Al movimento sulla sanità arrivano solo le mancette del governo - Ivan Cavicchi
Sono molto
colpito da una contraddizione: sulla sanità, come opposizione. Contro il
governo di destra, abbiamo costruito un fronte sociale e politico vasto che non
ha precedenti, al punto di fare della sanità, forse per la prima volta, una
questione davvero strategica.
Ma nonostante questo vasto schieramento, reso compatto da un comune e fin
troppo facile obiettivo prioritario, quello di rifinanziare la sanità pubblica,
i risultati sono oggettivamente asimmetrici scarsi e risibili. Così dobbiamo
ammetterlo: la nostra battaglia sul rifinanziamento della sanità, almeno per il
momento, l’abbiamo persa.
I DATI SONO IMBARAZZANTI: pochi soldi per i servizi, neanche i soldi
sufficienti per coprire i costi dell’inflazione, confermato un definanziamento
programmato negli anni a venire, una privatizzazione in continua crescita e in
aggiunta una grande beffa a danno del lavoro e degli operatori i quali, da una
parte prendono con la finanziaria la maggior parte degli spiccioli, per
rinnovare i contratti, e dall’altra si vedono tagliare retroattivamente le
pensioni quindi i diritti acquisiti.
Vorrei quindi che ragionassimo sul perché, noi così giusti forti e agguerriti,
abbiamo perso questa importante battaglia.
Sun Tzu l’autore cinese de L’arte della guerra, direbbe che pur con un esercito
agguerrito e motivato, abbiamo perso perché probabilmente, a causa dei nostri
limiti strategici, non potevamo in nessun modo vincere.
IL PRIMO LIMITE è stato quello di non aver organizzato la nostra battaglia sul
rifinanziamento della sanità per mezzo di una “piattaforma” cioè in pratica
siamo andati all’arrembaggio del governo ma senza una strategia. Rifinanziare
la sanità non è solo una questione finanziaria come sembra ma che necessita che
si costruiscano tutte le condizioni e i processi necessari utili a produrre le
risorse necessarie prima di tutto usando con intelligenza la carta della riforma
della spesa storica. Ma non l’abbiamo fatto.
Il secondo limite è stato quello di non aver contestato al governo la sua idea
sbagliata di sostenibilità sulla base della quale esso si sente autorizzato a
non finanziarci. E quindi di non aver proposto un’altra idea di sostenibilità
quella basata sulla produzione di salute come ricchezza economica. L’art 32
cioè il diritto alla salute se liberato dalle compatibilità neoliberiste può
produrre ricchezza e ridurre il costo della cura. Ma per fare ciò bisogna ripensare
parecchie cose a partire dal comparto della prevenzione In questo caso si che
avremmo messo in crisi per davvero il governo Meloni. Ma la parola
sostenibilità non è mai stata pronunciata.
Il terzo limite è pratico e pragmatico e si aggancia al precedente: alla fine
abbiamo di fatto chiesto al governo, di dare alla sanità un mucchio di soldi e
quindi di adottare una politica finanziaria incompatibile nonostante la crisi
economica.
Quindi di tirare fuori, un mucchio di soldi sull’unghia fino a chiedergli , la
parificazione della spesa sanitaria italiana alla media europea (40 mld), e il
vincolo del 7.5% della spesa sanitaria in rapporto al pil.
Neanche Keynes nelle circostanze date avrebbe osato tanto.
IL GOVERNO HA RISPOSTO picche incassando l’approvazione dell’Europa e come
risposta ci ha dato una mancetta (3 mld) perché la mancetta è la sua idea di
sostenibilità e perché la mancetta negli anni è diventata un metodo che noi
però anche con le piazze piene non abbiamo mai contestato come tale.
Il quarto limite è che nonostante le terribili contraddizioni che ha la sanità
abbiamo chiesto al governo di rifinanziarla nella sua più totale invarianza
cioè di rifinanziare tutto il carrozzone, privato compreso, quindi di
rifinanziare le sue diseconomie le sue contraddizioni e le sue criticità
Con questi chiari di luna Sun Tzu direbbe che dato il contesto di crisi, non
avremmo in nessun modo potuto vincere la battaglia perché con la propaganda le
battaglie non si vincono .
COSÌ ABBIAMO MANCATO l’obiettivo. Questo non per la sinistra ma per milioni di
persone ormai sempre più senza diritti è una cosa gravissima
Se ha ragione Sun Tzu avremmo potuto vincere ma per vincere avremmo dovuto fare
un altro genere di battaglia. Ma non l’abbiamo fatto.
La Meloni mentre distrugge la sanità pubblica a parte l’approvazione delle
agenzie di rating a sentire i sondaggi non perde voti. Questo vuol dire che la
nostra battaglia sulla sanità non è servita a niente. Se è così questa sarebbe
la nostra vera sconfitta politica
Per alcuni, compreso noi, era scontato che sulla sanità noi avremmo perso la
battaglia. Ma chiediamoci onestamente, avremmo potuto vincere? Potremmo mai
vincere battaglie tanto complesse e difficili come quella della sanità senza
una vera strategia senza un pensiero ma soprattutto senza un onesto pensiero
riformatore?
Sanità, l’ultimo
business dei privati. In appalto anche le sale operatorie -
«Ho
l’assicurazione ma se dovessi operarmi andrei nel pubblico, mi dà più
sicurezza». È un ragionamento che fanno in molti, soprattutto quando si tratta
di un intervento serio, magari al cuore o per la rimozione di un tumore. Ma
pochi, o forse nessuno, sanno della nuova tendenza dilagante nella sanità,
quella di affidare la gestione delle sale operatorie dei nostri ospedali ai
privati. Per carenza di personale, è il ritornello di Regioni e amministratori
quando si tratta di giustificare il passaggio di consegne. Salvo poi scoprire
che l’appalto dei blocchi operatori costa molto più di quanto si spenderebbe
decidendosi finalmente ad assumere il personale che manca. O anche a
riorganizzare una rete di sale operatorie, che una recente ricognizione
condotta dal ministero della Salute ha scoperto nella metà dei casi lavorare in
media al ritmo blando di appena un intervento al giorno. Tanto che sono
tantissimi gli ospedali che operano sotto i livelli standard di sicurezza,
proprio perché fanno troppi pochi interventi per acquisire sufficiente
esperienza e dimestichezza.
Ma oramai è
così, la privatizzazione strisciante non risparmia più nemmeno il tempio sacro
dei nostri ospedali: le sale operatorie.
L’ultimo ad
averle appaltate ai privati è il Policlinico di Tor Vergata, quello
dell’omonima università romana di cui era rettore il nostro ministro della
Salute, Orazio Schillaci, prima di conquistare il suo scranno nel governo
Meloni. Nonostante il buco da 100 milioni che rende rosso fuoco il bilancio del
Policlinico, il suo direttore generale, Giuseppe Quintavalle, ha appena
informato la Regione Lazio di aver dato il via libera alla proposta di Althea
Italia, azienda leader nella gestione integrata delle tecnologie biomediche,
per la ristrutturazione, l’allestimento e la gestione integrata dei blocchi A e
B, oltre che della terapia intensiva e del day surgey. Che comprende anche la
gestione delle sale, il servizio di telemedicina, l’assistenza domiciliare e la
manutenzione delle apparecchiature. Un pacchetto completo, insomma. La scelta è
stata giustificata specificando che il contratto di partenariato
pubblico-privato costituisce «uno strumento determinante per la pubblica
amministrazione», mediante il quale realizzare obiettivi strategici grazie a
una serie di incentivi. In altre parole un affare. Per chi lo sia veramente è
facile intuirlo dopo aver ascoltato le parole di Marco Scatizzi, presidente
dell’Acoi, l’Associazione dei chirurghi ospedalieri italiani: «Sicuramente il
costo degli appalti è nettamente superiore a quello del personale che
bisognerebbe assumere per far gestire al pubblico, in massima sicurezza, le
sale operatorie dei suoi ospedali. Invece stanno dilagando da Nord a Sud
contratti di servizio con società private, che a volte riguardano solo la
strumentazione, a volte anche gli anestesisti, gli infermieri di sala e persino
i chirurghi». In pratica, sottolinea il loro rappresentante, «un sistema simile
a quello dell’appalto ai gettonisti ma più in grande». Solo che così i costi
finiscono nel capitolo «beni e servizi» dei bilanci di Asl e ospedali, da anni
in crescita esponenziale proprio a causa degli appalti ai privati di vario
genere. Un escamotage costoso, che viene utilizzato dai direttori generali
delle aziende sanitarie per non sforare l’anacronistico tetto di spesa per il
personale, ancorato per legge ai livelli del lontano 2004, in più diminuiti
dell’1,4%. Un ostacolo che né questo né i precedenti governi si sono mai decisi
a rimuovere. Fatto è che la privatizzazione delle sale operatorie prosegue
sotto traccia.
Negli
ospedali pubblici di Urbino e Pergola tempo fa è partita una procedura
d’appalto triennale per la gestione di una serie di servizi, tra cui il pronto
soccorso, i punti nascita e l’assistenza medica di anestesia presso il blocco
operatorio. «Si tratta di una commistione pubblico-privato nella quale non
risulta chiara la catena di comando», denuncia la Cgil Marche. E parlando di
interventi chirurgici non è cosa da poco. Anche se l’assessore regionale
marchigiano alla Sanità, Filippo Saltamartini, smentisce che si tratti di
«privatizzazione dei reparti», definendola invece «acquisto di prestazioni
mediche». Cavilli lessicali che non cambiano troppo la sostanza delle cose.
Agli
Ospedali Riuniti di Reggio Calabria la ristrutturazione delle sale operatorie e
è stata affidata alla Ngc, alla quale viene assegnata anche la loro gestione
logistica e di approvvigionamento. La stessa società in Sicilia, al Policlinico
Paolo Giaccone di Palermo, anni fa si è accaparrata un appalto di 27 milioni di
euro nei cosiddetti «global service», poi rescisso per alcune inadempienze
sulle quali ha indagato la Procura del capoluogo. Ma per capire quanto il
fenomeno sia dilagante basta dire che la stessa Ngc vanta circa 90 nosocomi sotto
contratto.
«L’ospedale
di Voghera è al 70% in gestione ai privati», rivela il professor Scatizzi,
secondo il quale questo processo di affidamento in appalto «è in forte
accelerazione e si sta diffondendo a macchia di leopardo un po’ in tutta
Italia».
Colpa dei
vuoti in pianta organica. Ma anche della cattiva gestione di quel che abbiamo
nel pubblico. Recentemente l’Agenas, l’agenzia pubblica per i servizi sanitari
regionali, ha presentato il nuovo Piano esiti dei nostri ospedali, dove a causa
dello spezzatino che si fa delle sale operatorie, in molti casi non si
raggiunge la soglia di sicurezza in termini di interventi eseguiti in corso
d’anno. Per il by-pass coronarico ad esempio solo il 24% delle strutture supera
la soglia di sicurezza dei 200 interventi l’anno. E il dato è anche in netto
peggioramento. Per la frattura al femore un ospedale su quattro fa così pochi
interventi da mettere a rischio la gamba dei propri pazienti, mentre il 23%
delle strutture è sotto gli standard per il tumore alla mammella e 163 ospedali
non arrivano a fare 10 interventi l’anno di rimozione del tumore al fegato,
considerati una soglia minima.
Storture di
una organizzazione pensata per far fregare le mani ai privati. Anche a
discapito della sicurezza degli assistiti.
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