Non sorprende che i media occidentali abbiano etichettato gli attacchi di
Hamas del 7 ottobre come un “nuovo 11 settembre”. Naturalmente, si riferiscono
al racconto ufficiale dell’11 settembre, indelebilmente impresso nella sua
terrificante iconografia (che però tende a escludere la risposta scatenata
dagli Stati Uniti in Medio Oriente nei due decenni successivi, una prolungata
operazione genocida nota come “guerra globale al terrore”). Ciò che l’etichetta
“nuovo 11 settembre” dovrebbe evocare, in realtà, è l’opposto di quanto i mass
media lasciano intendere: e cioè che dall’11 settembre 2001 a oggi, le
emergenze globali si susseguono senza soluzione di continuità affinché il
proverbiale barattolo (il fallimento del sistema economico globale) possa
essere calciato un po’ più in là.
Se cerchiamo un indizio rispetto a cosa potrebbe aver scatenato la più
recente iterazione della crisi israelo-palestinese, potremmo iniziare
dalle parole di Joe Biden dell’11 ottobre: ‘Quando il
Congresso ritornerà, chiederemo loro di intraprendere azioni urgenti per
finanziare le esigenze di sicurezza dei nostri partner strategici.’ Com’era
prevedibile, aumentano le commesse per il warfare (inteso
come deficit spending per la guerra), che aveva già spiccato
il volo con i primi finanziamenti ucraini, funzionando così anche da
moltiplicatore del PIL americano. Perché il mercato del debito è il primum
movens, l’asse attorno a cui girano le cose di questo mondo, e dev’essere
tenuto costantemente lubrificato. Il 19 ottobre, in un discorso dallo Studio Ovale trasmesso in prima serata,
Biden ha messo i panni dell’imbonitore televisivo per dichiarare: ‘Hamas e
Putin rappresentano minacce diverse, ma hanno questo in comune: entrambi
vogliono completamente annientare una democrazia vicina… E continuano a farlo.
E il costo e le minacce per l’America e il mondo continuano ad aumentare’. Da
qui la richiesta di nuovi miliardi di dollari in pacchetti di emergenza
destinati sia all’Ucraina che a Israele (ma anche alla sicurezza delle
frontiere con il Messico e altre “crisi internazionali”). È un po’ come se ci
stessero vendendo due guerre al prezzo di una – Joe Biden in versione Vanna
Marchi.
Ricordiamo che dal marzo 2020 il debito
pubblico USA è cresciuto di un sobrio 10 mila miliardi; eppure,
considerata la condizione ormai catastrofica dell’obbligazionario, non ce n’è
mai abbastanza, al punto che servono nuove crisi geopolitiche, a getto
continuo, per innaffiare il sistema di liquidità. Ma nonostante l’innesco del
nuovo fronte mediorientale muova miliardi, possiamo star certi che servirà
presto qualcosa di ancor più devastante, da utilizzare come grimaldello per
aprire i cancelli dello stimolo creditizio vero e proprio, di cui necessita
innanzitutto il grande castello di carta ubicato a Wall Street.
Covid, Ucraina, Israele. Nonostante le diverse caratteristiche, in termini
sistemici si tratta di emergenze intercambiabili lanciate in orbita con
tempismo diabolico. Il comune denominatore della metanarrativa emergenziale,
che il Covid ha inaugurato in grande stile, è sempre lo stesso: le crisi
globali richiedono finanziamenti, ovvero alluvioni di liquidità che
si spera abbiano lo stesso effetto del Quantitative Easing, specie su mercati
obbligazionari che, come certifica Bank of America, stanno attraversando il più grande
periodo ribassista di tutti i tempi. Per questo, chi dice che “la guerra è
la miglior cura per il Covid” coglie nel segno (anche se il contrario potrebbe
sempre tornare di moda). Le crisi geopolitiche globali, possibilmente dai
tratti apocalittici, sono calamite che attraggono “denaro
magico” nell’hic et nunc, nel tentativo, maldestro oltre che criminale, di
rinviare il tracollo del sistema finanziario. Anche la sola minaccia di
escalation militari o presunte attività terroristiche ha il potere taumaturgico
di far sbocciare finanziamenti dal nulla. Occorre davvero comprendere che
questi “grandi eventi” sono ormai, in primis, fenomeni di deterrenza
finanziaria.
In occidente, stiamo tornando al vecchio manuale della “guerra al
terrorismo”, come recentemente dimostrato in Francia e Belgio. Il direttore
dell’FBI, Christopher Wray, ha subito emesso un annuncio ufficiale sull’aumento del rischio terrorismo
su suolo americano. In realtà, la minaccia del “terrore jihadista” era stata
rispolverata ben prima degli attacchi del 7 ottobre. Ad esempio quando, nel
maggio 2023, il ministro degli Interni francese Gérald Darmanin si recò
in visita ufficiale negli Stati Uniti per chiedere
maggiore collaborazione dell’intelligence americana contro il ‘terrorismo
islamico’, che, con incredibile lungimiranza, definì (maggio 2023) ‘la
principale minaccia in Europa’. Un avvertimento ripetuto quasi
testualmente il luglio scorso dalla corrispettiva ministra britannica
Suella Braverman, che ‘ha identificato il terrorismo islamico come la
principale minaccia interna del Regno Unito’, aggiungendo che ‘gli estremisti
potrebbero utilizzare l’intelligenza artificiale per pianificare attacchi
terroristici più sofisticati’. Questo è, in sintesi, il motivo per cui l’espansione
della guerra dall’Ucraina al Medio Oriente, con il ritorno del grandguignolesco
“terrorismo islamico”, era da tempo candidato principale al premio “Prossima
Crisi”. Usato sicuro, déjà vu di un déjà vu.
Se adottiamo l’approccio morale, la verità dell’evento può essere riassunta
con le parole di Amira Hass, che il 10 ottobre ha scritto su Haaretz:
‘In pochi giorni, gli israeliani hanno vissuto ciò che i palestinesi hanno
vissuto come routine per decenni, e stanno ancora vivendo – incursioni
militari, morte, crudeltà, bambini uccisi, corpi ammucchiati sulla strada, assedio,
paura, ansia per i propri cari, prigionia, diventare bersaglio di vendetta,
fuoco letale indiscriminato sia su persone coinvolte nei combattimenti
(soldati) che chi non è coinvolto (i civili), costante inferiorità, distruzione
di edifici, feste o celebrazioni rovinate, debolezza e impotenza di fronte a
onnipotenti uomini armati e umiliazioni brucianti.’ In modo simile, ma
politicamente più cauto, Slavoj Zizek ha dichiarato che ‘Hamas e gli estremisti
israeliani sono due facce della stessa medaglia. La scelta non dev’essere tra
una fazione fondamentalista o l’altra; la scelta è tra i fondamentalisti e tutti
coloro che credono ancora nella possibilità di una coesistenza pacifica.’ Per
quanto condivisibile, la critica moralistica rischia però sempre di scivolare
in idealismo di superficie, buono magari per i salotti televisivi ma incapace
di mettere a fuoco la differenza elementare tra oppressori e oppressi (o
tra dominazione coloniale ed esclusione): la
Palestina è da tempo ridotta a enorme campo di concentramento da uno stato
colonizzatore che, essenzialmente, agisce come avamposto della politica estera
statunitense, e insieme come diretta espressione degli interessi economici di
lobby oligarchiche legate in particolare al complesso industrial-militare
americano.
Se c’è chi sostiene che il governo di estrema destra di Bibi Netanyahu
costituisce un grattacapo per l’amministrazione Biden, sarebbe più coerente
osservare che il leader israeliano ha ricevuto il sostegno incondizionato degli
Stati Uniti (e di tutti i governi satelliti occidentali). Ovvero armi, dollari,
e tanta simpatia, conditi con la solita dose di propaganda. Joe Biden continua
a fornire a Netanyahu un ingente e sofisticato supporto militare, più che
sufficiente per quella che lo stesso leader israeliano ha da subito definito ‘una
lunga guerra’ (in controtendenza con i classici blitz israeliani). Inoltre,
com’è noto, gli Stati Uniti hanno posto il veto alla risoluzione del Consiglio
di Sicurezza delle Nazioni Unite per sospendere le ostilità. La realtà è dunque
nei fatti, come efficacemente riassunto da Miranda Cleland: ‘Piuttosto che chiedere
un cessate il fuoco immediato, l’amministrazione Biden sta lavorando
attivamente per fornire ulteriore copertura alle atrocità israeliane a Gaza.’
Copertura che potrebbe persino aiutare Netanyahu a rinsaldare la propria
legittimità politica a dispetto dei tre capi d’accusa che pendono sulla sua testa.
Anziché limitarci a ripetere pedissequamente la filastrocca “ogni
estremismo è sbagliato”, dovremmo dunque sottolineare come il genocidio
attualmente perpetrato nella striscia di Gaza rappresenti il “cuore di tenebra”
del fondamentalismo occidentale. Non dimentichiamo che solo nell’ultimo decennio
numerosi attacchi contro i palestinesi avevano già causato migliaia di
vittime, la maggior parte civili. Eppure, dovremmo sempre sentirci
moralmente obbligati a condannare per primo il terrorismo di Hamas. E la
resistenza palestinese ci va bene solo quando decidiamo noi che tipo di
resistenza dev’essere; cioè passiva, ovvero per nulla resistente.
Diciamo allora che, rispetto all’eccidio in corso, qualsiasi opinione
critica che ponga la pari responsabilità dei due estremismi viene articolata da
una posizione di continuità con gli interessi del grande capitale, se non altro
perché presuppone, più o meno segretamente, che i gestori di sistema siano in
grado di ripristinare un qualche tipo di ordine geopolitico. Ciò che tale
prospettiva non prende in considerazione è lo scenario opposto, e cioè che chi
muove le leve del potere possa gestire questi eventi per mantenere il controllo
su un modello socioeconomico ormai in palese decomposizione. Il difetto della
critica moralistica, in altre parole, sta nell’ignorare che emergenze e
massacri di massa globali fanno parte dell’inerzia implosiva del
capitalismo contemporaneo; anzi, sono gli ingredienti principali di un macabro
disegno di distruzione (in)controllata.
Dovrebbe ormai essere chiaro che tanto il capitale quanto i suoi grotteschi
rappresentanti non provano che indifferenza rispetto alla quantità di dolore
che infliggono all’umanità. In quanto pulsione anonima, il capitale non è che
la cieca ripetizione della sua legge di movimento; definizione
che qualifica non solo la compulsione interna all’auto-espansione del profitto,
ma anche la determinazione esterna delle condizioni di possibilità di tale
legge interna, tra cui 1) la fabbricazione/manipolazione di “crisi globali”, da
far esplodere quando necessario; e 2) la repressione autoritaria del dissenso,
dalla criminalizzazione dei “no-vax” alla repressione delle voci
filo-palestinesi. Consciamente o inconsciamente, le élite sono l’espressione
antropomorfica di ferrei imperativi sistemici. Sempre più schiacciato da un
declino inarrestabile, l’occidente “democratico” rivela ancora una volta il suo
vero volto – con l’ausilio della solita eterogenea manovalanza di cheerleader
pseudo-intellettuali.
A questo proposito, i cani da guardia della “teoria del complotto,” sempre
pronti a ringhiare contro chi non si allinea alla versione ufficiale, ignorano
non solo che il complotto è un fatto storico comune a tutte le società,
ma soprattutto che il potere della macchina sociale del capitale è ipso
facto complottista. Menzogne e propaganda sono parte integrante del
modus operandi della globalizzazione capitalista, forma di universalismo tanto
fasulla quanto violenta. La stessa modernità può dirsi iscritta a priori in una
narrazione sociale oggettivata, “reificata”, programmata per ricreare le
proprie condizioni di possibilità, indipendentemente dalle nefandezze
necessarie a farlo. Secondo Hegel la storia del mondo è ragione [Vernunft]
auto-causata e auto-realizzata[1].
Ebbene, questo processo di auto-causazione, di auto-produzione della storia
delle civiltà – che il capitale incarna alla perfezione in quanto
“auto-valorizzazione del valore” – non avrebbe luogo senza il governo segreto
delle classi dominanti, indipendentemente da quanto controproducenti o
deliranti possano poi rivelarsi le loro azioni. Meglio mettersi in testa che
oggi l’imperativo dei funzionari del sistema-mondo è puntellare i presupposti
finanziario-monetari di un modello socioeconomico in caduta libera. Visto da
questa prospettiva critica, il controllo esercitato da singoli soggetti risulta
indistinguibile dalla violenza oggettiva di sistema, così come il movimento del
capitale è indistinguibile dai suoi pianificatori seriali. Per questo l’attuale
guerra alle “teorie del complotto” è paragonabile alla guerra alle “eresie”
nell’Europa medievale[2].
La sua principale funzione ideologica è tappare la bocca al pensiero critico,
stigmatizzando qualsiasi domanda, dubbio, o convinzione che sia conflittuale
rispetto alla narrazione ufficiale.
Il principale difetto degli approcci moralistici nei confronti dell’Ucraina
o di Gaza è che perdono di vista la contraddizione chiave del sistema: il fatto
che viviamo in un’epoca di emergenze globali compulsive, alle
quali, in termini di logica sistemica, non può essere permesso di
fermarsi. Dal punto di vista della riproduzione del nostro mondo, guerre e
distruzioni difficilmente possono essere evitate, o addirittura messe in pausa.
Siamo arrivati al punto per cui la discesa nella barbarie diventa elemento
imprescindibile per la permanenza delle attuali relazioni capitalistiche.
Il problema vero e urgentissimo da affrontare – sia filosoficamente che
politicamente – è come intervenire nell’ineluttabile; come concepire
interventi che non rimangano imprigionati nella perversa spirale del collasso
in atto.
Sui media alternativi, il parallelo tra il 7 ottobre e l’11 settembre
attinge alla loro comune “sindrome di Frankenstein”. Proprio come gli Stati
Uniti sono stati colpiti dalla loro creatura da laboratorio allevata dalla CIA,
Israele si troverebbe ora ad affrontare il contraccolpo di un “mostro” che i
servizi di intelligence di Tel Aviv hanno alimentato per decenni, inizialmente
con l’obiettivo di indebolire l’OLP (laica) di Yasser Arafat, e far naufragare
la soluzione dei due stati indipendenti (Accordi di Oslo del 1993). Per quanto
plausibile, questo parallelo risulta irrilevante se non lo inseriamo nel
contesto profondo. La stessa “nebbia di guerra” alimentata dai media nasconde
il motivo elementare del conflitto: il massacro è destinato ad espandersi a
macchia d’olio in modo tale che lo stesso fenomeno espansivo possa interessare
il denaro. Questa connessione tra credito e violenza è diventata il filo
conduttore della storia del capitalismo. Negli ultimi anni, la decomposizione
della nostra civiltà ha subito una tale accelerazione da mettere in secondo
piano tutte le principali contrapposizioni geopolitiche. Oggi le emergenze
planetarie devono susseguirsi a ritmo serrato perché i presupposti finanziari e
monetari del sistema globalizzato stanno saltando. L’illusione di un’economia
drogata di debito verrà dunque mantenuta in vita solo grazie a ulteriori
sacrifici di “animali umani” – tanto per citare il
ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant (peraltro, tutti gli esseri umani
sono, in senso stretto, “animali umani” – solo che alcuni sono decisamente più
uguali di altri).
Quanto sopra non dovrebbe stupirci. Se la storia della modernità è
costellata di macerie, il capitalismo è sempre stato un’“impresa bellica”. I
suoi manager funzionali non hanno mai esitato a mandare milioni di esseri umani
al macello per soddisfare le esigenze di sistema, insieme alle loro. Abbiamo
forse già dimenticato i legami tra le élite finanziarie anglo-americane e la
Germania nazista? JP Morgan & Co., Standard Oil, General Motors, Ford,
Harrison Brown, Vickers-Armstrong e molti altri giganti del “mondo libero”
finanziarono la resistibile ascesa al potere di Hitler e continuarono a
investire capitali nella Germania nazista durante tutta la Seconda Guerra
Mondiale (anche grazie alla mediazione della Banca dei Regolamenti
Internazionali, la “banca centrale delle banche centrali” con sede a Basilea)[3].
Autobahns, bombardieri Stukas, sommergibili U-Boot, veleno Zyklon B, campi di
sterminio, ecc. – tutti mostrano le impronte digitali dell’occidente. Questi
banchieri, investitori, e amministratori delegati non erano solo mele marce in
cerca di facili profitti; c’era molto più metodo nella loro folle brama. Lo
stesso devastante metodo nascosto nel Trattato di Versailles che, come
profetizzato da Thorstein Veblen già nel 1920[4],
non era che un ‘bluff diplomatico’ inteso a fomentare il radicalismo in
Germania, risparmiando di proposito i ‘proprietari assenti’ del paese (il suo
‘establishment imperiale’), e dunque contribuendo a ripristinare un ‘regime
reazionario’ in vista della ‘continuazione dell’impresa bellica’. Non possiamo
cogliere l’essenza della modernità se la scolleghiamo dalla potenza di fuoco
del capitale inteso come disordine sociale compulsivo, che oggi –
ribadiamo il punto centrale – viene sciorinato senza soluzione di continuità
per evitare che emerga il marcio, la bancarotta di sistema.
Il potenziale distruttivo dell’odierno “capitalismo emergenziale” è
immenso. L’architettura sociale del sistema produttore di merci – che, come
scrisse Walter Benjamin più di un secolo fa, è in realtà
un culto religioso, tale appunto da richiedere sacrifici umani –
attraversa oggi la sua fase terminale; al punto che solo gli eccidi delle
“guerre giuste” possono nascondere il fallimento del suo modus operandi. Le
“guerre giuste” dell’occidente “democratico” continuano (a fatica) a ergersi a
rappresentanti del Bene contro presunti nemici che, quando reali, l’occidente
ha consapevolmente allevato, o prodotto attraverso un’incessante oppressione
sistemica. E questi nemici non mancano mai, anche perché l’oppressione non si è
mai fermata. Ma è fondamentale rendersi conto che queste guerre funzionano
come calamite per la creazione di credito. Vengono cioè
attivate affinché quantità sempre crescenti (e mai sufficienti) di liquidità
elettronica, creata al computer, possano essere immesse nel sistema drogato di
debito. È inutile girarci intorno: oggi più che mai i leader politici, le
organizzazioni militari, le forze di intelligence e di controspionaggio che
coordinano gli eventi bellici sono tutti “prezzati” come merci nel mercato del
grande capitale.
Al 18 ottobre 2023, l’importo totale di dollari in circolazione nel mondo intero ammonta a 2.3 mila
miliardi, mentre il debito nazionale degli Stati Uniti ha superato i 33 mila
miliardi, ed è ampiamente fuori controllo. Anche solo intuitivamente, questo
dato dovrebbe dirci che stiamo danzando su una polveriera: una crisi di
liquidità che, per essere posticipata, esige un aumento esponenziale del
debito, ovvero della causa medesima del problema. Inoltre, quando
si aumenta il costo del debito – come la Federal Reserve ha fatto dal marzo
2022 (primo rialzo dei tassi d’interesse) – senza poterlo ripagare, si devono
giocoforza trovare motivi (capri espiatori) per creare liquidità sintetica
(attraverso la banca centrale quale “prestatrice di ultima istanza”), almeno
per coprire il servizio di quel debito. Il paradosso del nostro tempo è che la
vita sociale è ostaggio di un sistema di sfruttamento socioeconomico basato su
montagne di titoli di debito tossico che possono solo continuare a lievitare,
con tutto ciò che ne consegue in termini di caos e distruzione. Come ho discusso
nei miei articoli precedenti su La fionda, la crescita
dell’economia reale oggi non può più neppure sognarsi di colmare il divario con
l’indebitamento strutturale, poiché tale crescita è sempre più schiacciata
dalla produttività tecnologica; mentre le entrate fiscali, in questo contesto,
non hanno nulla a che vedere con alcuna ipotesi di crescita. Al momento, nessun
altro evento al mondo genera più denaro della guerra (incluse le guerre
epidemiologiche). Ciò conduce a una macabra conclusione: il rischio finanziario
– oggi particolarmente acuto nei mercati obbligazionari – può oggi essere
misurato non solo in valute fiat, ma anche in vite umane.
La coreografia da Truman Show in cui ci troviamo a vivere ci nasconde la
permanente insolvenza di sistema. Quest’ultima può essere visualizzata come uno
tsunami di margin calls che annienterebbe il settore
finanziario e l’economia reale in un colpo solo. Per questo motivo l’unica vera
domanda che conta oggi è la domanda di misure monetarie di emergenza,
vale a dire la creazione (inflazionistica) di masse di denaro elettronico da
immettere nell’architettura finanziaria per rinviare un catastrofico
congelamento di liquidità il cui potenziale devastante, tuttavia, tali
iniezioni monetarie non fanno che peggiorare. Ma queste cose non finiscono
nelle prime pagine dei giornali, o nei dibattiti televisivi. Si preferisce
attendere il crac per poi dirsi sorpresi che sia successo.
È altrettanto significativo che negli Stati Uniti si registra un numero
record sia di senzatetto che di forza lavoro inattiva (che non cerca più lavoro). Dal 2020 gli
inattivi ammontano a circa 100 milioni di adulti (contro 161 milioni di
occupati o in cerca di lavoro), e sono in crescita del 58% rispetto al 1990. Inoltre, il 36% degli americani non possiede risparmi, e un altro 19% ha meno di 1.000
dollari da parte. Se mettiamo questo quadro desolante sullo sfondo dello
spietato orologio del debito americano, il motivo per cui il nostro “sistema di
crescita” sta sponsorizzando non solo il “basso consumo energetico”
(capitalismo verde), ma anche guerre a getto continuo, dovrebbe esserci chiaro.
Stiamo ora entrando in acque davvero agitate – letteralmente. È probabile
che alcune tra le principali rotte marittime siano influenzate dall’espansione
del conflitto in Medio Oriente, il che significa che commercio e materie prime
(compresa l’energia) sono a rischio di colli di bottiglia – un acceleratore sicuro
per la recessione. È altrettanto possibile che presto, vista la pressione che
continua a subire, l’Iran minacci di chiudere lo stretto di Hormuz – la
principale arteria di transito per il commercio di petrolio e di gas a livello
mondiale – innescando un effetto domino in grado di mettere il turbo alla
crisi, e spalancare le porte alla (tanto attesa) recessione globale. Come nel
caso del Covid, questa situazione costringerebbe le banche centrali a stampare
denaro in modalità Lo Turco (dal celebre film con Totò La banda degli
onesti), ovviamente usando la guerra come capro espiatorio. Il presidente
della Banca Mondiale Ajay Banga ha già definito l’attuale nuovo conflitto uno
“shock economico globale”. Senza cattive notizie, insomma, è probabile che i
tassi rimangano higher for longer (secondo la ricetta di
Jerome Powell); tuttavia, più a lungo rimarranno alti, più probabile sarà un
evento creditizio. A oggi, le perdite “non realizzate” delle banche statunitensi,
relative a portafogli obbligazionari conservati fino a scadenza, sono da
record storico: 650 miliardi di dollari. Si tratta di obbligazioni detenute nei
bilanci delle banche che, sulla base dei tassi di interesse attuali, generano
perdite non ancora contabilizzate. Forse questa spada di Damocle ha qualcosa a
che fare con ‘i tagli silenziosi di migliaia di dipendenti operati
dalle grandi banche’; forse c’è una connessione tra i massicci licenziamenti di Bank of America e le sue monumentali
perdite “non realizzate” di 131,6 miliardi di dollari. Ma ciò che conta davvero è
che un intero ecosistema finanziario garantito dai titoli del Tesoro USA
(Treasury Bills) si trova ora esposto a una mega margin call interplanetaria.
E forse tutto ciò ha qualcosa a che fare con il tempismo del “nuovo 11
settembre”.
Gaza, come il Donbass, era una bomba a orologeria pronta a esplodere. Non è
forse legittimo chiedersi come mai Israele, uno Stato basato letteralmente
sull’intelligence e sulla sicurezza (Mossad e Shin Bet), si sia fatto
sorprendere da soldati di Hamas entrati nel suo territorio via terra, mare, e
aria (con parapendii motorizzati)? La storia della facile violazione del
“sistema di sicurezza senza pari” di Israele suonerà a molti altrettanto
assurda di altre “storie ufficiali” che ci sono state raccontate negli ultimi
tempi, e in ogni caso dal 22 novembre del 1963. Naturalmente, un simile attacco
non deve per forza di cose essere un false flag. Più
realisticamente, può essere consentito o facilitato. Ma indipendentemente dalle
modalità dell’attacco, rimane la realtà del caos e della destabilizzazione, che
se solo ampliamo lo sguardo sul contesto implosivo del nostro mondo non possono
non apparire gestiti dall’alto.
Fondamentale per il corretto funzionamento ideologico dello scenario di
emergenza è la sconvolgente rappresentazione mediatica dell’orrore. La
narrazione ufficiale deve insomma potersi condensare in poche immagini di
indicibile ripugnanza, il cui scopo immediato è quello di sgombrare il terreno
da qualsiasi dubbio o opposizione circa la liceità di una ritorsione
“proporzionata”, come appunto quella di Israele nella striscia di Gaza. Per
comprendere l’uso ideologico dell’orrore potremmo ricorrere al concetto
kantiano di sublime, sviluppato dal filosofo di
Königsberg nella Critica del giudizio alla fine del XVIII
secolo: un’esperienza estetica talmente soverchiante da trascendere sia le
forme sensibili di riferimento che le nostre capacità intellettuali. Il sublime
ci mette di fronte a un livello di disordine tale da rendere vano qualsiasi
tentativo di contenerne o organizzarne il senso in termini mentali. Mi pare
indiscutibile che i media abbiano sviluppato la capacità perversa di utilizzare
il sublime, in termini negativi, come “rappresentazione
dell’irrappresentabile”. Che si tratti dei voli di linea dirottati sulle Torri
Gemelle, delle efferate azioni dell’Isis, dei camion di Bergamo carichi di bare
a inizio “pandemia”, della carneficina di Bucha, o del massacro del kibbutz
israeliano “con 40 bambini decapitati”, siamo di fronte a quelli che potremmo
chiamare UMO, Unidentified Media Objects. Che siano vere,
parzialmente vere o false, la loro missione – tecnicamente facilitata
nell’epoca dei deepfakes – è strumentalizzare l’essenza
mostruosa e immane del reale che, secondo la celebre definizione di Kant,
‘supera ogni misura dei sensi’[5].
Il potere dell’informe – come appunto la notizia dei 40 bambini israeliani
decapitati, lanciata e poi misteriosamente ritirata dalle cronache – non sta
tanto nel commuoverci, ma nel costringerci a sospendere il giudizio critico e
accettare la versione ufficiale dei fatti. Mi sembra allora legittimo chiudere
con una celebre citazione attribuita a Malcolm X: ‘Se non stai attento, i
giornali ti faranno odiare le persone che vengono oppresse, e amare le persone
che opprimono.’
[1] GWF
Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto (Roma: Laterza,
1999), pp. 265-66.
[2] Cfr.
D. Coady, ‘Conspiracy Theory as Heresy’, in Educational Philosophy and
Theory, 55:7, 2021, pp. 756-759.
[3] A.
Lebor, Tower of Basel: The Shadowy History of the Secret Bank that Runs
the World (New York: PublicAffairs, 2014).
[4] T.
Veblen, ‘Review of John Maynard Keynes, The Economic Consequences of
the Peace’, in Political Science Quarterly, 35 (1920), pp.
467-472.
[5] Immanuel
Kant, Critica del giudizio, Torino, UTET, 2013, p. 204.
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