppa il proprio fatturato.
·
Il secondo pilastro riguarda il “quanto”: i gruppi
multinazionali (in questo caso con un fatturato consolidato superiore a 750
milioni di euro) devono verificare il livello di tassazione effettivo pagato
dalle proprie imprese in ogni giurisdizione, assicurando che questo sia pari
almeno al 15%; il riferimento come detto è al livello di tassazione effettivo,
e non nominale, prendendo quindi in considerazione tutti gli sconti fiscali di
cui le imprese possono usufruire; se tale livello è inferiore al 15%
(calcolandolo separatamente per ogni paese), la capogruppo dovrà quindi pagare
una imposta addizionale. La parte addizionale versata affluirebbe al fisco del
paese ove risiede la società capogruppo.
Giova chiarire che né il primo né
il secondo pilastro fanno emergere nuovo materiale imponibile: Pillar 1 lo
redistribuisce fra diversi Stati, Pillar 2 assicura che abbia un livello di
tassazione minimo; in ogni caso, si tratta di un qualcosa che almeno
formalmente è già stato tassato
Se queste erano le premesse
dell’accordo, cosa è successo ad oggi?
Per quanto riguarda il primo
pilastro, si prevedeva di arrivare a un accordo definitivo entro la fine del
2022, che sarebbe entrato in vigore a tappe successive fra il 2023 e il 2024;
le trattative però procedono con difficoltà, su aspetti essenziali che non
permettono ad oggi una valutazione definitiva dell’accordo: la “redistribuzione
dei diritti di tassazione” riguarderà infatti solamente una quota dei profitti
del gruppo, definita “in eccesso” rispetto a un profitto “normale”, mentre il
profitto “normale” continuerebbe ad essere colpito soltanto nel paese in cui la
multinazionale ha sede. Proprio la definizione, la quantificazione e le
modalità di calcolo di questo “eccesso” sono però ancora oggetto di
negoziazione, così come le diverse clausole di salvaguardia che certamente ci
saranno, e quindi è difficile ad oggi capire l’impatto reale. Ciò che è certo,
è invece l’impegno assunto nel frattempo da quei paesi (fra cui l’Italia) che
avevano istituito negli anni passati imposte nazionali sui servizi digitali che
avevano la stessa finalità, e cioè tassare le impese che realizzano vendite nei
confini domestici (e quindi generano dei profitti, che erano di fatto non
imponibili in Italia in quanto realizzati da imprese non residenti e/o
artificialmente trasferiti altrove); ebbene, le varie iniziative nazionali
dovranno essere smantellate contestualmente all’avanzamento del nuovo accordo,
come prontamente annunciato da questi paesi appena pochi giorni dopo l’accordo
di ottobre. L’altra cosa certa, inoltre, è che parte del gettito che verrà dal
primo pilastro è stato già “opzionato” dalla UE, e andrà a fare parte delle “risorse proprie”
dell’Unione.
Per quanto riguarda il secondo
pilastro, le cose sono andate più avanti: a fine dicembre sono state pubblicate
le Model Rules, cioè le “regole” di funzionamento che gli Stati dovranno poi
tradurre nelle legislazioni nazionali (l’OCSE infatti può solamente emanare
delle linee guida, senza valore vincolante), e questo ci permette di capire
meglio come funzionerà. Il sistema si basa su due regole, chiamate GloBE
Rules: la norma primaria (Income Inclusion Rule – IIR) prevede
che – una volta verificato il livello di tassazione effettivo (ETR –
Effective Tax Rate) in ogni paese in cui sono presenti le società del gruppo
– la capogruppo calcoli una Top-up Tax con un’aliquota pari alla
differenza fra il 15% e l’ETR (tassazione effettiva) calcolato per ogni paese,
versando la relativa imposta nel paese dove risiede la capogruppo. Qui però
cominciano gli imbrogli: infatti tale imposta non andrà calcolata sull’intero
reddito effettivamente realizzato nel paese a bassa (o nulla) tassazione, ma da
questo andrà sottratta una quota (all’inizio del 10%, poi nel corso degli anni
a scendere fino al 5%) di rendimento “standard” (chiamato carve-out)
calcolato sul totale delle retribuzioni pagate in quel paese nonché sul valore
dei beni materiali posseduti in quel paese. In altre parole (la matematica è
un’opinione…) in quel 15%, quindici fa quindici, ma cento non fa cento! Detto
in altri termini: la base imponibile su cui l’imposta verrebbe calcolata
andrebbe ad abbassarsi drasticamente e con essa il valore totale dell’imposta
stessa.
Ma cosa succede se la capogruppo
risiede in un paese che non aderisce a questo accordo, e quindi non applica la
norma prima Income Inclusion Rule? In questo caso entra in gioco
la regola secondaria (UnderTaxed Profit Rule – UTPR): una volta
calcolata la Top-up Tax complessivamente dovuta, questa sarà distribuita fra le
varie società del gruppo che la verseranno nei rispettivi paesi di residenza;
quanto dovrà essere effettivamente versato da ogni società (e quindi in ogni
paese) dipenderà ancora una volta dalla quota di lavoratori e di beni materiali
presenti in ogni paese, sul totale di quelli del gruppo multinazionale.
Ci sono poi altri due punti,
volti a governare eventuali conflitti fra gli Stati sulla distribuzione dei
proventi di questa maggiore imposta. Prima di tutto, si prevede di arrivare a
un accordo multilaterale (Subject to tax Rule) per permettere ai paesi
da cui avranno origine i flussi di tassazione di applicare delle ritenute, per
trattenere “in casa” almeno parte del gettito; si tratta di una norma di
garanzia per i paesi meno avanzati, con livelli di tassazione delle imprese
bassi (ma non paradisi fiscali) che potrebbero avere contraccolpi negativi, in
quanto è difficile che ospitino società “madri” di gruppi multinazionali.
Inoltre, tutti gli Stati hanno la
facoltà (non l’obbligo) di istituire una “Domestic Minimum Tax”, cioè
una norma che – nel caso la società del gruppo risulti sottotassata – permetta
allo Stato di residenza di incassare direttamente l’imposta che altrimenti
sarebbe dovuta nello stato di residenza della capogruppo.
Queste regole sarebbero dovute
entrare in vigore dal 2023, ma per farlo, come detto, dovevano essere recepite
dai vari ordinamenti. Ed anche su questo aspetto tutto pare bloccato, almeno
nelle economie principali.
Da una parte ci sono gli Stati
Uniti, dove dal 2017 c’è una imposta simile (denominata GILTI, cui le regole
OCSE si sono in buona parte ispirati), che prevede che le multinazionali
statunitensi tassino in patria anche i redditi prodotti dalle loro controllate
estere. Il sistema del GILTI – molto complesso come tutta la normativa relativa
alla fiscalità internazionale – differisce però su alcuni aspetti fondamentali
dal secondo pilastro, e, per garantire l’equivalenza, l’amministrazione
statunitense aveva preso l’impegno di apportare alcune modifiche che sono ad
oggi invece lettera morta anche a causa della forte opposizione incontrata al Congresso (e rispetto alla quale
l’amministrazione Biden, nonostante i ripetuti annunci, non pare intenzionata o
essere in grado di forzare la mano).
L’altro attore importante è
l’Unione Europea, dove è stata presentata una proposta di Direttiva per
l’applicazione uniforme fra gli Stati membri; tale proposta ricalca fedelmente
le regole internazionali, meno che su un punto, laddove si prevede che la
tassazione minima si applichi non solamente ai gruppi multinazionali ma anche a
quelli “puramente domestici”, cioè composti da più imprese ma tutte residenti
nel medesimo stato (e sempre che il gruppo sviluppi un fatturato consolidato
superiore ai 750 milioni di euro); la proposta però è attualmente bloccata per
il veto espresso dalla Polonia durante l’ultimo consiglio ECOFIN dello
scorso 5 aprile, ed è verosimilmente diventata oggetto di scambi più o meno espliciti fra i vari stati membri; intanto, l’Unione Europea
ha già chiarito che la scadenza del 2023 (data prevista di entrata in vigore di
queste regole) significa 31 dicembre 2023.
Infine, la Subject to
Tax Rule (cioè la parte dell’accordo che doveva servire da garanzia
per i paesi meno avanzati) è semplicemente sparita dai radar e non se ne sente
più parlare.
Se insomma per il “risultato
storico” occorrerà aspettare ancora un po’, è già possibile farsi un’idea della
direzione verso cui si sta andando, per capire che non è quella di un sistema
fiscale più giusto e – soprattutto – più calibrato sulle esigenze delle fasce
sociali più deboli e dei lavoratori.
Prima di tutto c’è il livello
minimo dell’imposizione, fissato al 15%, ben al di sotto delle aliquote medie
cui è sottoposto il reddito di un lavoratore medio; inoltre, il meccanismo
del carve-out come detto rende anche tale soglia puramente
teorica. Diversi osservatori hanno evidenziato come tali numeri siano ben al di
sotto di quanto necessario e possibile: il Tax Justice Network ad
esempio aveva richiesto di applicare una aliquota minima del 25%, mentre l’EU Tax Observatory stima che solo il meccanismo del carve-out
comporterà un’ulteriore riduzione del gettito previsto di circa il 13% per
almeno 15 miliardi.
Del resto, la conferma più
significativa della timidezza di tale approccio viene addirittura dalla stessa
OCSE che stima in 150 miliardi di euro, a livello globale, il maggior gettito
previsto dal secondo pilastro (e tali stime spesso peccano per eccesso, e pure
di molto); una cifra certamente significativa per un singolo Stato, ma in fondo
non così elevata se rapportata a livello globale, e in particolare alla perdita
di gettito dovuta allo spostamento artificiale dei profitti che la stessa OCSE
stima in circa 250 miliardi (prescindendo dunque dal fatto che il livello di
tassazione delle imprese sia comunque inferiore a quello dei redditi dei
lavoratori).
Inoltre, è tutto da verificare se
le nuove regole effettivamente saranno capaci di porre fine alla “corsa verso
il basso” nella concorrenza fiscale internazionale; la complessità delle nuove
regole sembra lasciare parecchie vie di fuga per diminuire ancora al di sotto
di quella soglia la pressione fiscale cui i gruppi multinazionali sono
sottoposti, e questo prima ancora di confrontarci con i nuovi schemi elusivi
che inevitabilmente nasceranno.
C’è poi un ulteriore aspetto,
nascosto ma più insidioso: l’approccio scelto dall’OCSE isola il problema della
“concorrenza fiscale” dalla concorrenza tout court fra le
imprese. Isola cioè il processo di competizione fra Stati volto ad offrire
agevolazioni fiscali da quello, parallelo, finalizzato a garantire tutta
un’altra serie di misure gradite alle grandi imprese. E il tutto avviene senza
mai toccare la pre-condizione essenziale per tale tipo di concorrenza, ovvero
la possibilità di spostare liberamente, senza alcun ostacolo, capitali da un
angolo all’altro del pianeta, in modo totalmente scollegato dai luoghi dove si
produce effettivamente valore; la stessa scelta da parte dell’Unione Europea di
applicare le regole anche ai gruppi interamente domestici è stata giustificata
dall’esigenza di garantire all’interno dell’Unione la perfetta mobilità dei
capitali e il rispetto del sacro principio della concorrenza.
Facile allora prevedere che la
concorrenza basata sulla ricerca in giro per il mondo dell’aliquota fiscale
(nominale) più bassa si trasformerà nella ricerca del paese con le condizioni
migliori per minimizzare i costi delle imprese, incluso quello fiscale. Il
meccanismo del carve-out (presentato come un modo per
salvaguardare gli investimenti “veri” o – per usare la terminologia OCSE – dove
c’è sostanza economica) da questo punto di vista lascia presagire questa
dinamica: gli Stati potranno continuare a garantire sgravi fiscali che portino
la tassazione effettiva al di sotto del 15%, e poi cercare di massimizzare
l’effetto del carve-out rendendo il proprio paese gradito
agli investimenti tramite condizioni salariali vantaggiose e normative di
regolamentazione dei mercati e dell’ambiente più lassiste. In questo modo:
- le
imprese, anche se dovessero scendere a un livello di imposizione inferiore
al 15%, vedrebbero applicata la Top-up Tax su una quota minore dei propri
profitti, in quanto la base imponibile sarebbe erosa dal meccanismo carve-out;
- Gli
Stati, in caso di applicazione della UTPR, si garantirebbero una quota
maggiore della Top-up Tax da distribuire.
Un gioco, insomma, in cui gli
unici a perdere sembrerebbero essere lavoratori e territori, diventati a loro
insaputa strumento di ulteriore concorrenza fra le imprese anche ai fini
fiscali.
Infine, un’ultima
considerazione: il mondo delle imprese in Italia come in tutto il mondo e al di là di
frasi di rito su quanto sia giusto porre fine alla concorrenza fiscale
“dannosa”, ha dato avvio all’ennesimo pianto greco sulle difficoltà che ne
deriveranno in tema di complessità amministrativa, rischi di doppia tassazione,
fine degli incentivi fiscali “buoni” come quelli per ricerca e sviluppo o per
la transizione ecologica, etc. Ma (vista che il livello dell’imposta minima è
fissato al 15%, soglia che abbiamo detto essere più teorica che vera) tutta
questa paura come si concilia con il fatto che le stesse imprese riempiono
giornali e schermi con dichiarazioni sulla pressione fiscale “insopportabile”
cui sarebbero sottoposte? Ecco, un effetto positivo di queste nuove regole è
che ci apre gli occhi sul livello di tassazione “effettivo” (quindi al netto di
sgravi fiscali, crediti di imposta, investimenti agevolati, quote di redditi
esenti per i motivi più vari) delle imprese, almeno dei gruppi più grandi (ma
spesso non solo questi). E si tratta di un fenomeno che riguarda non solamente
i noti paradisi fiscali, ma anche e soprattutto le economie avanzate, Italia
compresa. Anzi, è ancora l’OCSE a dirci che nella (poco nobile) classifica dei
paesi con il maggior differenziale fra aliquota “teorica” e aliquota
“effettiva” per le imprese, l’Italia si piazza al secondo posto
dopo gli USA.
Per fare un esempio, il vicepresidente
del gruppo PD alla Camera dei Deputati (Piero De Luca, figlio del rais della
Campania) nel raccontare un proprio emendamento passato con l’ultima legge di
bilancio in merito di Zone Economiche Speciali (ZES) nel Mezzogiorno d’Italia
si compiace del fatto che “Con la nuova normativa, infatti, le Zone Economiche Speciali sono
addirittura a oggi le più convenienti in tutta Europa, con una tassazione alle
imprese che vogliono investire al 12%”.
In conclusione, la lotta per un
sistema fiscale più equo e progressivo passa certamente anche (e soprattutto)
per la capacità di colpire la grande evasione a livello internazionale, ma non
ci riusciremo andando dietro alle sirene di quelle stesse istituzioni che hanno
creato (e imposto) le condizioni che hanno reso possibile tale evasione.
D’altra parte, l’obiettivo di un sistema fiscale più giusto non potrà essere
raggiunto senza recuperare almeno in parte il controllo dei flussi di capitale
e del sistema finanziario. E se la condizione per limitare la concorrenza
fiscale è “offrire qualcosa in cambio” (ad esempio la concorrenza in ambito
salariale), beh, noi non ci stiamo.
https://coniarerivolta.org/2022/05/15/il-paradiso-puo-attendere-quello-fiscale-no/
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