lunedì 27 novembre 2023

Contro lo smartphone, per una tecnologia più democratica - Juan Carlos De Martin

 

L’indispensabilità dello smartphone, macchina per eccellenza di questa prima parte del secolo, solleva molte domande. La più intrigante è cui prodest? Chi ci guadagna? Sicuramente serve un suo uso più consapevole.

Lo smartphone è la macchina per eccellenza di questa prima parte del XXI secolo. Non solo perché è usato – con grande profitto e, spesso, con divertimento – da più di quattro miliardi di persone, ma anche e soprattutto perché è diventato necessario. Senza smartphone, infatti, è diventato molto difficile, e in certi casi impossibile, lavorare, comprare, studiare, interagire con lo Stato, fare operazioni bancarie, prendere appuntamenti, viaggiare e molto altro ancora. In altre parole: vivere. Non era mai successo nella storia dell’umanità che una macchina diventasse così indispensabile per i singoli individui. Non era successo né nei decenni scorsi con le due macchine che hanno generato – accoppiandosi – lo smartphone, ovvero, il telefono cellulare e il personal computer, né tanto meno nei decenni precedenti, quando c’erano stati strumenti anche molto diffusi e importanti, come l’orologio da polso e l’automobile, ma mai così indispensabili. 

All’anatomia umana, insomma, è come se si fosse aggiunto un organo digitale, senza il quale risulta difficile, se non impossibile, fare quasi tutto. Senza l’organo digitale ci si avvia a diventare cittadini di serie B. 

Questa indispensabilità di fatto dello smartphone solleva molte domande, ma in questa sede ci concentreremo su quattro questioni principali. 

La prima è la più generale: vogliamo davvero permettere che lo status di persona, di essere umano che gode di determinati diritti, dipenda dal possesso di una determinata macchina, qualunque essa sia? Formuliamo la domanda in termini generali perché oggi parliamo di smartphone, ma domani potrebbe essere un altro oggetto “smart” a svolgere lo stesso ruolo, per esempio un orologio, un anello o degli occhiali “smart”, o addirittura un chip sotto pelle. 

La seconda questione è molto più prosaica, ma anch’essa importante: concentrare così tante funzionalità e il godimento di così tanti diritti su di un’unica specifica macchina pone dei seri problemi di robustezza sistemica. Prima con la pandemia e poi con la guerra in Ucraina abbiamo visto quanti problemi abbiano provocato sistemi di approvvigionamento e produzione insufficientemente robusti: vogliamo davvero caricare lo smartphone di così tante funzionalità senza prevedere sistematicamente delle alternative? O dobbiamo aspettare un tempesta solare o qualche altro incidente che disturbi il funzionamento di Internet per capire per l’ennesima volta che la robustezza è importante almeno quanto l’efficienza? 

Concentrando lo sguardo sullo smartphone in quanto oggetto fisico, un minimo di comprensione del suo funzionamento interno evidenzia quanto sia un’oggetto estremamente opaco e, nella sua opacità, acutamente infedele. Tranne pochi esperti o appassionati, infatti, miliardi di persone usano lo smartphone senza essere minimamente consapevoli non solo dei dati, alcuni davvero sensibili, che vengono raccolti su di loro, ma anche e soprattutto delle possibili conseguenze dell’uso di quei dati.  Lo smartphone monitora dove siamo, se stiamo camminando, correndo o salendo le scale, quanto è luminoso l’ambiente in cui ci troviamo, quali app stiamo usando e che cosa facciamo dentro a ciascuna app, se stiamo tenendo il telefono in verticale o in orizzontale, che cosa diciamo quando parliamo, quale musica stiamo ascoltando, se siamo vicini a un determinato negozio od ospedale, se stiamo telefonando, e così via. Alcuni di questi dati possono rimanere riservati se il sistema operativo lo consente e se l’utente, consapevole di avere questa facoltà, la esercita per negare l’accesso. Ma in generale lo smartphone è una macchina che produce prodigiose quantità di dati in merito agli utenti e agli ambienti in cui si trovano, senza che gli utenti ne siano consapevoli e, come dicevamo, senza che possano umanamente capire i possibili usi – anche futuri, anche a distanza di anni – di tali loro dati personali. 

La quarta e ultima questione è: cui prodest? Ovvero, chi beneficia davvero dall’enorme diffusione e centralità dello smartphone? Tutti noi utenti ne beneficiamo, certo, avvalendoci delle sue molte funzionalità, e insieme a noi un numero enorme di imprese, associazioni e pubbliche amministrazioni in tutto il mondo. Ma gli utenti sono in fondo alla catena del valore, non in cima. Gli utenti beneficiano di determinate funzionalità, ma, come abbiamo visto, producono – quasi sempre inconsapevolmente – enormi quantità di dati su loro stessi che fluiscono altrove. Dove? Verrebbe da dire: cherchez les données ! Ovvero, seguiamo i flussi dei dati. Se lo facessimo, scopriremmo che i dati vanno ai padroni dei due soli sistemi operativi per smartphone, ovvero, Apple e Google (che posseggono rispettivamente iOS e Android), e a quel ristretto numero di app su cui gli utenti passano la maggior parte del tempo (tra le quattro e le cinque ore al giorno), ovvero, Facebook, Instagram, Whatsapp, TikTok, Twitter, Tinder, YouTube, e poche altre. Sono, quindi, un ristretto gruppo di imprese, prevalentemente statunitensi (TikTok è l’eccezione che conferma la regola) che stanno in cima alla catena del valore dello smartphone. Con un posto particolare per Apple e Google, le quali non solo raccolgono dati degli utenti, ma hanno la piena sovranità di decidere, grazie ai loro sistemi operativi, che cosa si fa e che cosa non si fa sui «loro» telefoni.  È il sistema operativo, infatti, che determina quali operazioni può eseguire l’utente (e quali no), e anche con quanta facilità o difficoltà, e su quali funzionalità possono fare affidamento (o meno) le applicazioni. Con l’aggiunta che gli utenti devono per forza scegliere tra le app disponibili nei «negozi» di Apple e Google (con qualche piccolo margine di libertà nel caso di Android). 

Per concludere, lo smartphone è una macchina di straordinaria utilità,  ma anche ignorando, per limiti di spazio, tutta una serie di altre conseguenze (psicologiche, fisiche, ambientali, lavorative, ecc.), è una macchina che sta diventando necessaria e già questo è un primo problema che dobbiamo considerare con attenzione. In secondo luogo, sta diventando l’unico modo per fare molte cose, creando così seri rischi di robustezza sistemica. In terzo luogo, è una macchina opaca e infedele nei confronti degli utenti. In quarto e ultimo luogo, è una macchina controllata in larga parte da una manciata di grandi imprese, che ne determinano la configurazione e le direzioni di sviluppo. 

È inevitabile che sia così? In breve: no. Innanzitutto, si potrebbero fare molte cose per evitare che lo smartphone diventi necessario. Poi lo smartphone stesso potrebbe essere molto più trasparente e fedele nei confronti dell’utente, oltre che rispettoso dell’ambiente e dei lavoratori che contribuiscono alla sua produzione. Basterebbe volerlo. Ma, prima di riuscire a volerlo, è indispensabile scuoterci dal torpore e prendere consapevolezza di quanto sia critica la situazione dopo questi anni passati a guardare lo schermo dello smartphone.

 

Articolo apparso, in forma leggermente diversa, su “Robinson” (La Repubblica), 17 settembre 2023.

 

L’autore Juan Carlos De Martin è professore ordinario presso il dipartimento di informatica del Politecnico di Torino.

 

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