Il linguaggio politico
è progettato per far sembrare vera la bugia, rispettabile l’omicidio e
dare una parvenza di solidità al puro vento (G. Orwell)
Possiamo anche non occuparci della guerra, ma è la guerra che si occupa di
noi. A seconda dei criteri di riferimento, le guerre possono classificarsi in
giuste, opportune e legali, o anche in un intreccio di tali aggettivazioni.
Il criterio della giustizia dipende dall’ideologia o etica
di chi lo invoca, possiede un forte contenuto di soggettività e ad esso fa
ricorso in chiave giustificativa chi usa la forza militare per combattere una
presunta ingiustizia (termine questo anch’esso aperto a un labirinto
d’interpretazioni). Il criterio dell’opportunità si caratterizza
invece per una forte valenza politica: a un certo punto, secondo il ragionare
di alcuni, la guerra emergerebbe come sola risoluzione di contenzioni
altrimenti irrisolvibili. Il criterio della legalità, infine, sulla
carta appare il meno incerto, il solo che possieda i contorni di una qualche
riferibilità oggettiva: per il diritto internazionale, infatti, la guerra
diventa legittima in due casi: a) quando è autorizzata dal
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (evento invero assai raro); b) in
caso di legittima difesa, ai sensi dell’art. 51 della Carta delle N.U., nel
qual caso, per restare nel recinto della legittimità, la reazione deve
rispettare i principi di moderazione e proporzionalità.
Sui teatri di guerra, alla violenza militare codificata dal diritto s’accompagna
spesso un’altra pratica, il cosiddetto terrorismo, una pratica la
cui nozione condivisa è tuttora assente tra le norme internazionali. Ciò che lo
ha impedito (manca una convenzione in proposito), a dispetto dei tentativi
susseguitisi nel tempo, sono state le contrapposte posizioni degli Stati Uniti
– insieme ai paesi occidentali/europei, sempre chini agli ordini del padrone, e
al principale alleato americano in MO, Israele – da una parte, e il mondo
arabo-mussulmano dall’altra, su un aspetto fondamentale, l’inclusione o meno
della nozione di terrorismo di stato. Tale ipotesi, infatti,
sostenuta in particolare dai paesi arabi-mussulmani, aprirebbe la strada alla
possibile incriminazione formale davanti alla Corte Penale
Internazionale (per quella morale basta l’evidenza) anche dei
citati paesi. È nella logica dell’evidenza che un atto di violenza diventa
terrorismo quando è finalizzato a diffondere il terrore, uccidendo persone
innocenti e distruggendo infrastrutture civili (diverse legislazioni nazionali,
del resto, lo qualificano in questo modo). Ed esso è tale sia se commesso da
gruppi armati mossi da ragioni politiche, religiose, etniche o altro, sia se i
responsabili si trincerano dietro le insegne protettive di uno stato (apparati
militari, servizi, polizia, etc.). Sempre di terrorismo si tratta!
Deve aggiungersi che rispetto alle azioni di gruppi armati l’attività
terroristica risulta più efficace, violenta e sistematica quando è perpetrata
da uno stato (basti pensare alle dittature argentina e cilena di Videla e
Pinochet, e a quanto avviene ora a Gaza), poiché quest’ultimo dispone di armi,
uomini e risorse tecnologiche assai più cospicue.
Quando a commettere atti di terrorismo è un gruppo armato, la reazione
dello stato contro i colpevoli di terrorismo dovrebbe assumere i contorni di
un’operazione chirurgica e rispettare le norme della civiltà giuridica, che
rifugge dal medievale concetto di colpa collettiva e non cerca la vendetta
trasversale. Inoltre, trattandosi di fenomeno politico, poiché il terrorismo
non è un’attività di criminalità comune che punta all’illecito arricchimento,
uno Stato degno di tal nome deve affrontare le radici del suo sorgere, mettendo
a nudo i problemi che lo hanno generato. In Palestina, lo stato di Israele (e
il suo protettore americano) si allontana dalla civiltà e si limita a copiare
il terrorismo altrui, seguendo la pratica della disumanità e della rappresaglia
persino contro bimbi, donne, anziani!
La reazione contro i colpevoli – siano essi movimenti sub-statuali o uno
stato – deve rispettare la vita dei civili innocenti, per non diventare a sua
volta terrorismo. Nel vivere civile, nessuno oserebbe sostenere il diritto
della polizia a incendiare la casa di un assassino insieme alla sua famiglia,
persino qualora fosse provato che egli si trovasse al suo interno.
Quando si cercano le cause remote di un conflitto, ingredienti religiosi,
etnici ed economici si mescolano a quelli che coinvolgono gli interessi
dell’impero (o imperi) di turno. Nel caso in esame, la questione palestinese è
di una semplicità imbarazzante, a dispetto delle contorsioni di analisti che
nel mondo intero sono alla vana ricerca di complessi contorni eziologici: vi è
un popolo oppresso e un popolo oppressore, quest’ultimo libero di agire con la
massima impunità perché sostenuto dalla più grande potenza militare del
pianeta, gli Stati Uniti. Punto.
Ma, come ha rilevato dall’alto della sua venerando età persino l’ex
segretario di stato americano H. Kissinger, uno dei più grandi organizzatori di
colpi di stato mai apparsi sulla terra: essere nemici degli Stati Uniti
è pericoloso, essere amici degli Stati Uniti è fatale. E i contorni della
storia diranno se gli accadimenti che si svolgono oggi in Palestina/Israele non
presenteranno il conto, tramutandosi nell’incipit di un declino
strategico dello stato di Israele.
Quanto alla pace, se il suo perseguimento non si accompagna
alla giustizia, affrontando gli squilibri sottostanti di sovranità
e distribuzione della ricchezza, esso resta velleitario, mentre gli eventuali
risultati raggiunti tendono a dileguare nel tumulto degli eventi.
Quando si getta uno sguardo sulla genesi e le responsabilità dei conflitti
emerge inequivocabile che ad arricchirsi sono sempre alcuni gruppi di potere,
sia nei paesi che li hanno iniziati o sono rimasti neutrali, sia in quelli che
li hanno subiti. Una lunga schiera di analisti (v. per tutti Lindsay
O’Rourke, Covert Regime Change, Cornell University, 2018) ripetono
da anni con documenti e articoli/interviste (facilmente reperibili sul web) che
a partire dal secondo dopoguerra i principali beneficiari dei conflitti sono
stati gli Stati Uniti. Le ragioni sono note anche alle pietre e dunque
prendiamo qui la libertà di non ripeterle. Nel mondo presente, essi
costituiscono il supremo garante strategico-militare dell’egemonismo
estrattivo, una plutocrazia bulimica che promuove i diritti umani bombardando
popoli indifesi, esportando la democrazia con ordigni al napalm, diffondendo
uno strumentale complesso di colpa olocaustico scontabile solo
nell’eternità, imponendo la mistica di una cultura superiore, della
patologia di una nazione da Dio voluta per governare un mondo irrequieto – al
cui fine si renderebbero necessarie le 800 basi militari disseminate nel mondo
– più altre perle di mitologica preminenza. Non si valuti tale affermazione
sulla base di un pregiudizio antiamericano, poiché l’avversario – è
bene ripeterlo a chiare lettere – non è certo il popolo americano,
politicamente tra i più analfabeti del pianeta, ma la sua oligarchia plutocratica,
predatoria e bellicista.
Nel suo libro magistrale (1984), George Orwell sostiene che la
guerra non ha il fine di sconfiggere il nemico, ma di preservare la medesima
struttura divisoria all’interno della società guerreggiante, vale a
dire proteggere i privilegi dei ricchi e mantenere i poveri nella loro
condizione, con l’aiuto dei ceti di servizio, politici, giornalisti e burocrati
(esercito, forze dell’ordine, accademia e via dicendo), tutti compensati con
onori, carriere e laute prebende. Pace e guerra, nell’intuito critico di
Orwell, tendono a sovrapporsi, perdendo la loro caratteristica di contesti
contrapposti, e diventano due profili di un medesimo destino, inquadrati
nell’ontologia dell’immutabilità: il Ministero della Pace è incaricato di preparare
la guerra, quello della Verità di fabbricare menzogne, il Ministero dell’Amore
di praticare la tortura, quello dell’Abbondanza di rendere scarsi beni e
servizi, in una distopia senza fine, riflettendo la nota trilogia
ossimorica: la Pace è Guerra, la Libertà è Schiavitù, l’Ignoranza è
Forza. Divenendo perenne, la nozione di conflitto cessa di essere tale e
diventa guerra-pace, uno stato fusionale dove i contorni si perdono
nella nebbia.
Non sono i popoli a voler le guerre, ma i governi. Secondo la narrativa
giustificazionista dei ceti dominanti, in un sistema democratico i governi
riflettano sempre il volere del popolo. In verità, la nostra democrazia è una
mistica semiologica. Sono i governi a controllare i popoli, non viceversa.
Pochi ma calzanti esempi: il 1.mo settembre 2022, il Ministro degli esteri
tedesco, Annalena Baerbock, afferma: “anche se la maggioranza dei tedeschi
è contraria all’invio di armi all’Ucraina, a noi non importa, lo facciamo lo
stesso”. Qualche mese prima, l’ex cancelliera tedesca Angela Merkel – seguita
poi dall’ex presidente francese, François Hollande, e dall’ex presidente
ucraino, Petro Poroschenko – confessa candidamente che quando era alla guida
della Germania aveva aderito agli accordi di Minsk 1 e 2 (2014 e 2015) solo per
guadagnare tempo e prepararsi meglio alla guerra contro la Russia, il suo
intento non era la soluzione della tragedia del Donbass, che se avesse ottenuto
l’autonomia linguistico/culturale prevista nei citati Accordi – firmati anche
dalla Russia! – sarebbe rimasto sotto sovranità ucraina, evitando al mondo la
calamità della guerra.
Un filosofo del secolo scorso affermava che i conflitti armati finirebbero
tutti e per sempre se venisse adottata la seguente norma costituzionale
universale: “coloro che dichiarano una guerra devono recarsi essi stessi al
fronte, insieme ai loro figli e parenti”. I potenti decidono le guerre, ma a
morire è sempre la povera gente.
La piccola politica (quella dei nostri governi) si occupa
di cose piccole, di una finta dialettica tra partiti che si caratterizzano solo
per la diversa capacità d’intrattenimento serale. La grande politica invece
vuole cambiare la società, si batte per la giustizia, il lavoro, la libertà dal
bisogno, i servizi pubblici, l’emancipazione culturale, e sulla scena
internazionale si oppone alla guerra, ai massacri, al
colonialismo/neocolonialismo, lotta per l’emancipazione dei popoli,
rispettandone i diritti e le diversità.
Uscire dalla servitù richiede consapevolezza e coraggio politico, un
percorso irto di ostacoli, che non è dietro l’angolo. Negli anni della guerra
fredda, quando l’Unione Sovietica era una potenza politica, militare e
ideologica, era possibile dissentire, sui media e nelle piazze. Oggi, la Grande
Menzogna prefabbricata non tollera l’ombra del dissenso. Per alcuni, si tratta
di protervia di potere, l’opposizione essendo stata frantumata e resa innocua.
Per altri, si tratta di un segnale di debolezza, l’ermeneutica da noi
preferita. La speranza non è morta. I tempi non saranno brevi, ma c’è luce
oltre l’orizzonte.
“Paura, dubbio e cautele di tipo ipocondriaco ci stanno chiudendo in una
gabbia. Abbiamo invece bisogno del respiro della vita. Non v’è nulla di cui
aver paura. Al contrario, il futuro ci riserva più ricchezza, libertà economica
e opportunità di vita di quante non ne abbiamo mai godute in passato. Non v’è
ragione alcuna per non sentirci audaci, aperti all’avventura, attivi e alla
ricerca di tante possibilità. Là di fronte a noi, a bloccare la via vi sono
solo alcuni anziani signori, stretti nei loro abiti talari, che hanno bisogno
di essere trattati con un po’ di amichevole irriverenza e buttati giù come
birilli”. Non sono queste parole di chi scrive, e a pronunciarle non è stato
Marx o Lenin, ma John Maynard Keynes, il più grande economista liberale del
XX secolo (scuola alla quale noi, pure, non apparteniamo), un uomo che si è
battuto per un’economia etica e un benessere condiviso, sensibile ai bisogni
primari degli uomini, il primo dei quali, sia per lui che per noi, resta la
pace.
https://www.lafionda.org/2023/11/02/riflessioni-su-guerra-politica-e-pace-unanalisi-critica/
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