Il disegno
di legge che istituisce la “filiera formativa tecnologico-professionale” mi ha
fatto sorgere – e con prepotenza – un dubbio: che non sia stato scritto con
l’ausilio dell’intelligenza artificiale? Gran parte del testo mi pareva di
averlo già letto in precedenza, da altre parti. Persino Giuseppe Fioroni, il
più umile dei “riformatori scolatici” nostrani, quello che aveva dichiarato di
voler “usare il cacciavite”, aveva immaginato “poli tecnico-professionali”,
organismi di natura consortile formati da tre componenti: istituti tecnici e
professionali, strutture formative accreditate per il conseguimento di
qualifiche (gli attuali percorsi triennali) e istituti tecnici superiori che
avrebbero dovuto essere l’evoluzione degli Ifts. Da Berlinguer a Renzi il
tentativo di “riformare” tecnici e professionali, rendendoli adeguati alle
richieste del mercato del lavoro e riducendo il tempo-scuola, è andato avanti,
ancorché a rilento.
Nella
“riforma” Valditara ho cercato invano idee nuove, prospettive inconsuete nate da una
analisi spregiudicata della realtà scolastica esistente e, purtroppo, ho
trovato una ripetizione di luoghi comuni che, da almeno un quarto di secolo,
vengono ripetuti da coloro che dovrebbero governare la scuola. I primi sono,
per così dire, di ordine generale e si riassumono in due affermazioni
categoriche. La prima: gli istituti tecnici e i professionali non sono scuole
di serie B (quindi, debbono diventare scuole di serie A). La seconda: c’è
un mismatch, una mancata corrispondenza tra formazione e richieste
del mondo del lavoro e a questo bisogna porre rimedio se si vuole diminuire il
dato preoccupante della disoccupazione giovanile. L’una e l’altra affermazione,
in apparenza così sensate, sono invece infondate.
Le attuali
“scuole di serie A” (sostanzialmente i licei, come rileva anche l’ultimo
rapporto Invalsi) sono tali perché frequentate dai figli delle classi più
abbienti e più colte. I dati sono incontestabili e forniti da varie indagini: è
la famiglia che orienta verso la scelta della scuola superiore e, in gran
parte, contribuisce al successo scolastico dei figli. E lo stato della famiglia
di provenienza incide per tutta la durata degli studi: «tra i figli di
genitori con la laurea, il 75% ha la probabilità di laurearsi a sua volta. Dato
che scende al 48% tra chi ha alle spalle una famiglia dove il titolo di studio
massimo è il diploma e al 12% se i genitori hanno la licenza media» (https://www.openpolis.it/in-italia-il-titolo-di-studio-dei-figli-dipende-troppo-spesso-da-quello-dei-genitori/). La scuola, insomma, non è
in grado di colmare il divario di partenza. Ma potrebbe farlo se, nelle
prime fasi della scolarizzazione, si tenesse davvero conto di quel motto tanto
citato quanto disatteso: “dare di più a chi ha di
meno”. Ne consegue che, in una società sempre più marcata dalle
diseguaglianze come la nostra, professionali e tecnici non potranno diventare
“scuole di serie A” magicamente e che le differenze tra le scuole superiori
verranno appianate soltanto quando la scelta della scuola verrà determinata
dall’inclinazione dello studente e non dalla collocazione sociale della sua
famiglia. Da questo traguardo siamo molto distanti.
Passiamo al
secondo assioma (e anche qui siamo di fronte alla pedissequa ripetizione di un
luogo comune): il mismatch tra formazione scolastica e mondo
del lavoro sarebbe all’origine dell’alta percentuale di disoccupazione giovanile
in Italia. Si tratta di una bugia grossolana ma che, a forza di essere ripetuta
da decenni e da più parti, rischia di assumere il colore della verità. Invece
di individuare le cause della disoccupazione giovanile in dati strutturali (la
totale e pluridecennale mancanza di politiche del lavoro volte ad arginare la
precarizzazione e la diminuzione di posti di lavoro, gli effetti sciagurati
connessi all’allungamento della vita lavorativa etc.) si individua
nella scuola la vera colpevole. Ma io so che, secondo l’Istat, nel
decennio 2012-2021, sono andati via dall’Italia circa 337mila giovani tra i 25
e i 34 anni; di essi oltre 120 mila al momento della partenza erano laureati.
Pur tenendo conto dei rimpatri, il saldo è sempre negativo; nel periodo
considerato sono espatriati oltre 79mila giovani laureati. Come mai? A causa
del mismatch o a causa dell’impossibilità di trovare
un’occupazione dignitosa?
So anche
che a metà degli anni Ottanta persino i diplomati tecnici con punteggio
minimo ricevevano (almeno nelle zone industrializzate) in tempi brevi numerose
proposte di colloquio dalle aziende e, in tempi altrettanto brevi, trovavano un
posto di lavoro stabile e quasi sempre adeguato alla loro qualifica. Poi
arrivarono gli anni Novanta e la parola “flessibilità” prese il sopravvento, le
tutele per i lavoratori diminuirono (e con esse le retribuzioni) e si cominciò
a parlare con insistenza sempre maggiore di long life learning connesso
al lavoro. Chi aveva il potere (industria e Governo, con l’appoggio
di intellettuali neoliberisti mainstream) disegnava il profilo di
un lavoratore “flessibile” (cioè precario) e pronto ad adeguarsi alle nuove
richieste del datore di lavoro. Non ci vuol molto a comprendere che qui non si
sta parlando di “posti di lavoro ad alta qualifica”; questi vengono sempre
sbandierati, ma già nel 2007 Luciano Gallino (tra i maggiori sociologi italiani) metteva in
rilievo come il mercato del lavoro di allora offrisse prevalentemente posti di
lavoro a bassa qualifica. Saltabeccare da una mansione all’altra
(eufemisticamente detto “flessibilità”) è possibile a condizione che ci si
occupi di mansioni esecutive, va da sé. A meno che non si faccia il manager.
Per occultare la mancanza di serie politiche economiche e del lavoro – la cui
debolezza ha portato a questa situazione – è stato necessario trovare una
giustificazione all’inaccettabile tasso di disoccupazione giovanile. La
scuola, che non preparerebbe al lavoro futuro, svolge così la funzione di capro
espiatorio.
Il terreno
per sottrarre alla scuola la sua vera funzione – istruire ed educare – è stato
dissodato dalle classi dirigenti europee almeno dall’inizio degli anni Novanta. Ci limitiamo a ricordare l’incipit del
Libro bianco di Edith Cresson Insegnare e apprendere. Verso una società
conoscitiva (1995): «Le mutazioni in corso hanno incrementato le
possibilità di ciascun individuo di accedere all’informazione e al sapere.
Tuttavia, al tempo stesso, questi fenomeni comportano una modifica delle
competenze necessarie e del sistemi di lavoro che necessitano notevoli
adattamenti. Per tutti questa evoluzione ha significato più incertezza. Per
alcuni si è venuta a creare una situazione di emarginazione intollerabile.
Sempre più la posizione di ciascuno di noi nella società verrà determinata
dalle conoscenze che avrà acquisito. La società del futuro sarà quindi una
società che saprà investire nell’intelligenza, una società in cui si insegna e
si apprende, in cui ciascun individuo potrà costruire la propria qualifica».
Non è
necessario essere raffinati ermeneuti per comprendere cosa non va in queste
affermazioni. Una “evoluzione” che dà a tutti la possibilità di accedere al
sapere e all’informazione, come può generare “incertezza” o addirittura “creare
una situazione di emarginazione intollerabile”? Risulta chiaro che, invece, non
tutti possono davvero accedere al sapere, considerato in queste righe, secondo
una visione neoliberista, non un patrimonio sociale ma un bene di cui
l’individuo in quanto tale, sgomitando, si può appropriare. Ed ecco
chiaro cosa c’è che non va: ridurre la scuola a una pura propedeutica per il
lavoro futuro comporta uno snaturamento radicale dell’istituzione. Ma
questo non importa a chi vuole avere manodopera formata e a basso costo; anzi,
i padroni del vapore (perché il capitalismo italiano non si distanzia da tale
bozzettistico e arcaico modello) plaudono ad ogni tentativo di “riforma”
scolastica che vada nella loro direzione.
L’ultimo
tentativo di far sì che la metà degli istituti superiori italiani (tecnici e
professionali) siano asserviti al mercato del lavoro, porta quindi la firma di
Valditara. Non vale la pena di considerare i dettagli, che forse saranno
destinati a cambiare. I passaggi più significativi concernono la riduzione
del numero di anni di studio: si passa da cinque a quattro. Ma niente
paura: il grado di istruzione dei giovani, ci assicurano, non calerà. Ancora
una volta il pensiero magico si impone. Quanto ad abbreviare il percorso di
studi superiori il disegno di legge non è così coerente: si afferma che,
concluso il percorso quadriennale gli studenti potranno «sostenere l’esame di
Stato presso l’istituto professionale, statale o paritario, assegnato
dall’Ufficio scolastico regionale territorialmente competente, in deroga al
previo sostenimento dell’esame preliminare». Si troveranno perciò, dopo quattro
anni accanto a loro compagni che hanno frequentato un anno più di loro. Non
comprendo perché “professionale” e non “tecnico”, ma non importa. Lasciamo pure
perdere la domanda di buon senso: chi li preparerà per l’esame del quinto anno?
Ma una via
d’uscita c’è: gli studenti, finito il percorso quadriennale, potranno
accedere agli ITS Academy, caldeggiati a suo tempo da Draghi. Il rapporto Indire 2023 fornisce i dati relativi a
nove anni di monitoraggio (dal 2013 al 20021) dei corsi post-diploma: su un
totale di 36.562 iscritti si sono diplomati in 27.892 e 22.827 hanno trovato un
impiego (per oltre il 91% coerente con il percorso di studi), mentre 5.065
risultavano non occupati. La percentuale di occupati è quindi dell’81,8%,
quella dei non occupati (19,2%) non si discosta di molto dalla percentuale
relativa alla disoccupazione giovanile (22,1% a dicembre 2022). Ci saremmo
aspettati la piena occupazione, visto il numero relativamente basso di
diplomati ITS! Sorge il sospetto che qualcuno ci stia raccontando una cosa per
un’altra o che, ipotizzando percorsi fantasmagorici in cui si intrecciano come
in un arabesco ITS Academy, IeFP (percorsi di istruzione e formazione
professionale), IFTS (percorsi di istruzione e formazione tecnica), “reti,
denominate «campus»”(?) tutti volti a costruire la complicata architettura
della “filiera formativa tecnologico-professionale” voglia in realtà distrarci
dal leggere il comma 9 dell’articolo 1 del disegno di legge in
questione. Arrivare sino al comma 9 è un’impresa, ma
leggiamo: «All’attuazione delle disposizioni del presente articolo si
provvede nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili
a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri a carico della
finanza pubblica». Siamo di fronte ad una ennesima
“riforma” a costo zero”! Ma non disperiamo: lo Stato vuole investire i soldi
dei cittadini dove serve. Ce lo chiarisce l’articolo 2, dedicato alla
“struttura tecnica per la promozione della filiera formativa
tecnologico-professionale”. Anche questo senza oneri per lo Stato?
Macché: «Per le finalità di cui al presente articolo, è autorizzata la
spesa di 815.228 euro».
Vogliamo
ancora mettere in luce un’altra bella pensata: nella futura filiera si prevede
«la stipula di contratti di prestazione d’opera per attività di insegnamento
con soggetti del mondo del lavoro e delle professioni»: detto più
brutalmente, le industrie cercheranno di provvedere, loro sì a costo
zero, alla formazione dei potenziali neo-assunti e lo Stato pagherà “esperti”
gentilmente “prestati” dalle suddette aziende, affinché svolgano
attività di insegnamento. C’è da meravigliarsi se Confindustria plaude a questo
disegno sconclusionato, le cui fonti possono rintracciarsi in tutti i progetti
di riforma dei tecnici e dei professionali ad esso precedenti?
Il rapporto
Indire 2023 ci informa inoltre che «gli ITS Academy oggi propongono un modello
organizzativo e didattico basato su tre parole chiave: flessibilità, agilità e
autonomia». Si vede che all’Indire quella “coscienza critica” che i nostri
studenti dovrebbero sviluppare è ben lungi dall’essere raggiunta. L’ultimo
quarto di secolo ha illustrato quali siano i danni della “flessibilità” e della
(presunta) auto-organizzazione (agilità) nel mondo del lavoro, dell’“autonomia”
nella scuola. Così il cerchio si chiude e, come un rospo, la verità viene sputata
fuori: il disegno di legge in questione è regressivo, vuol porre rimedio a un
problema che affonda le proprie radici nello sfruttamento e nella
dis-valorizzazione del lavoro dipendente, le cui cause non sono certo da
cercare nei percorsi scolatici. Questi però sono effettivamente inadeguati,
poiché circa la metà dei nostri diplomati esce dalle scuole, soprattutto
tecniche e professionali, senza essere in grado di comprendere un articolo di
giornale. Un bel problema, che non si risolve sottraendo tempo all’istruzione e
incrementando l’addestramento al lavoro futuro.
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