L’Egitto rivà alle urne, alla farsa del voto farsa. Con
Sisi che rivincerà su un manipolo di candidati cangianti che presentandosi gli
reggono il gioco del pluralismo. Ma per il cittadino medio, che si rechi o meno
al seggio, prosegue la vita sospesa a un filo per nulla democratico. Se
qualcosa non va liscio nella sua quotidianità di suddito ossequiante o silente
e omertoso, può finire male. Molto male. Si può scivolare nelle galere dove i
giorni non si contano, finirci anche per un semplice battibecco. Ancor peggio
se con un poliziotto. Sei ambulante, con la licenza scaduta, l’uomo in nero ti
taglieggia. Di solito paghi una multa che lui intasca di persona, un pizzo, che
ripropone per giorni. Ti risenti e t’inguai con le tue mani. Ti portano via in
un commissariato. Ti umiliano e bastonano. Se hai qualcosa da ridire, ti
spediscono a Tora e simili. L’abbiamo raccontato dal 2011, quando nasceva e
presto tramontava il sogno dell’abbattimento d’un regime. L’abbiamo ripetuto cento
volte rilanciando le denunce di associazioni dei diritti. Negli anni della
“normalizzazione” la lobby militare ha creato un’immensa prigione sociale e un
sistema detentivo che si perpetua. Se qualcuno ne esce - com’è accaduto a
Patrick Zaki, graziato dal presidente-oppressore - altri cento Zaki restano
seppelliti nelle celle. Funziona come per le elezioni: si tengono, ci sono
alcuni candidati, dunque prevale la maschera della democrazia. Zaki è stato
liberato, perciò la giustizia egiziana funziona e garantisce diritti e libertà.
Quanto è accaduto prima allo studente dell’Alma Mater non ha importanza. Così
decine di migliaia di egiziani restano stipati in venti per cella oppure ci
ritornano, com’è accaduto ad Ahmed Orabi da oltre un anno alla terza incarcerazione.
I suoi patimenti iniziano con una menomazione gravissima: la
perdita dell’occhio sinistro. Colpito da un proiettile di gomma che i cecchini
delle forze di Sicurezza sparavano dai tetti attorno a una piazza Tahrir ancora
in subbuglio. Precisamente dodici anni fa, a Mohamed Mahmud Street, pieno
centro del Cairo, i cordoni dei manifestanti e quelli dei poliziotti entravano
in collisione. Lacrimogeni e cariche disperdevano la folla mentre dai tetti
partiva il tiro al bersaglio sui singoli. L’occhio sinistro di Ahmed venne
centrato e da quel momento la vista lacerata. Altri conobbero una sorte ancora
più cruenta, ebbero la testa spappolata dalle fucilate. Ma l’esistenza di Ahmed
non fu meno crudele. Alla menomazione permanente s’aggiunsero periodici fermi
tramutati in arresto. L’occhio perduto era il segno d’una battaglia, combattuta
nella parte sbagliata, quella perdente dei sognatori di Tahrir, mentre
prevaleva la lobby di Tantawi e compari che faceva da anticamera al regime di
Sisi. Se per i ragazzi di Tahrir l’orbo Ahmed è il simbolo d’una resistenza
alla restaurazione militare, per il clan della repressione quella ferita è la
prova di chi si opponeva alla forza delle Forze Armate. Arrestatelo dunque,
sbattete in cella quelli come lui segnati dai proiettili, quei corpi non
trasformati in cadaveri che s’ostinano a non piegarsi e morire. Mesi e anni
dopo, quando nessuno osa più neppure riunirsi in capannello, non sollevare
braccia e bandiere patrie per manifestare, i mukhabarat vanno
alla ricerca dei segnati dalla rivolta. Ahmed, lo sfregiato dai proiettili di
regime, porta scritto in volto il desiderio di libertà, per questo va
riarrestato, come gli è accaduto due volte senza motivo. L’ultima da un anno a
questa parte. Da novembre 2022 è in galera perché nel novembre 2011 era a
Mohamed Mahmud Street, a gridare slogan per elezioni libere, per la libertà
della nazione e del suo popolo. Sisi arresta a ritroso, attaccando
l’appartenenza a quella dignità che le vittime dei suoi compari, diventate sue
vittime portano impresse sul volto. E quest’Egitto canaglia gode da anni della
comprensione, protezione, speculazione dei nostri governanti.
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