venerdì 3 novembre 2023

Contro l’antipacifismo serve rileggere Rosa Luxemburg - Tomaso Montanari

 

In queste tristi settimane, sugli schermi italiani va in onda lo stesso copione della guerra in Ucraina (a proposito, qualcuno si interessa ancora a quell’interminabile massacro?): chi non si schiera con il governo israeliano, è considerato un traditore della democrazia, dei “nostri valori”, dell’Occidente. Anzi, peggio: chi dice (come il segretario generale dell’Onu) che gli atti di Hamas sono mostruosi e senza giustificazione, ma non senza un contesto che spiega come è stato possibile che qualche criminale giungesse a tanto (e che, dunque, forse è su quel contesto che bisogna agire) diventa un fiancheggiatore di terroristi, un verme della peggior specie. Naturalmente, il contrario non vale: chi si rifiuta di ammettere che uccidere un bambino palestinese a Gaza è criminale esattamente come uccidere un bambino israeliano in un kibbutz viene lodato come un sincero democratico.

Per non parlare della assoluta rimozione della terrificante contabilità che dimostra come i bambini uccisi da Israele a Gaza siano (già prima dell’invasione iniziata venerdì sera) il doppio dell’intero numero delle vittime israeliane di Hamas: il che ovviamente non cambia di una virgola il giudizio su Hamas, ma imporrebbe di averne uno identico sul governo israeliano.

Finalmente l’Onu ha detto l’ovvia verità, e cioè che “la punizione collettiva è un crimine di guerra”. Così Ravina Shamdasani, portavoce dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani, che ha contestualmente dichiarato che anche Hamas, lo scorso ottobre, ha commesso “crimini di guerra e atrocità”. Per Netanyahu varrà quel che giustamente vale per Putin: un mandato di arresto internazionale per crimini di guerra?

E se Hamas (considerato terrorista in Occidente, ma invece riconosciuto come interlocutore istituzionale in buona parte del resto del mondo: compreso un paese Nato, la Turchia) e il governo di Israele sono processabili per crimini di guerra, non è il caso di vedere come ciascuno di essi sia il principale nemico del loro stesso popolo? È ciò che dovrebbe dire una qualunque sinistra: non con la Palestina o con Israele, ma con il popolo palestinese e il popolo israeliano.

Nel terribile precipizio politico (così simile all’attuale…) che condusse all’innesco della Grande Guerra, il partito socialista tedesco si lasciò trascinare nella logica nazionalista, interventista, militarista. Ma Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg ebbero il coraggio di opporsi, dicendo esattamente questo: il principale nemico del popolo tedesco era interno, era il governo tedesco. Il prezzo fu altissimo. Il primo maggio del 1916, Liebknecht riuscì a pronunciare, del suo comizio a Potsdamer Platz, solo le prime parole (“Abbasso la guerra, abbasso il governo”), poi fu arrestato.

Entrambi vennero considerati traditori della patria, e Rosa, processata per incitamento alla diserzione, disse: “Noi pensiamo che per l’insorgere e per l’esito delle guerre non siano decisivi soltanto l’esercito, i ‘comandi’ dall’alto e l’obbedienza cieca in basso, ma che sia la grande massa del popolo lavoratore che deve decidere. Noi siamo d’opinione che le guerre possono venire condotte solo quando e solo finché la massa del popolo lavoratore o le fa con entusiasmo, perché le ritiene cosa giusta o necessaria, o almeno le sopporta pazientemente. Quando invece la grande maggioranza della popolazione lavoratrice arriva a convincersi – e svegliare in essa questo convincimento, questa coscienza è proprio il compito che ci poniamo noi socialdemocratici – quando, dico, la maggioranza del popolo giunge a convincersi che le guerre sono un fenomeno barbaro, profondamente immorale, reazionario e nemico del popolo, allora le guerre sono diventate impossibili”.

È esattamente quello che la sinistra oggi dovrebbe dire, in una pedagogia della pace che è l’unica speranza di non ripiombare in una guerra mondiale. Non è solo la sinistra marxista ad avere argomenti e parole da ritrovare. Il democristiano Giorgio La Pira affermava (dopo le bombe americane su Hiroshima e Nagasaki, e con parole che mettono i brividi pensando a Gaza) che “gli stati non hanno il diritto di uccidere le città”. Opponendo governi e popoli, egli argomentava: “Nessuno ha il diritto di distruggerle: devono essere custodite, integrate e ritrasmesse: non è cosa nostra, è cosa altrui… Nessuno, senza commettere un crimine irreparabile contro l’intiera famiglia umana, può condannare a morte una città”. Il vero e proprio odio contro il “pacifismo” che domina il discorso pubblico italiano scaturisce dalla convinzione dell’establishment occidentale che a difenderci sarà la guerra, non la pace. Nel 1914 un famigerato documento di 93 illustri intellettuali tedeschi (oltre a deplorare lo spettacolo di “negri e i mongoli aizzati contro la razza bianca”) proclamò: “Non è vero che la lotta contro il cosiddetto militarismo non sia anche una lotta contro la nostra civiltà; senza il militarismo tedesco la nostra civiltà sarebbe stata sradicata da un pezzo”. Siamo ancora fermi lì.

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