La destra ha vinto le elezioni con la promessa di superare la legge Fornero. Invece già per il prossimo anno prende forma quella che è ribattezzata la Fornero-Salvini-Meloni: si allunga l’età pensionabile, penalizzate le donne, niente per i giovani e ci si accanisce contro i dipendenti pubblici. Ecco i calcoli.
I sindacati,
in particolare la Cgil, parlano di “colpo di grazia alle speranze
pensionistiche di migliaia di persone”. Sul sistema previdenziale pubblico si
sta infatti abbattendo la mannaia di un governo che aveva conquistato Palazzo
Chigi proprio sulla base delle promesse elettorali legate alle pensioni (oltre
che sulle riforme istituzionali). Prima del voto che ha portato la destra a
Palazzo Chigi si parlava, certo, di elezione diretta del Presidente della
Repubblica (non del presidente del Consiglio). Ma il vero mantra, lo ricordano,
era il superamento della legge Fornero che penalizza i lavoratori e le
lavoratrici perché manda tutti in pensione troppo tardi, anche in relazione al
resto dell’Europa. E invece assistiamo al rovesciamento dello schema. Già dalla
legge di Bilancio per il prossimo anno prende forma quella che è stata
ribattezzata la Fornero-Salvini-Meloni; si allunga l’età pensionabile, non ci
sono risorse per le pensioni dei giovani (altro che pensione di garanzia!), si
penalizzano le donne e ci si accanisce contro i dipendenti pubblici, medici
compresi, introducendo la modifica delle aliquote di rendimento. Gli eroi della
pandemia sono serviti con il taglio delle loro future pensioni. Ma cerchiamo di
analizzare per punti l’ennesima controriforma delle pensioni.
Sempre più tardi, il traguardo si allontana
La famosa
“Quota 103”, cioè in pensione con 62 anni di età e 41 di contributi, subisce un
ricalcolo col sistema contributivo che può portare a un taglio dell’assegno del
20%. Intanto cambia anche lo schema delle uscite: le finestre aumentano di
altri 4 mesi per i privati e 3 mesi per i pubblici. Per quanto riguarda la
pensione di vecchiaia anticipata, la legge di bilancio per il 2024,
contrariamente a quanto era stato previsto nel 2019, quando si era congelato
fino al 31 dicembre 2026 l’adeguamento dei requisiti per la pensione di
vecchiaia anticipati fissati dalla riforma Fornero in 42 anni e 10 mesi per gli
uomini (un anno in meno per le donne), non elimina definitivamente tale
adeguamento e anticipa di due anni, al 2025, l’adeguamento alla speranza di vita
per chi va in pensione a prescindere dall’età una volta raggiunti i 42 anni e
10 mesi di contribuzione (41 e 10 le donne). Secondo quando calcolano gli
esperti (Alberto Brambilla, per esempio) la pensione anticipata si potrebbe
ottenere con oltre 43 anni di contribuzione con il paradosso che a 67 anni di
età e con solo 20 anni di contribuzione si potrà accedere alla pensione, mentre
con oltre il doppio (42 anni) non si potrà accedere alla prestazione
pensionistica.
Insetticida sull’Ape sociale
Era uno dei
fiori all’occhiello di chi diceva di difendere il diritto alla pensione. Ora
viene innalzato il requisito di età che passa da 63 anni a 63 anni e 5 mesi e
soprattutto vengono esclusi tutti quelli che sono nati dopo il primo agosto
1961. Secondo le nuove regole meloniane possono accedere all’Ape sociale: i
lavoratori disoccupati con almeno 63 anni e 5 mesi di età e 30 anni di
contribuzione a seguito di cessazione del rapporto di lavoro per licenziamento,
anche collettivo, dimissioni per giusta causa o risoluzione consensuale o
dipendenti di aziende con tavolo di crisi aperto presso il ministero e che
hanno esaurito i periodi di disoccupazione, tipo Naspi; le persone con 63 anni
di età e 30 anni di contribuzione, con disabilità pari o oltre il 74% e riconosciuti
invalidi civili; i lavoratori con 63 anni di età e 30 anni di contribuzione che
assistono da almeno 6 mesi persone disabili conviventi, con disabilità grave in
base alla legge 104 del 1992, siano di primo o secondo grado di parentela (solo
per over 70); i lavoratori dipendenti che svolgono mansioni cosiddette
“gravose” con almeno 63 anni di età e 36 anni di contribuzione e che al momento
della domanda di accesso all’Ape sociale abbiano svolto una o più delle
professioni a rischio per almeno sei anni negli ultimi sette oppure per almeno
sette anni negli ultimi dieci; non c’è stato quindi il preannunciato
ampliamento delle categorie di lavoratori gravosi riconosciute dalla legge n.
234/2021. E che era stato oggetto di tante battaglie dei sindacati confederali
e di quelli dei pensionati.
Tanto per
completare l’opera il governo, per il 2024, introduce la previsione di
incumulabilità totale della prestazione con i redditi di lavoro dipendente o
autonomo. L’assegno è sempre calcolato col sistema misto, ma con le limitazioni
dell’importo massimo a 1.500 euro lorde mensili, senza tredicesima e senza gli
adeguamenti dovuti all’inflazione fino al raggiungimento della pensione di
vecchiaia a 67 anni.
Addio Opzione donna
Il governo
della prima donna sulla poltrona di Palazzo Chigi penalizza le donne. Non si
tratta solo del caso scandaloso e incomprensibile della “tassa sui pannolini”.
Per le pensioni una delle novità più irritanti riguarda l’innalzamento dei
requisiti (35 anni di contributi e 61 anni di età al 31 dicembre 2023) e solo
per le donne caregiver, invalide dal 74%, licenziate o dipendenti da aziende
con un tavolo di crisi aperto per poter accedere a Opzione donna, una misura
che viene ora praticamente azzerata. Introdotta nel 2004, la norma prevedeva la
possibilità di pensionamento anticipato per le lavoratrici con 35 anni di
contributi e 58 anni di età (59 per le autonome), ma già con la legge per il
2023 è stata già resa più restrittiva. Il prossimo anno le cose peggioreranno;
nel 2024 potranno accedere solo le seguenti categorie di lavoratrici:
licenziate o dipendenti in aziende con tavolo di crisi aperto presso il
ministero; donne con disabilità pari o oltre il 74% con accertamento dello
stato di invalido civile; donne che assistono da almeno 6 mesi persone disabili
conviventi, con disabilità grave in base alla legge 104 del 1992, di primo o
secondo grado di parentela. Il requisito anagrafico, rispetto al 2023, passa da
60 a 61 anni d’età, sempre con 35 anni di contribuzione e si riduce di un anno
per ogni figlio nel limite massimo di due anni (a 61 anni e non più 60 senza
figli; 60 anni anziché 59 con un figlio e 59 anni anziché 58, con due o più
figli). Il calcolo della pensione rimane interamente con il metodo contributivo
con una riduzione, a 61 anni di età, di circa il 18/20%.
I requisiti per andare in pensione? Sempre peggio
Visto che i
primi pensionati contributivi (senza più la parte di retributivo) arriveranno a
regime tra il 2030/32, la legge di Bilancio ha modificato i requisiti di
accesso alla pensione di vecchiaia anticipata; dal 2024 vi potranno accedere
solo se l’importo dell’assegno sarà pari almeno a 3 volte il valore
dell’assegno sociale, tranne nei casi di donne con figli, che vedranno scendere
il tetto a 2,8 volte la pensione sociale con un figlio e 2,6 volte in presenza
di più figli. Gli esperti spiegano che l’assegno non potrà eccedere le 5 volte
il minimo Inps (cioè, circa 2.840 euro lordi al mese) sino al raggiungimento
dei 67 anni (cioè l’età di vecchiaia). Da notare che la vituperata legge
Fornero questi limiti neppure li aveva previsti. Quindi anche in questo caso
assistiamo ad un peggioramento. Meloni peggio della Fornero, con buona pace di
un Matteo Salvini che ha dismesso da tempo i panni del Savonarola.
Quella finestra è troppo mobile
Un altro
peggioramento riguarda il fatto che viene prevista una “finestra mobile” di tre
mesi dalla maturazione dei requisiti, cosa che non era prevista dalla legge
Fornero. Infine il requisito contributivo di 20 anni dovrà essere adeguato alla
speranza di vita calcolata dall’Istat; la legge Fornero prevedeva l’adeguamento
solo per il requisito anagrafico. Invece la legge di bilancio Meloni-Giorgetti
elimina il limite di 1,5 volte l’assegno sociale per l’accesso alla pensione di
vecchiaia a 67 anni con almeno 20 anni di contributi mentre restano i requisiti
di accesso alla vecchiaia con 71 anni d’età e almeno 5 anni di contributi a
prescindere dell’importo del trattamento che comunque non beneficia di alcuna
integrazione.
Tagliate anche le pensioni in essere
Smentendo
tutte le promesse, il governo non prevede nessun intervento per la piena
indicizzazione delle pensioni. Viene infatti confermato il taglio previsto lo
scorso anno oltre 4 volte il trattamento minimo. Si punta poi a costituire una
commissione che possa rivedere l’inflazione attraverso l’utilizzo del deflatore
del Pil, sentito il Cnel. Per finanziare l’aumento delle pensioni basse e parte
della decontribuzione il cui costo stimato per il 2024 è di circa 15 miliardi,
la legge di bilancio modifica quella dello scorso anno inasprendo ulteriormente
le penalizzazioni sulla rivalutazione delle pensioni. La norma scritta dal
ministro Giorgetti prevede che la rivalutazione si applichi al valore più basso
sull’intero importo.
Accanimento terapeutico contro i pubblici
Alla fine di
questa carrellata, la ciliegina sulla torta. Dal primo gennaio 2024 verranno
riviste le aliquote di rendimento per la quota pensione retributiva per chi
lavora negli enti locali, per chi è iscritto nella cassa sanitari, alla cassa
degli ufficiali giudiziari e insegnanti delle scuole dell’infanzia o
parificate. Si tagliano dunque le pensioni dei pubblici dipendenti.
“L’esecutivo con la prossima legge di bilancio riuscirà a peggiorare la Legge
Monti-Fornero e a sottrarre dalle tasche dei dipendenti pubblici – futuri
pensionati – migliaia di euro”, hanno denunciato con una nota congiunta Cgil,
Fp e Flc, le due categorie della Funzione pubblica e della scuola.
Secondo
alcuni calcoli le prestazioni relative alle contribuzioni versate prima del
1996 si ridurranno sensibilmente perché verrebbero ridotte le aliquote di
rendimento sostituendole con le aliquote in vigore per i lavoratori dipendenti
privati (2% circa per ogni anno lavorato); ciò comporterebbe una riduzione
elevata delle rendite pensionistiche. Secondo i calcoli della Cgil si tratta di
oltre 4.320 euro l’anno nel caso di una retribuzione lorda di 30 mila euro a
quasi 7.390 euro per chi ha uno stipendio lordo di 50 mila euro con una perdita
stimabile tra il 5% e il 25% dell’assegno pensionistico annuale, da
moltiplicare per l’aspettativa di vita media. Il provvedimento riguarderebbe
circa 700 mila lavoratori pubblici di cui circa 3.800 medici.
Chi ci rimetterà di più?
I giornali e
i siti specializzati si stanno sbizzarrendo in calcoli e previsioni. Secondo
uno schema proposto da Alberto Brambilla, presidente del Centro Studi e
Ricerche Itinerari Previdenziali, con una inflazione 2022 pari all’8,1% e
inflazione 2023 al 5,8% per un totale semplice del 13,9%, un pensionato con prestazione
pari a 10 volte il minimo (5.637 euro lordi, circa 3.890 euro netti), dopo aver
pagato ogni mese per 13 mensilità oltre 25 mila euro di tasse, si troverà la
sua pensione rivalutata solo del 22% (il 3,058% anziché il 13,9%) con una
perdita di potere reale d’acquisto in 2 anni del 10,8%; anziché essere
rivalutata del 13,9% (783,5 euro) sarà rivalutata del 3,058% (172,4 euro) con
una perdita annua di 611,1 euro per 13 mensilità = 7.944,3 euro; se il
pensionato vivrà 10 anni e l’inflazione fosse per il decennio del 2%, la
perdita sarà di oltre 100 mila euro. Ma tutti questi lavoratori o ex lavoratori
chi avevano votato? E perché?
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