domenica 5 novembre 2023

Un “nuovo 11 settembre”: il paradigma della guerra permanente come deterrenza finanziaria - Fabio Vighi


Non sorprende che i media occidentali abbiano etichettato gli attacchi di Hamas del 7 ottobre come un “nuovo 11 settembre”. Naturalmente, si riferiscono al racconto ufficiale dell’11 settembre, indelebilmente impresso nella sua terrificante iconografia (che però tende a escludere la risposta scatenata dagli Stati Uniti in Medio Oriente nei due decenni successivi, una prolungata operazione genocida nota come “guerra globale al terrore”). Ciò che l’etichetta “nuovo 11 settembre” dovrebbe evocare, in realtà, è l’opposto di quanto i mass media lasciano intendere: e cioè che dall’11 settembre 2001 a oggi, le emergenze globali si susseguono senza soluzione di continuità affinché il proverbiale barattolo (il fallimento del sistema economico globale) possa essere calciato un po’ più in là.

Se cerchiamo un indizio rispetto a cosa potrebbe aver scatenato la più recente iterazione della crisi israelo-palestinese, potremmo iniziare dalle parole di Joe Biden dell’11 ottobre: ​​‘Quando il Congresso ritornerà, chiederemo loro di intraprendere azioni urgenti per finanziare le esigenze di sicurezza dei nostri partner strategici.’ Com’era prevedibile, aumentano le commesse per il warfare (inteso come deficit spending per la guerra), che aveva già spiccato il volo con i primi finanziamenti ucraini, funzionando così anche da moltiplicatore del PIL americano. Perché il mercato del debito è il primum movens, l’asse attorno a cui girano le cose di questo mondo, e dev’essere tenuto costantemente lubrificato. Il 19 ottobre, in un discorso dallo Studio Ovale trasmesso in prima serata, Biden ha messo i panni dell’imbonitore televisivo per dichiarare: ‘Hamas e Putin rappresentano minacce diverse, ma hanno questo in comune: entrambi vogliono completamente annientare una democrazia vicina… E continuano a farlo. E il costo e le minacce per l’America e il mondo continuano ad aumentare’. Da qui la richiesta di nuovi miliardi di dollari in pacchetti di emergenza destinati sia all’Ucraina che a Israele (ma anche alla sicurezza delle frontiere con il Messico e altre “crisi internazionali”). È un po’ come se ci stessero vendendo due guerre al prezzo di una – Joe Biden in versione Vanna Marchi.

Ricordiamo che dal marzo 2020 il debito pubblico USA è cresciuto di un sobrio 10 mila miliardi; eppure, considerata la condizione ormai catastrofica dell’obbligazionario, non ce n’è mai abbastanza, al punto che servono nuove crisi geopolitiche, a getto continuo, per innaffiare il sistema di liquidità. Ma nonostante l’innesco del nuovo fronte mediorientale muova miliardi, possiamo star certi che servirà presto qualcosa di ancor più devastante, da utilizzare come grimaldello per aprire i cancelli dello stimolo creditizio vero e proprio, di cui necessita innanzitutto il grande castello di carta ubicato a Wall Street.

Covid, Ucraina, Israele. Nonostante le diverse caratteristiche, in termini sistemici si tratta di emergenze intercambiabili lanciate in orbita con tempismo diabolico. Il comune denominatore della metanarrativa emergenziale, che il Covid ha inaugurato in grande stile, è sempre lo stesso: le crisi globali richiedono finanziamenti, ovvero alluvioni di liquidità che si spera abbiano lo stesso effetto del Quantitative Easing, specie su mercati obbligazionari che, come certifica Bank of America, stanno attraversando il più grande periodo ribassista di tutti i tempi. Per questo, chi dice che “la guerra è la miglior cura per il Covid” coglie nel segno (anche se il contrario potrebbe sempre tornare di moda). Le crisi geopolitiche globali, possibilmente dai tratti apocalittici, sono calamite che attraggono “denaro magico” nell’hic et nunc, nel tentativo, maldestro oltre che criminale, di rinviare il tracollo del sistema finanziario. Anche la sola minaccia di escalation militari o presunte attività terroristiche ha il potere taumaturgico di far sbocciare finanziamenti dal nulla. Occorre davvero comprendere che questi “grandi eventi” sono ormai, in primis, fenomeni di deterrenza finanziaria.

In occidente, stiamo tornando al vecchio manuale della “guerra al terrorismo”, come recentemente dimostrato in Francia e Belgio. Il direttore dell’FBI, Christopher Wray, ha subito emesso un annuncio ufficiale sull’aumento del rischio terrorismo su suolo americano. In realtà, la minaccia del “terrore jihadista” era stata rispolverata ben prima degli attacchi del 7 ottobre. Ad esempio quando, nel maggio 2023, il ministro degli Interni francese Gérald Darmanin si recò in visita ufficiale negli Stati Uniti per chiedere maggiore collaborazione dell’intelligence americana contro il ‘terrorismo islamico’, che, con incredibile lungimiranza, definì (maggio 2023) ‘la principale minaccia in Europa’. Un avvertimento ripetuto quasi testualmente il luglio scorso dalla corrispettiva ministra britannica Suella Braverman, che ‘ha identificato il terrorismo islamico come la principale minaccia interna del Regno Unito’, aggiungendo che ‘gli estremisti potrebbero utilizzare l’intelligenza artificiale per pianificare attacchi terroristici più sofisticati’. Questo è, in sintesi, il motivo per cui l’espansione della guerra dall’Ucraina al Medio Oriente, con il ritorno del grandguignolesco “terrorismo islamico”, era da tempo candidato principale al premio “Prossima Crisi”. Usato sicuro, déjà vu di un déjà vu.

Se adottiamo l’approccio morale, la verità dell’evento può essere riassunta con le parole di Amira Hass, che il 10 ottobre ha scritto su Haaretz: ​​‘In pochi giorni, gli israeliani hanno vissuto ciò che i palestinesi hanno vissuto come routine per decenni, e stanno ancora vivendo – incursioni militari, morte, crudeltà, bambini uccisi, corpi ammucchiati sulla strada, assedio, paura, ansia per i propri cari, prigionia, diventare bersaglio di vendetta, fuoco letale indiscriminato sia su persone coinvolte nei combattimenti (soldati) che chi non è coinvolto (i civili), costante inferiorità, distruzione di edifici, feste o celebrazioni rovinate, debolezza e impotenza di fronte a onnipotenti uomini armati e umiliazioni brucianti.’ In modo simile, ma politicamente più cauto, Slavoj Zizek ha dichiarato che ‘Hamas e gli estremisti israeliani sono due facce della stessa medaglia. La scelta non dev’essere tra una fazione fondamentalista o l’altra; la scelta è tra i fondamentalisti e tutti coloro che credono ancora nella possibilità di una coesistenza pacifica.’ Per quanto condivisibile, la critica moralistica rischia però sempre di scivolare in idealismo di superficie, buono magari per i salotti televisivi ma incapace di mettere a fuoco la differenza elementare tra oppressori e oppressi (o tra dominazione coloniale ed esclusione): la Palestina è da tempo ridotta a enorme campo di concentramento da uno stato colonizzatore che, essenzialmente, agisce come avamposto della politica estera statunitense, e insieme come diretta espressione degli interessi economici di lobby oligarchiche legate in particolare al complesso industrial-militare americano.

Se c’è chi sostiene che il governo di estrema destra di Bibi Netanyahu costituisce un grattacapo per l’amministrazione Biden, sarebbe più coerente osservare che il leader israeliano ha ricevuto il sostegno incondizionato degli Stati Uniti (e di tutti i governi satelliti occidentali). Ovvero armi, dollari, e tanta simpatia, conditi con la solita dose di propaganda. Joe Biden continua a fornire a Netanyahu un ingente e sofisticato supporto militare, più che sufficiente per quella che lo stesso leader israeliano ha da subito definito ‘una lunga guerra’ (in controtendenza con i classici blitz israeliani). Inoltre, com’è noto, gli Stati Uniti hanno posto il veto alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per sospendere le ostilità. La realtà è dunque nei fatti, come efficacemente riassunto da Miranda Cleland: ‘Piuttosto che chiedere un cessate il fuoco immediato, l’amministrazione Biden sta lavorando attivamente per fornire ulteriore copertura alle atrocità israeliane a Gaza.’ Copertura che potrebbe persino aiutare Netanyahu a rinsaldare la propria legittimità politica a dispetto dei tre capi d’accusa che pendono sulla sua testa.

Anziché limitarci a ripetere pedissequamente la filastrocca “ogni estremismo è sbagliato”, dovremmo dunque sottolineare come il genocidio attualmente perpetrato nella striscia di Gaza rappresenti il “cuore di tenebra” del fondamentalismo occidentale. Non dimentichiamo che solo nell’ultimo decennio numerosi attacchi contro i palestinesi avevano già causato migliaia di vittime, la maggior parte civili. Eppure, dovremmo sempre sentirci moralmente obbligati a condannare per primo il terrorismo di Hamas. E la resistenza palestinese ci va bene solo quando decidiamo noi che tipo di resistenza dev’essere; cioè passiva, ovvero per nulla resistente.

Diciamo allora che, rispetto all’eccidio in corso, qualsiasi opinione critica che ponga la pari responsabilità dei due estremismi viene articolata da una posizione di continuità con gli interessi del grande capitale, se non altro perché presuppone, più o meno segretamente, che i gestori di sistema siano in grado di ripristinare un qualche tipo di ordine geopolitico. Ciò che tale prospettiva non prende in considerazione è lo scenario opposto, e cioè che chi muove le leve del potere possa gestire questi eventi per mantenere il controllo su un modello socioeconomico ormai in palese decomposizione. Il difetto della critica moralistica, in altre parole, sta nell’ignorare che emergenze e massacri di massa globali fanno parte dell’inerzia implosiva del capitalismo contemporaneo; anzi, sono gli ingredienti principali di un macabro disegno di distruzione (in)controllata.

Dovrebbe ormai essere chiaro che tanto il capitale quanto i suoi grotteschi rappresentanti non provano che indifferenza rispetto alla quantità di dolore che infliggono all’umanità. In quanto pulsione anonima, il capitale non è che la cieca ripetizione della sua legge di movimento; definizione che qualifica non solo la compulsione interna all’auto-espansione del profitto, ma anche la determinazione esterna delle condizioni di possibilità di tale legge interna, tra cui 1) la fabbricazione/manipolazione di “crisi globali”, da far esplodere quando necessario; e 2) la repressione autoritaria del dissenso, dalla criminalizzazione dei “no-vax” alla repressione delle voci filo-palestinesi. Consciamente o inconsciamente, le élite sono l’espressione antropomorfica di ferrei imperativi sistemici. Sempre più schiacciato da un declino inarrestabile, l’occidente “democratico” rivela ancora una volta il suo vero volto – con l’ausilio della solita eterogenea manovalanza di cheerleader pseudo-intellettuali.

A questo proposito, i cani da guardia della “teoria del complotto,” sempre pronti a ringhiare contro chi non si allinea alla versione ufficiale, ignorano non solo che il complotto è un fatto storico comune a tutte le società, ma soprattutto che il potere della macchina sociale del capitale è ipso facto complottista. Menzogne ​​e propaganda sono parte integrante del modus operandi della globalizzazione capitalista, forma di universalismo tanto fasulla quanto violenta. La stessa modernità può dirsi iscritta a priori in una narrazione sociale oggettivata, “reificata”, programmata per ricreare le proprie condizioni di possibilità, indipendentemente dalle nefandezze necessarie a farlo. Secondo Hegel la storia del mondo è ragione [Vernunft] auto-causata e auto-realizzata[1]. Ebbene, questo processo di auto-causazione, di auto-produzione della storia delle civiltà – che il capitale incarna alla perfezione in quanto “auto-valorizzazione del valore” – non avrebbe luogo senza il governo segreto delle classi dominanti, indipendentemente da quanto controproducenti o deliranti possano poi rivelarsi le loro azioni. Meglio mettersi in testa che oggi l’imperativo dei funzionari del sistema-mondo è puntellare i presupposti finanziario-monetari di un modello socioeconomico in caduta libera. Visto da questa prospettiva critica, il controllo esercitato da singoli soggetti risulta indistinguibile dalla violenza oggettiva di sistema, così come il movimento del capitale è indistinguibile dai suoi pianificatori seriali. Per questo l’attuale guerra alle “teorie del complotto” è paragonabile alla guerra alle “eresie” nell’Europa medievale[2]. La sua principale funzione ideologica è tappare la bocca al pensiero critico, stigmatizzando qualsiasi domanda, dubbio, o convinzione che sia conflittuale rispetto alla narrazione ufficiale.

Il principale difetto degli approcci moralistici nei confronti dell’Ucraina o di Gaza è che perdono di vista la contraddizione chiave del sistema: il fatto che viviamo in un’epoca di emergenze globali compulsive, alle quali, in termini di logica sistemica, non può essere permesso di fermarsi. Dal punto di vista della riproduzione del nostro mondo, guerre e distruzioni difficilmente possono essere evitate, o addirittura messe in pausa. Siamo arrivati al punto per cui la discesa nella barbarie diventa elemento imprescindibile per la permanenza delle attuali relazioni capitalistiche. Il problema vero e urgentissimo da affrontare – sia filosoficamente che politicamente – è come intervenire nell’ineluttabile; come concepire interventi che non rimangano imprigionati nella perversa spirale del collasso in atto.

Sui media alternativi, il parallelo tra il 7 ottobre e l’11 settembre attinge alla loro comune “sindrome di Frankenstein”. Proprio come gli Stati Uniti sono stati colpiti dalla loro creatura da laboratorio allevata dalla CIA, Israele si troverebbe ora ad affrontare il contraccolpo di un “mostro” che i servizi di intelligence di Tel Aviv hanno alimentato per decenni, inizialmente con l’obiettivo di indebolire l’OLP (laica) di Yasser Arafat, e far naufragare la soluzione dei due stati indipendenti (Accordi di Oslo del 1993). Per quanto plausibile, questo parallelo risulta irrilevante se non lo inseriamo nel contesto profondo. La stessa “nebbia di guerra” alimentata dai media nasconde il motivo elementare del conflitto: il massacro è destinato ad espandersi a macchia d’olio in modo tale che lo stesso fenomeno espansivo possa interessare il denaro. Questa connessione tra credito e violenza è diventata il filo conduttore della storia del capitalismo. Negli ultimi anni, la decomposizione della nostra civiltà ha subito una tale accelerazione da mettere in secondo piano tutte le principali contrapposizioni geopolitiche. Oggi le emergenze planetarie devono susseguirsi a ritmo serrato perché i presupposti finanziari e monetari del sistema globalizzato stanno saltando. L’illusione di un’economia drogata di debito verrà dunque mantenuta in vita solo grazie a ulteriori sacrifici di “animali umani” – tanto per citare il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant (peraltro, tutti gli esseri umani sono, in senso stretto, “animali umani” – solo che alcuni sono decisamente più uguali di altri).

Quanto sopra non dovrebbe stupirci. Se la storia della modernità è costellata di macerie, il capitalismo è sempre stato un’“impresa bellica”. I suoi manager funzionali non hanno mai esitato a mandare milioni di esseri umani al macello per soddisfare le esigenze di sistema, insieme alle loro. Abbiamo forse già dimenticato i legami tra le élite finanziarie anglo-americane e la Germania nazista? JP Morgan & Co., Standard Oil, General Motors, Ford, Harrison Brown, Vickers-Armstrong e molti altri giganti del “mondo libero” finanziarono la resistibile ascesa al potere di Hitler e continuarono a investire capitali nella Germania nazista durante tutta la Seconda Guerra Mondiale (anche grazie alla mediazione della Banca dei Regolamenti Internazionali, la “banca centrale delle banche centrali” con sede a Basilea)[3]. Autobahns, bombardieri Stukas, sommergibili U-Boot, veleno Zyklon B, campi di sterminio, ecc. – tutti mostrano le impronte digitali dell’occidente. Questi banchieri, investitori, e amministratori delegati non erano solo mele marce in cerca di facili profitti; c’era molto più metodo nella loro folle brama. Lo stesso devastante metodo nascosto nel Trattato di Versailles che, come profetizzato da Thorstein Veblen già nel 1920[4], non era che un ‘bluff diplomatico’ inteso a fomentare il radicalismo in Germania, risparmiando di proposito i ‘proprietari assenti’ del paese (il suo ‘establishment imperiale’), e dunque contribuendo a ripristinare un ‘regime reazionario’ in vista della ‘continuazione dell’impresa bellica’. Non possiamo cogliere l’essenza della modernità se la scolleghiamo dalla potenza di fuoco del capitale inteso come disordine sociale compulsivo, che oggi – ribadiamo il punto centrale – viene sciorinato senza soluzione di continuità per evitare che emerga il marcio, la bancarotta di sistema.

Il potenziale distruttivo dell’odierno “capitalismo emergenziale” è immenso. L’architettura sociale del sistema produttore di merci – che, come scrisse Walter Benjamin più di un secolo fa, è in realtà un culto religioso, tale appunto da richiedere sacrifici umani – attraversa oggi la sua fase terminale; al punto che solo gli eccidi delle “guerre giuste” possono nascondere il fallimento del suo modus operandi. Le “guerre giuste” dell’occidente “democratico” continuano (a fatica) a ergersi a rappresentanti del Bene contro presunti nemici che, quando reali, l’occidente ha consapevolmente allevato, o prodotto attraverso un’incessante oppressione sistemica. E questi nemici non mancano mai, anche perché l’oppressione non si è mai fermata. Ma è fondamentale rendersi conto che queste guerre funzionano come calamite per la creazione di credito. Vengono cioè attivate ​affinché quantità sempre crescenti (e mai sufficienti) di liquidità elettronica, creata al computer, possano essere immesse nel sistema drogato di debito. È inutile girarci intorno: oggi più che mai i leader politici, le organizzazioni militari, le forze di intelligence e di controspionaggio che coordinano gli eventi bellici sono tutti “prezzati” come merci nel mercato del grande capitale.

Al 18 ottobre 2023, l’importo totale di dollari in circolazione nel mondo intero ammonta a 2.3 mila miliardi, mentre il debito nazionale degli Stati Uniti ha superato i 33 mila miliardi, ed è ampiamente fuori controllo. Anche solo intuitivamente, questo dato dovrebbe dirci che stiamo danzando su una polveriera: una crisi di liquidità che, per essere posticipata, esige un aumento esponenziale del debito, ovvero della causa medesima del problema. Inoltre, quando si aumenta il costo del debito – come la Federal Reserve ha fatto dal marzo 2022 (primo rialzo dei tassi d’interesse) – senza poterlo ripagare, si devono giocoforza trovare motivi (capri espiatori) per creare liquidità sintetica (attraverso la banca centrale quale “prestatrice di ultima istanza”), almeno per coprire il servizio di quel debito. Il paradosso del nostro tempo è che la vita sociale è ostaggio di un sistema di sfruttamento socioeconomico basato su montagne di titoli di debito tossico che possono solo continuare a lievitare, con tutto ciò che ne consegue in termini di caos e distruzione. Come ho discusso nei miei articoli precedenti su La fionda, la crescita dell’economia reale oggi non può più neppure sognarsi di colmare il divario con l’indebitamento strutturale, poiché tale crescita è sempre più schiacciata dalla produttività tecnologica; mentre le entrate fiscali, in questo contesto, non hanno nulla a che vedere con alcuna ipotesi di crescita. Al momento, nessun altro evento al mondo genera più denaro della guerra (incluse le guerre epidemiologiche). Ciò conduce a una macabra conclusione: il rischio finanziario – oggi particolarmente acuto nei mercati obbligazionari – può oggi essere misurato non solo in valute fiat, ma anche in vite umane.

La coreografia da Truman Show in cui ci troviamo a vivere ci nasconde la permanente insolvenza di sistema. Quest’ultima può essere visualizzata come uno tsunami di margin calls che annienterebbe il settore finanziario e l’economia reale in un colpo solo. Per questo motivo l’unica vera domanda che conta oggi è la domanda di misure monetarie di emergenza, vale a dire la creazione (inflazionistica) di masse di denaro elettronico da immettere nell’architettura finanziaria per rinviare un catastrofico congelamento di liquidità il cui potenziale devastante, tuttavia, tali iniezioni monetarie non fanno che peggiorare. Ma queste cose non finiscono nelle prime pagine dei giornali, o nei dibattiti televisivi. Si preferisce attendere il crac per poi dirsi sorpresi che sia successo.

È altrettanto significativo che negli Stati Uniti si registra un numero record sia di senzatetto che di forza lavoro inattiva (che non cerca più lavoro). Dal 2020 gli inattivi ammontano a circa 100 milioni di adulti (contro 161 milioni di occupati o in cerca di lavoro), e sono in crescita del 58% rispetto al 1990. Inoltre, il 36% degli americani non possiede risparmi, e un altro 19% ha meno di 1.000 dollari da parte. Se mettiamo questo quadro desolante sullo sfondo dello spietato orologio del debito americano, il motivo per cui il nostro “sistema di crescita” sta sponsorizzando non solo il “basso consumo energetico” (capitalismo verde), ma anche guerre a getto continuo, dovrebbe esserci chiaro.

Stiamo ora entrando in acque davvero agitate – letteralmente. È probabile che alcune tra le principali rotte marittime siano influenzate dall’espansione del conflitto in Medio Oriente, il che significa che commercio e materie prime (compresa l’energia) sono a rischio di colli di bottiglia – un acceleratore sicuro per la recessione. È altrettanto possibile che presto, vista la pressione che continua a subire, l’Iran minacci di chiudere lo stretto di Hormuz – la principale arteria di transito per il commercio di petrolio e di gas a livello mondiale – innescando un effetto domino in grado di mettere il turbo alla crisi, e spalancare le porte alla (tanto attesa) recessione globale. Come nel caso del Covid, questa situazione costringerebbe le banche centrali a stampare denaro in modalità Lo Turco (dal celebre film con Totò La banda degli onesti), ovviamente usando la guerra come capro espiatorio. Il presidente della Banca Mondiale Ajay Banga ha già definito l’attuale nuovo conflitto uno “shock economico globale”. Senza cattive notizie, insomma, è probabile che i tassi rimangano higher for longer (secondo la ricetta di Jerome Powell); tuttavia, più a lungo rimarranno alti, più probabile sarà un evento creditizio. A oggi, le perdite “non realizzate” delle banche statunitensi, relative a portafogli obbligazionari conservati fino a scadenza, sono da record storico: 650 miliardi di dollari. Si tratta di obbligazioni detenute nei bilanci delle banche che, sulla base dei tassi di interesse attuali, generano perdite non ancora contabilizzate. Forse questa spada di Damocle ha qualcosa a che fare con ‘i tagli silenziosi di migliaia di dipendenti operati dalle grandi banche’; forse c’è una connessione tra i massicci licenziamenti di Bank of America e le sue monumentali perdite “non realizzate” di 131,6 miliardi di dollari. Ma ciò che conta davvero è che un intero ecosistema finanziario garantito dai titoli del Tesoro USA (Treasury Bills) si trova ora esposto a una mega margin call interplanetaria. E forse tutto ciò ha qualcosa a che fare con il tempismo del “nuovo 11 settembre”.

Gaza, come il Donbass, era una bomba a orologeria pronta a esplodere. Non è forse legittimo chiedersi come mai Israele, uno Stato basato letteralmente sull’intelligence e sulla sicurezza (Mossad e Shin Bet), si sia fatto sorprendere da soldati di Hamas entrati nel suo territorio via terra, mare, e aria (con parapendii motorizzati)? La storia della facile violazione del “sistema di sicurezza senza pari” di Israele suonerà a molti altrettanto assurda di altre “storie ufficiali” che ci sono state raccontate negli ultimi tempi, e in ogni caso dal 22 novembre del 1963. Naturalmente, un simile attacco non deve per forza di cose essere un false flag. Più realisticamente, può essere consentito o facilitato. Ma indipendentemente dalle modalità dell’attacco, rimane la realtà del caos e della destabilizzazione, che se solo ampliamo lo sguardo sul contesto implosivo del nostro mondo non possono non apparire gestiti dall’alto.

Fondamentale per il corretto funzionamento ideologico dello scenario di emergenza è la sconvolgente rappresentazione mediatica dell’orrore. La narrazione ufficiale deve insomma potersi condensare in poche immagini di indicibile ripugnanza, il cui scopo immediato è quello di sgombrare il terreno da qualsiasi dubbio o opposizione circa la liceità di una ritorsione “proporzionata”, come appunto quella di Israele nella striscia di Gaza. Per comprendere l’uso ideologico dell’orrore potremmo ricorrere al concetto kantiano di sublime, sviluppato dal filosofo di Königsberg nella Critica del giudizio alla fine del XVIII secolo: un’esperienza estetica talmente soverchiante da trascendere sia le forme sensibili di riferimento che le nostre capacità intellettuali. Il sublime ci mette di fronte a un livello di disordine tale da rendere vano qualsiasi tentativo di contenerne o organizzarne il senso in termini mentali. Mi pare indiscutibile che i media abbiano sviluppato la capacità perversa di utilizzare il sublime, in termini negativi, come “rappresentazione dell’irrappresentabile”. Che si tratti dei voli di linea dirottati sulle Torri Gemelle, delle efferate azioni dell’Isis, dei camion di Bergamo carichi di bare a inizio “pandemia”, della carneficina di Bucha, o del massacro del kibbutz israeliano “con 40 bambini decapitati”, siamo di fronte a quelli che potremmo chiamare UMO, Unidentified Media Objects. Che siano vere, parzialmente vere o false, la loro missione – tecnicamente facilitata nell’epoca dei deepfakes – è strumentalizzare l’essenza mostruosa e immane del reale che, secondo la celebre definizione di Kant, ‘supera ogni misura dei sensi’[5]. Il potere dell’informe – come appunto la notizia dei 40 bambini israeliani decapitati, lanciata e poi misteriosamente ritirata dalle cronache – non sta tanto nel commuoverci, ma nel costringerci a sospendere il giudizio critico e accettare la versione ufficiale dei fatti. Mi sembra allora legittimo chiudere con una celebre citazione attribuita a Malcolm X: ‘Se non stai attento, i giornali ti faranno odiare le persone che vengono oppresse, e amare le persone che opprimono.’


[1] GWF Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto (Roma: Laterza, 1999), pp. 265-66.

[2] Cfr. D. Coady, ‘Conspiracy Theory as Heresy’, in Educational Philosophy and Theory, 55:7, 2021, pp. 756-759.

[3] A. Lebor, Tower of Basel: The Shadowy History of the Secret Bank that Runs the World (New York: PublicAffairs, 2014).

[4] T. Veblen, ‘Review of John Maynard Keynes, The Economic Consequences of the Peace’, in Political Science Quarterly, 35 (1920), pp. 467-472.

[5] Immanuel Kant, Critica del giudizio, Torino, UTET, 2013, p. 204.

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