Lo slogan principale con cui la politica, gli “intellettuali” e i canali d’informazione allineati all’attuale sistema di distribuzione del potere puntano con sempre più insistenza è così riassumibile: non esiste sistema migliore di quello neoliberale. Niente più che la riedizione in salsa capitalistica del motto leibniziano secondo cui staremmo vivendo nel migliore dei mondi possibili, perché voluto da Dio. Con la sostituzione Dio=Mercato.
In sostanza, chi sostiene questa posizione dichiara, più o meno
esplicitamente, che nonostante la disuguaglianza paurosa, la povertà dilagante,
la guerra continua, il cambiamento climatico, e così via, l’attuale assetto
sociale è e resta la migliore opzione che abbiamo. Non solo, il corollario che
consegue, pericoloso almeno quanto l’assioma, vuole additare chiunque provi a
contestare l’assoluta superiorità del capitalismo liberale come un nemico della
società, della pace e dei diritti, in combutta con oscure forze autocratiche
che attendono nel buio di poter azzannare al collo i “valori occidentali”.
L’aspetto economico, e quindi più incisivo, che sta alla base di questa
teoria (la Fine della Storia di Francis Fukuyama), è che dopo
la caduta del Muro di Berlino la lotta di classe sarebbe finita, sfociando in
un patto di non belligeranza tra Capitale e Lavoro; in assenza dell’incubo
sovietico il “mercato” ha finalmente potuto dispiegarsi liberamente, generando
benessere a cascata per tutte/i. La ricchezza generosamente prodotta dalla
classe imprenditoriale e dal complesso lobbistico e finanziario ha migliorato
le condizioni di vita generali, per cui guai a chi si azzardi a chiedere una
distribuzione economica più equa e/o il mantenimento di una qualche forma
di welfare state. Sempre secondo questi scellerati, oggi viviamo
nella pace sociale, quindi basta con il conflitto (vedi: Salvini il
precettatore), andate a lavorare – non conta quanto misera sia la paga o
precario il contratto – e non vi lamentate se l’enorme maggioranza della
ricchezza sia concentrata in pochissime mani; sono quelle le mani che ci
trattengono dal precipizio delle autocrazie stataliste.
Ovviamente non si tratta che di pura e cristallina ideologia.
La lotta di classe non è mai finita, semmai l’hanno vinta loro (i detentori
del Capitale), o comunque la stanno agevolmente vincendo; se non bastassero i
decenni di inedito e pantagruelico accumulo di ricchezza da parte di pochissimi
a dimostrarlo, e nemmeno la stasi degli stipendi rispetto ai profitti, o lo
smantellamento progressivo di tutto l’apparato pubblico a supporto della vita
di cittadini e cittadine (istruzione, sanità, trasporti, edilizia popolare
ecc..), alcuni dati recentissimi possono rivelarcelo facilmente.
I dati della tabella soprariportata, elaborati dalla FABI, Federazione Autonoma Bancari Italiani, sono autoevidenti; salta all’occhio come il dato del 2022 sia ben più alto della media pre-covid, e soprattutto come la cifra del 2023 sia semplicemente spaventosa. Potremmo quasi ipotizzare che passato il 2020, quando i governi, causa pandemia, hanno dovuto dirottare molte risorse a sostegno della classe lavoratrice (per quanto comunque insufficienti), gli istituti bancari abbiano compiuto una contromossa iper-efficace in grado non solo di recuperare quanto perso tre anni fa, ma di andare ben oltre macinando quantità di denaro esorbitanti. Non si nasconde nessun genio della finanza dietro a tale successo, ma un cogitato progetto di sopraffazione economica veicolato dai governi, impiegati sostanzialmente come meri esecutori (forse hanno confuso il termine “esecutivo”) del complesso bancario e finanziario. Non è un caso che per lo stesso arco temporale l’ISTAT certifichi un margine di profitto inedito, mai registrato prima, da parte delle imprese italiane: il 44,8%, registrato a fine 2022; tanto meno è casuale che i ricchi, in Italia come nel resto del mondo, siano aumentati e, soprattutto, sia aumentata la percentuale di ricchezza da loro posseduta. L’Oxfam ha rilevato che nel nostro paese il 5% più ricco controlla una ricchezza superiore a quella dell’80% più povero.
Se passiamo dall’altro lato della barricata, quella del Lavoro, osserviamo
dati ben diversi: il rapporto Outlook Ocse 2023 registra alla fine dello scorso
anno una diminuzione dei salari reali del 7% rispetto al periodo pre-covid;
diminuzione ulteriormente aggravata durante i primi mesi del 2023, quando ha
toccato il 7,5%. Dati alla mano, dunque, anche se i salari aumentassero del
3,7% quest’anno, e del 3,5% nel 2024 (come sostiene il rapporto), di fronte
all’inflazione che dovrebbe assestarsi sul 6,4% di media quest’anno e al 3%nel
prossimo, l’impoverimento progressivo di chi vive dello stipendio è un fatto
oggettivamente acquisito. Ancora l’ISTAT rileva come nel 2022 la condizione di
povertà assoluta ha toccato più di 2,1 milioni di famiglie (8,3% del totale,
rispetto al 7,7% nel 2021) e oltre 5,6 milioni di individui (9,7% rispetto al
9,1% del2021).
In poche parole: negli ultimi due anni i ricchi, le banche e le imprese
hanno goduto di ritmi di crescita inediti, mentre la classe lavoratrice ha
subito un taglio netto del valore effettivo del proprio reddito, e un sempre
più esteso impoverimento.
E siccome repetita iuvant, bisogna ricordare ancora che non vi
è né l’eccezionale capacità di im(prenditori) e finanzieri né contingenza
casuale dietro questi numeri, ma un piano di battaglia studiato ed applicato
alla perfezione tramite le mani della politica, da parte di un mercato che,
realizzata finalmente l’apoteosi della reaganomics e del
thatcherismo, ha ormai il pieno potere sulla società e sulla distribuzione
della ricchezza. Generando prosperità immane e ingiustificabile unicamente per
sé stesso e per chi lo controlla. Altro che trickle-down economics.
La lotta di classe è diventata una guerra e la stiamo miseramente perdendo,
praticamente senza combattere.
Per questo occorre riprendere al più presto il lessico e gli strumenti del
conflitto, esacerbare le contraddizioni ed evidenziare senza compromessi il
disastro che il modello neoliberale sta scatenando su di noi e sul nostro
futuro, sforzandosi di unificare le battaglie per il lavoro, per la giustizia
ambientale, per la pace, per i diritti sociali e civili, nell’unico mezzo fino
a oggi conosciuto dalle masse popolari per ottenere risultati tangibili: la
lotta di classe. Ricostituendo la classe lavoratrice come vettore del
cambiamento – anche turbolento e veemente – nella Storia, potremo forse anche
essere in grado di concepire e realizzare un sistema diverso da quello
attualmente egemonico; di cui tutto si può dire, meno che sia il migliore fra
quelli possibili.
Roberto Comandè, di Treviso, laureato in
Filosofia della Conoscenza presso La Sapienza di Roma; progettista formativo;
del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”
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