Dietro quelli che chiamiamo femminicidi c’è qualcosa di più complesso e profondo di quanto si vede a prima vista. Non è facile ragionare a caldo di cose così terribili senza essere, sia pure inconsapevolmente, di parte, ma mi sono interrogato più volte su ciò che accade e – forse per deformazione professionale – ho cercato nella vicenda storica, nel suo percorso complesso, una possibile spiegazione.
In questi giorni circola per le sale cinematografiche un autentico capolavoro,
firmato non a caso da una donna: C’è ancora domani, di Paola
Cortellesi. È un film che ci riporta agli anni felici del neorealismo e ci
offre il quadro di una società in cui il dominio dell’uomo sulla donna è
totale, indiscusso e solo marginalmente contrastato. Quella società risente
fortemente però – anche se forse non lo sa – di un’onda lunga, nata dall’antifascismo,
dalla tragedia della guerra mondiale e dalla fertile esperienza della guerra di
liberazione. Un’onda che porta con sé un radicale bisogno di libertà e
cambiamento.
La scena finale, quella in cui le donne giungono per la prima volta ai seggi
elettorali è di una stupenda intensità. Sono donne che sentono la necessità di
scrollarsi di dosso il peso dell’uomo eterno padrone e si preparano a lottare.
Si presentano sul palcoscenico della storia mentre la Repubblica nasce e nei
seggi, come a chiarire le intenzioni degli uomini, i presidenti le invitano a
togliere il rossetto per non invalidare la scheda. È un modo per marcare ancora
una superiorità inesistente alla quale gli uomini, tutti gli uomini e di tutte
le classi sociali non solo non vogliono, ma spesso non sanno rinunciare.
Seguiranno anni terribili, ma le donne non arretreranno. Il fascismo sconfitto
non è più al potere, ma molte delle sue idee vivono nella nostra società. La
Costituzione non è ancora entrata nelle fabbriche, nelle scuole e nelle famiglie.
Li la lotta è sorda e si combatte per lo più nella vita privata, nel chiuso
delle abitazioni. Alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso un’intera
generazione insorge contro una società che non ha mai fatto i conti col
fascismo e con la sua presenza nella vita del Paese. Sono anni di cambiamenti
profondi; le “compagna” e i “compagni”, uniti nelle piazze in tante battaglie
politiche, non trovano mai l’unità sule sul grande tema della condizione della
donna. A conti fatti, però, il cambiamento più profondo e radicale, quello che
più di tutti si afferma ed è in grado di durare, riguarda proprio la condizione
della donna.
Il nuovo diritto di famiglia, il divorzio, l’aborto, la parità scolastica,
producono la sola “rivoluzione” che esce vittoriosa da quegli anni. Nell’anno
accademico 1989-90, per la prima volta nella nostra storia, le donne iscritte
all’università superano gli uomini. Per quanto riguarda il lavoro, le donne
sono ancora penalizzate e sfruttate più degli uomini, ma rispetto alle loro madri
e alle loro nonne la loro condizione è infinitamente migliore.
È un’affermazione destinata a durare, ma è anche il risultato di lotte che non
hanno mai coinvolto tutto il Paese. Una parte consistente degli uomini l’ha
subita e non è preparata a viverla. Non si tratta di una difesa d’ufficio. Non
è nella mia natura. È piuttosto un tentativo di capire ciò che sta accadendo.
Con l’affermazione del “berlusconismo” e lo sfarinamento delle sinistre, il
livello di civiltà del Paese ha preso ad arretrare, ma le radici profonde della
rivoluzione femminile hanno tenuto; l’arretramento ha coinvolto così solo
marginalmente i progressi e la vita concreta delle donne e il problema è
diventato esplosivo.
Una parte tutt’altro che minoritaria della popolazione maschile si è illusa di
recuperare le posizioni perdute e di tornare a un modello patriarcale superato
dai tempi, ha trovato una incerta e a volte involontaria complicità in quella
minoranza di donne ricondotte alla condizione di “angeli della casa”, ma si è
trovato di fronte il rifiuto, l’opposizione e in ultima analisi la resistenza
della stragrande maggioranza delle nostre donne, delle nostre amiche sorelle e
madri. Sono stati questi uomini, immaturi, forse coccolati in famiglia, spesso
abituati a spuntarla con la forza nel gruppo dei maschi frequentati, a reagire
nei modi sempre più violenti e disperati che si ripetono sempre più
frequentemente sotto i nostri occhi e sfociano in comportamenti criminali.
Questi uomini, non sanno confrontarsi alla pari con donne libere e vivono in
una società ipocrita, che nella sua stragrande maggioranza è ancora molto
vicina alla società fascista. Non a caso tempo fa una pubblicità imprudente e
rivelatrice, faceva cenno all’uomo che “non deve chiedere”.
Molti, moltissimi uomini pensano che gli tocchi di avere senza chiedere, ma
sono costretti a fare i conti con donne mature, libere, colte, capaci di
valutare. Donne che hanno mille ragioni per non cedere. Per molti di questi
uomini questa situazione diventa un trauma. Rivendicano diritti che non hanno,
ricevono rifiuti categorici e finiscono con l’aver paura di una donna
capace di giudicarli, di valutarne l’insufficienza, i limiti e la pochezza. I
più tendono a chiudersi in una realtà virtuale, in un mondo che non esiste. Altri,
per fortuna una minoranza, cercano nella sopraffazione la via di uscita dalla
frustrazione, si nutrono di rabbia e quando non sono capaci di controllare i
loro istinti peggiori, si abbandonano a una furia distruttrice che li trasforma
in carnefici.
Meritano certamente esecrazione e condanna, ma se non vogliamo che si
moltiplichino, dobbiamo lottare per l’affermazione di valori alternativi e
trovare modo di aiutarli. In famiglia, dov’è possibile, e nelle istituzioni che
hanno il delicato compito della formazione. Ai vertici delle Istituzioni, dove
purtroppo l’arretratezza ha fatto purtroppo i danni maggiori.
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