UN
RACCONTO POLITICO . Per gentile concessione dell’autrice ripubblichiamo un pezzo uscito sabato
sul Financial Times di Lea Ypi, docente di Filosofia politica alla London
School of Economics e scrittrice. Il suo romanzo “Libera” è uscito in Italia
per Feltrinelli
In un giorno assolato di marzo del 1997,
a Durazzo, un’insegnante albanese di mezza età porta suo figlio di 11 anni
sulla spiaggia. I due si bagnano i piedi nell’acqua, scrivono i loro nomi sulla
sabbia e poi restano seduti a guardare il mare. Lei tira fuori uno spuntino che
ha portato da casa: pane scuro, pezzettini di feta, cetrioli e pomodori avvolti
in un foglio di giornale. Madre e figlio iniziano un bisticcio – il ragazzino
afferma di non avere appetito e la donna insiste perché mangi, pena l’immediato
rientro a casa – quando sentono una forte esplosione, simile ai fuochi
d’artificio sparati durante i matrimoni.
«GLI ALBANESI festeggiano
sempre – sorride la donna – anche quando restano in mutande». Intanto i rumori
si fanno più vicini e frequenti. In quei giorni il sud del paese era
precipitato nel caos: molte famiglie avevano investito tutti i loro risparmi in
compagnie finanziarie fraudolente andate in bancarotta, la disperazione
spingeva le persone in strada e le proteste sfociavano spesso in combattimenti
tra gruppi armati. A Durazzo la vita andava avanti come al solito,
indifferente al declino, impermeabile alla speranza. In un istante la donna
capisce che quelli che credeva fuochi d’artificio erano in realtà colpi di
kalashnikov. Afferra il bambino e inizia a correre a piedi nudi sulla spiaggia.
QUELLA DONNA ERA MIA MADRE. Lei e mio fratello quella
sera non sono tornati a casa. Nell’arco di un mese l’intero paese è piombato
nell’anarchia. C’erano spari dappertutto, come se premendo il grilletto le
pallottole potessero trasformarsi nei soldi persi per sempre. Venne dichiarato
lo stato di emergenza nazionale. Serrata in casa, a Durazzo, mi chiedevo se mia
madre e mio fratello fossero tra i morti.
Qualche giorno dopo squillò il telefono.
Mentre correvano sulla spiaggia in fuga dagli spari mia madre e mio fratello
avevano visto una nave requisita dai rivoltosi attraccata sul molo e si erano
imbarcati. Una volta arrivati in Italia avevano trovato riparo in un centro
vicino a Fasano, in Puglia. All’epoca questi centri venivano chiamati «campi
profughi»: la Chiesa ne gestiva la maggior parte. Oggi sono subappaltati a
compagnie private e si dividono in Centri di prima accoglienza e Centri di
permanenza per i ripatri, dove i migranti sperimentano la detenzione
amministrativa. Mia madre ammette di non ricordare se il loro centro fosse
presidiato dalle forze dell’ordine, ma ricorda di essere scappata al calar del
buio per andare alla stazione e prendere il primo treno per Roma. È certa però
che non ci fossero barriere, filo spinato o telecamere di sorveglianza.
HO RIPENSATO a questa storia
la scorsa settimana quando l’Italia ha siglato un accordo con il governo
albanese per aprire due centri per migranti in Albania, uno per processare le
richieste di asilo e l’altro per rinchiudere le persone in attesa del
rimpatrio. Ho pensato alle migliaia di persone che, come mia madre e mio
fratello, scappano da guerra, povertà e persecuzioni per cercare rifugio in
paesi che diventano sempre più ostili nei loro confronti, sempre più
indifferenti al loro destino.
Detenzione amministrativa è un termine
tecnico, che veste di neutra burocrazia l’aspra realtà della coercizione. Già
traumatizzati dal viaggio, i migranti attendono in isolamento la libertà o
l’espulsione. C’è un modo meno diplomatico ma forse più accurato di definire la
faccenda: carcerazione senza processo.
ESISTONO VARI PRECEDENTI giuridici di
accordi che consentono a ricchi stati liberali di gestire le richieste di asilo
fuori dai propri confini, come ad esempio quello tra Australia e Nauru e quello
tra Uk e Ruanda (recentemente dichiarato illegittimo dalla Corte suprema della
Gran Bretagna). Nel 1990 gli Stati Uniti usarono Guantanamo Bay per
imprigionare i rifugiati haitiani. Secondo il recente protocollo firmato con
l’Italia, lo stato albanese dovrebbe cedere temporaneamente la propria
sovranità nelle aree dove verranno realizzati i centri, consentendo al
personale italiano (di polizia, sanitario, amministrativo, giudiziario) di
esercitare le proprie funzioni.
Per ricevere assistenza dallo stato
albanese, i migranti devono essere già deceduti: l’articolo 9 dell’accordo,
infatti, prevede che i cadaveri possano sostare negli obitori del paese per 15
giorni. Tutte le spese saranno sostenute dall’Italia mentre la terra è data in
offerta, così ha chiarito il premier Rama, con spirito di gratitudine verso
Roma che ha accolto gli albanesi che scappavano dall’inferno negli anni
Novanta.NEL CASO DI MIA MADRE e mio fratello, la fuga
dall’inferno si è fermata a un preciso indirizzo: la casa dell’anziana disabile
«signora Caterina», nel quadrante nord di Roma, in un quartiere noto per le
simpatie neofasciste. La signora aveva tre figli che non vivevano più con lei e
un ampio appartamento di cui mia madre e mio fratello occupavano una piccola
stanza.
Due dei figli della donna avevano
difficoltà a memorizzare il nome di mia madre, per questo veniva presentata
agli ospiti come «la badante albanese», sottolineando: «albanese, ma molto
onesta». Mia madre cucinava, puliva, lavava e vestiva la signora Caterina. Di
tanto in tanto spolverava anche la piccola statua di Mussolini che la signora
teneva accanto al letto. Sostiene che la pagassero molto bene: un milione di
lire al mese, una somma che oggi, adattata all’inflazione, potrebbe
corrispondere a circa 700 euro. «Per quante ore al giorno?», le ho chiesto
mentre preparavo questo articolo. «24 su 24, ma avevo la libera uscita di
domenica», mi ha risposto. «Avevi un contratto?». «No, mi fidavo».
MIA MADRE si era
affezionata alla signora Caterina. Le due avevano trovato un terreno comune
nella condanna unanime degli orrori del comunismo e nella rispettosa
considerazione per il Duce: «un politico capace che ha fatto tutto per il bene
dell’Italia», usava definirlo l’anziana signora. Mio fratello iniziò a
frequentare la scuola più vicina, nel tragitto passava tutti i giorni di fronte
a un muro dove campeggiava la scritta «Fuori gli albanesi». Faceva i compiti da
solo, giocava con un gameboy di seconda mano e aspettava con ansia la domenica,
quando la madre lo portava fuori per un gelato. Si riteneva un bambino
fortunato.
POCHI GIORNI DOPO la sua partenza
dall’Albania, un’altra nave che trasportava più di 100 migranti, principalmente
donne e bambini, veniva speronata dalla guardia costiera italiana nel porto di
Otranto. La maggior parte delle persone a bordo morì in mare. Il governo albanese
aveva appena firmato un accordo che autorizzava l’Italia a usare la forza per
prevenire l’ingresso dei barconi nelle sue acque territoriali. Anche in
quell’occasione le autorità espressero gratitudine per l’ospitalità italiana.
A settembre dello stesso anno mi
trasferii anche io a Roma, con un visto di studi. Ricordo un giorno alla
stazione Termini, quando aiutai una signora anziana a spostare la sua valigia:
meno male che c’erano ancora giovani come me, disse lei, «che qui è pieno di
albanesi». Ricordo la chiacchierata con un paziente nella sala di attesa di un
medico quando mi disse che gli albanesi avevano la violenza nel sangue. E
ricordo anche il racconto di un’amica giornalista che quando chiamava il suo
direttore per informare di una rapina, uno stupro o un’uccisione, per prima
cosa si sentiva domandare se i sospetti per caso fossero albanesi. Altrimenti
ci sarebbe stato poco tiro per la notizia.
Gli albanesi, un tempo descritti come
«barbari», «criminali» e «ladri» dai media italiani sono diventati oggi i bravi
migranti per eccellenza. Molti si sono affermati come cantanti pop, ballerini e
star televisive. Si sono integrati, esattamente come tutti i migranti tendono a
fare qualche anno dopo il loro arrivo, quando il successo inizia a dipendere
più dalla classe sociale che dalla provenienza geografica. Molti sono tornati
in Albania e hanno investito lì i loro risparmi. Come mostrano molti studi
sull’economia circolare, i migranti spesso tornano nei loro paesi di origine
quando le condizioni lo permettono.
TUTTE LE FAMIGLIE albanesi hanno
ricordi simili ai miei, di quando venivano presentati come «albanesi, ma gran
lavoratori», di quando tentavano di nascondere l’accento, di quando mentivano
sulla propria nazionalità per ottenere un posto di lavoro. Tutti sono restii a
raccontare le loro storie. Potrebbe sembrare ingrato. O forse è semplicemente
doloroso.
I barbari oggi sono altri. Tra le pagine
del Secolo d’Italia, giornale vicino a Fratelli d’Italia, i titoli assomigliano
molto a quelli che leggevo nel mio periodo in Italia. Ma il bersaglio è
cambiato: «I musulmani invadono l’Italia»; «l’Islam è pericoloso e solo gli
idioti non lo capiscono»; «l’Italia è già invasa dagli islamici, presto saranno
metà della popolazione».
LA MAGGIORANZA degli albanesi
sono di origine islamica (tendevo a nascondere anche questo aspetto della mia
famiglia). Ma le loro credenziali europee sembrano certe. L’anno scorso
l’Albania ha iniziato le trattative per l’accesso all’Unione Europea. Ma che
cos’è l’Europa?
«Non un club», secondo Meloni. Forse ha
in mente più che altro una «civiltà». Forse persino una civiltà superiore, a
giudicare dai titoli dei giornali che sostengono la sua linea. «Come sapete –
ha dichiarato la premier alla conferenza stampa che annunciava il protocollo –
A me non piace definirlo allargamento, mi piace parlare di riunificazione».
MA RIUNIFICAZIONE è un termine
giuridico. Presuppone la ricostituzione di un corpo sovrano precedentemente
disgregato (viene in mente la Germania dopo il 1989). Tecnicamente l’unico
periodo storico in cui l’Italia e l’Albania appartenevano allo stesso sistema
giuridico è quello che va dal 1939 al 1943, quando Vittorio Emanuele III era
diventato «Re d’Italia e d’Albania», a seguito dell’occupazione fascista.
«Albanesi e italiani sono una stessa
razza», si scriveva nel 1941 in un articolo pubblicato sulla rivista La difesa
della razza, un bisettimanale il cui segretario di redazione era Giorgio
Almirante. In seguito avrebbe ricoperto il ruolo di capo dello staff del
ministero della Cultura nella Repubblica di Salò per poi diventare il leader
del Movimento sociale italiano, partito neofascista dove Meloni ha mosso i suoi
primi passi. Quando il primo ministro sostiene che non si tratta di
allargamento ma di riunificazione, si sta rivolgendo al pubblico europeista
illuminato o sta solleticando le fantasie della sua base più nostalgica?
FORTUNATAMENTE per Meloni, gli
albanesi sono ancora troppo traumatizzati dal recente passato comunista per
voler riaprire le remote ferite coloniali. La storia insegna che il modo in cui
il centro coloniale rappresenta una crisi politica plasma la versione che viene
proiettata nella periferia. Molti albanesi sembrano convinti del fatto che
l’immigrazione sia un problema, nonostante la piaga reale del paese sia invece
l’emigrazione (la costante fuga di cittadini).
L’OPINIONE PUBBLICA critica verso
l’accordo Meloni-Rama, anche incarnata da intellettuali, ha offerto per lo più
un triste spettacolo di ostinata distorsione dei fatti: grandiose celebrazioni
dell’eredità greco-romana-cristiana del paese, imbarazzante silenzio sul
periodo ottomano e su quello comunista, fino ad arrivare al razzismo puro e
semplice. Ma mentre in molti stati europei questi discorsi sono alimentati da
politici al governo, in Albania perlomeno si limitano ai commenti sulle reti
sociali.
Il primo ministro albanese, dal canto suo, ha firmato l’accordo dichiarando di
non voler rivendicare pubblicamente i suoi meriti. Scelta sorprendente, visto
che due anni prima durante la trattativa per un accordo simile con la Gran
Bretagna ci aveva tenuto a rendere esplicita la sua posizione: «L’Albania non
sarà mai la discarica per migranti dei paesi ricchi». Cosa è cambiato?L’AMICIZIA TRA I DUE PAESI, a quanto sembra. Ma la vera
amicizia è fondata sulla reciprocità ed è interessante immaginare come Meloni
avrebbe risposto se l’Albania avesse fatto una richiesta analoga. Dalle scorse
elezioni politiche italiane, un netto aumento degli sbarchi in Italia ha
portato all’implementazione di politiche sempre più securitarie.
Qualche settimana fa Meloni ha inviato
una lettera al cancelliere tedesco Olaf Scholz in cui esprime il suo sconcerto
di fronte alla decisione del governo tedesco di finanziare le Ong impegnate nei
salvataggi nel Mediterraneo. Secondo lei queste missioni di soccorso
incoraggiano il traffico di essere umani, una tesi che come dimostrano molti
studi tra cui uno recente di Harvard, non è fondata su alcuna prova empirica.
La Ue, secondo Meloni, deve concentrare i suoi sforzi nella costruzione di «soluzioni
strutturali» per i migranti.
LE SOLUZIONI STRUTTURALI, però,
necessitano di una diagnosi adeguata del problema e di una valutazione coerente
delle alternative. L’immigrazione non è un’emergenza: al contrario, aiuta a
contrastare il declino demografico, e i paesi di provenienza beneficiano in
ultima stanza degli effetti dell’economia circolare. Ma anche nel caso fosse
un’emergenza, la posizione di Meloni è priva di fondamento logico. Il suo
slogan «Prima gli italiani» è un principio egoista che non si può
generalizzare. Se l’interesse nazionale trionfa sulla solidarietà
internazionale, la sua «soluzione strutturale» non fa che perpetuare il
problema che vorrebbe risolvere. Forse è proprio questo l’intento: non
riformare l’Europa ma demolirla dall’interno. Non creare una nuova cornice per
la giustizia cosmopolita ma semplicemente affermare la volontà di potenza delle
nazioni, non Kant ma Nietzsche.
È una visione coerente, anche se per
niente auspicabile: una narrativa che ruota attorno al concetto di «civiltà»,
che distingue gli autoctoni da proteggere dai barbari da deportare, una
«soluzione strutturale» che punta all’implosione della struttura. Questo è il
vero motivo per cui l’unica concreta proposta sulle migrazioni è la rimozione
fisica dell’Altro. La detenzione amministrativa già rende i migranti invisibili
dietro le sbarre, con lo spostamento fuori dai confini anche le sbarre stesse
spariscono dalla vista.
PURTROPPO FUNZIONA. La Germania e
l’Austria stanno già valutando soluzioni di gestione extraterritoriale dei
migranti. Il nuovo ministro degli Interni britannico James Cleverly ha
commentato la sentenza della Corte suprema sugli accordi con il Ruanda
sottolineando che «c’è interesse intorno a questo concetto».
Ma ci sono anche molte perplessità.
Questi accordi sono spesso giuridicamente controversi (c’è una questione di
compatibilità con il diritto internazionale e con i diritti umani),
inefficienti dal punto di vista amministrativo (le procedure di valutazione dei
casi potrebbero allungarsi ancora di più), economicamente dispendiosi (gli
stati continuano a coprire tutte le spese) e moralmente dubbie. Violano quello
che Kant chiamava un diritto cosmopolita, «il diritto dei cittadini del mondo
di provare a fondare una comunità con gli altri».
IL GUAIO È CHE questi progetti
continuano a danneggiare anche quando falliscono, anzi proprio in quanto
progetti fallimentari. Anche questo è «strutturale». Se agitare lo spauracchio
delle migrazioni diventa la condizione per vincere le elezioni, gli avversari
politici sfidano i partiti al governo proponendo misure sempre più dure,
accrescendo il costo umanitario e incoraggiando l’ostilità verso le corti che
rovesciano decisioni politiche problematiche.
Anche se il partito di Meloni appare più
moderato oggi che governa il paese, la corsa al ribasso non si fermerà.
L’autoritarismo non è qualcosa che c’è o non c’è, è un processo. Considerare
l’immigrazione come un problema è il cavallo di Troia che rischia di incendiare
la democrazia. La destra ha creato in Europa un’avanguardia della devastazione:
provando a sostituire un lungimirante progetto di integrazione con il
pericoloso mito di un passato comune, nascondendo lo sfruttamento del lavoro
migrante con la criminalizzazione degli stranieri.
L’ALTERNATIVA NON È discutere dei
contorni ma rifiutare l’intera cornice, spostando l’attenzione sull’ingiustizia
di un ordine globale che forza le persone a lasciare il proprio paese. E
rivendicare maggiori diritti per i migranti (diritti politici e sociali) per
fornire loro più strumenti per lottare.
La signora Caterina è morta tra le
braccia di mia madre pochi mesi dopo averla incontrata. Lei e mio fratello sono
poi tornati in Albania. Quando ha saputo dell’accordo con l’Italia mia madre ne
è stata entusiasta. «Certo che l’Albania deve accogliere migranti, sono
disperati, proprio come lo eravamo noi». Poi le ho spiegato come la «detenzione
amministrativa» avrebbe consentito all’Italia di rifiutare quell’accoglienza
che in qualche modo era stata offerta a lei. «Allora non è una soluzione – ha
asserito – Solo propaganda. Ne abbiamo già vista parecchia in passato».
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