“Se fossi oggi al potere cercherei subito di dotare le nostre principali città di tutto ciò che è connesso all’arte e alla civiltà al più alto livello raggiungibile da ciascun cittadino.”1
Qualcuno potrebbe ipotizzare che queste parole furono pronunciate da un
grande critico d’arte o da un filosofo o magari da un poeta, invece queste
parole uscirono dalla bocca di John Maynard Keynes nel 1933 , uno dei più
grandi economisti della storia. Keynes probabilmente le pronunciò intendendo
smentire, da un punto di vista molto economico, la vulgata popolare del “con la
cultura non si mangia”. Le sue parole hanno certamente una sfumatura di “scava
la buca e riempi la buca, l’importante è che si crei occupazione”. Keynes era
infatti un fervido sostenitore delle politiche di pieno impiego di uomini,
risorse e mezzi. Quindi la frase citata sopra rientra benissimo in questa
ottica, ma non solo questo. Dal mio punto di vista sento che queste parole
racchiudano anche una aspirazione umana alla bellezza ed alla verità. Anche in
un grande economista, tutto grafici e modelli predittivi, si apre uno squarcio
di poesia, forse uno dei primi squarci di un nuovo tipo di economia.
Qual è l’obiettivo dell’economia? Produrre beni in modo efficiente? Far
girare soldi (ormai questa sembra essere prerogativa della finanza predatoria)?
Azzerare la disoccupazione? Redistribuire la ricchezza? Qual è il fine
dell’economia? E direi anche: qual è il fine dell’uomo?
La storia continua. Keynes in un’altra conferenza del 1931 affermò:
“Mano a mano che i mutamenti tecnologici rendono possibile una data
produzione di beni di ogni sorta con una quantità decrescente di sforzi umani,
ancora, noi dovremmo aumentare per sempre il livello di benessere economico.
[…] se ogni cosa procedesse liscia in una società ben governata, ci
condurrebbe, nello spazio di alcune generazioni, all’abolizione completa della
necessità economica.”2
Keynes sembra vedere un “mondo migliore”, sembra credere realmente che lo
sviluppo tecnologico possa portare ad un miglioramento reale delle condizioni
di vita di tutti. Con il senno del poi, questa ultima citazione appare molto
ingenua, abbiamo visto come i giganteschi passi avanti della tecnica abbiano
portato per lo più ad uno sfruttamento ancora più intensivo di risorse e
manodopera, ad un controllo sociale ancora più capillare e pervasivo ed ad un
allargamento impressionante della forbice sociale. Le 8 persone più ricche del
mondo possiedono tanto quanto 3,6 miliardi di poveri, ossia 8 persone
possiedono tanto quanto la metà della popolazione mondiale.
Cosa è andato storto? La risposta che mi sono dato (probabilmente non
esaustiva) è contenuta nel modello occidentale del turbocapitalismo dove
l’importante è “fare soldi”. Che tu sia un semplice operaio o un dirigente di
un qualsiasi fondo di investimento, devi fare soldi, con i soldi sarai felice.
Da ciò ne consegue la schizofrenica necessità di produrre ad ogni costo (umano,
sociale ed ambientale), con buona pace del benessere collettivo. E quindi come
raddrizzare la via? La soluzione non è certamente il consumismo sfrenato, che
poggia le sue basi su una insoddisfazione abissale dell’uomo comune. Per
questo, parafrasando Gandhi, una rivoluzione può avvenire solo osservando e
cambiando noi stessi perché la vera felicità non è nell’oggetto ma nel
soggetto. Keynes più o meno consapevolmente lo aveva intuito. Tra le righe dei
suoi interventi tecnici traspare umanità, una umanità fatta di solidarietà, di
comprensione e di compassione verso gli altri uomini.
Mai come oggi mi appare chiaro che il sistema economico mondiale non sia
“umano” e vada completamente ripensato, ma per farlo dobbiamo prima ripensare a
come e cosa pensiamo. Cosa vogliamo veramente nel profondo di noi stessi?
1. “Autosufficienza nazionale”, University College (Dublino), luglio 1933;
2. “Una analisi economica della disoccupazione”, Harris Foundation
(Chicago), giugno 1931.
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