Opera prima di Donatella di Pietrantonio, una storia familiare, con la quale occorre fare i conti. Una mamma ormai vecchia è seguita da un figlia, che ritrova la madre, i loro rapporti sono stati freddi, lontani, dolorosi.
La mamma faceva parte di una
famiglia contadina, poverissima, ai limiti della sussistenza, a volte sotto
quei limiti.
Quando Esperina partorisce la
bambina i ritmi della vita contadina costringono la mamma a un rapporto minimo
e superficiale.
La bambina cresce, soffrendo della
mancanza di amore materno, alla fine andrà via, e si farà la sua vita.
Ma quando la madre ha bisogno la
figlia riappare, per aiutarla, per quanto possibile, la madre è diventata come una bambina.
E per la figlia sarà l’occasione di
fare i conti, di capire, di spiegare le ragioni di entrambe.
Il racconto della vita della madre,
della sua famiglia di origine, è quello di una famiglia poverissima, di una
comunità ai margini dell’economia, quella contadina e di sussistenza, come in
quasi tutta l’Italia, che ha fornito i milioni di migranti (economici) che
hanno popolato il mondo*.
Il libro non vi lascerà
indifferenti, se siete ancora vivi.
*trovate e guardate anche questo
film
(Manodopera – Interdit aux chiens et aux italiens),
se potete, per sapere qualcosa di quel nostro mondo antico, ma non troppo.
Una donna, ormai anziana, mostra i primi segni della malattia
che le toglie i ricordi, l’identità, il senso stesso dell’esistenza. È tempo
per la figlia di prendersi cura di lei e aiutarla a ricostruire la sua storia,
la loro storia. Inizia così il racconto quotidiano di piccoli e grandi
avvenimenti, a partire dalla nascita della mamma, Esperia, e delle sue cinque
sorelle, nate da un reduce tornato comunista dalla Grande Guerra e da una
contadina dritta ed elegante, malgrado le fatiche della campagna. I fili delle
loro esistenze si svolgono dagli anni Quaranta fino ai nostri giorni, in un
Abruzzo “luminoso e aspro”, che affiora tra le pagine quasi fosse una terra
mitologica e lontana. Giorno dopo giorno sfilano i personaggi della famiglia,
gli abitanti del piccolo paesino ancora senza acqua né luce; personaggi
talmente legati a una terra avara, da tollerare a malapena trasferimenti a
breve distanza – la ricerca di un lavoro, l’occasione di poter frequentare una
scuola “in città” – partenze che si trasformano in vere emigrazioni con il solo
scopo del ritorno. Sono ricordi dolcissimi e crudeli, pieni di vita e di
verità, che ricostruiscono la storia di un rapporto e di un’Italia
apparentemente così lontana eppure ancora presente nella storia di ognuno di
noi.
…ne esce una confessione, quasi
un’elaborazione di sentimenti presenti in età adulta in una donna che si trova
a invertire il suo ruolo da figlia a madre-badante della sua genitrice anziana
ammalata. A complicare la situazione c’è un prerequisito: il loro rapporto è
andato storto da subito, ossia fin dalla nascita. La scrittura adoperata, in
più, non è sempre sciolta e scorrevole. Ci son diverse metafore che danno una
certa poeticità al romanzo e nello stesso tempo in antitesi vi son frasi
d’impatto – mia madre sa di morte, l’amore per lei è colpevole di non aver
saputo trovare le vie del suo – se non addirittura interi periodi in cui
pensieri e sentimenti forti vengono fuori in maniera pungente. Allora bummm un
colpo violento allo stomaco scatena la domanda: perché proprio con chi dovremmo
avere un rapporto amorevole, di gratitudine per antonomasia, siamo molto
intransigenti e giudici? Perché è così difficile perdonare? Lo si può capire
dai flash-back molto esaudenti presenti, nei quali oltre che essere narrazione
di vita soggettiva con liberazione di emozioni della protagonista e soprattutto
della voce narrante della figlia, descrivono un paesino montano della regione
abruzzese agli inizi del secolo…
…Quando il libro mi è stato regalato, non l’ho letto subito, ma l’ho
tenuto in serbo come qualcosa di prezioso. La scrittura di Donatella Di
Pietrantonio mi cattura. Sempre. Già dalla prima pagina ho riconosciuto
sentimenti provati, sensazioni nebulose che fatichiamo ad estrapolare dal
profondo, qualcosa che rimane lì, molto ben conservato.
E’ un’esplorazione audace che si libera attraverso espressioni che raspano
dentro, grattano, non si accontentano della superficie, in uno stile secco e
fluido.
Certe volte la odio. Odio il tempo che mi costa. Non riesco ad
usarle dolcezza. Non la tocco mai. Immagino solo di poterla accarezzare, sulle
braccia, le mani deformate dall’artrosi. Non mi avvicino, se ci provo sento la
forza che si oppone quando accosti i poli dello stesso segno di due calamite.
Non le ho perdonato niente.
Consapevole di un’eredità che non si può scrollare, la figlia cura la madre, ma
è incapace di prendersene cura.
Grazie davvero a quest’autrice che, mentre infonde stilettate alle nostre
coperture, ai tentativi di celare sofferenze mai dipanate, ci quieta nel
momento in cui riconosciamo le nostre imperfezioni.
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