scrive Luca Bravi
In quanto componente più anziana, toccherà a Liliana Segre aprire
i lavori del Senato, quello a larga maggioranza composto dal partito che, se
vai a ritroso (ma ce lo ricorda bene la fiamma sul simbolo), come minimo arrivi
al MSI che si dichiarava erede dei fascisti. È una consuetudine, per carità, ma
ci si aggiunge un simbolismo potente, un po' come la sconfitta di Fiano
(il figlio di Nedo) contro Rauti (la figlia di Pino). C'è chi legge il fatto
che sia Liliana Segre ad aprire i lavori, come il simbolo di valori che restano
a garantire il lavoro istituzionale democratico, forse pure sbattuto in faccia
alla nuova maggioranza (e alla sua storia ripudiata a giorni alterni), eppure
immaginarmelo mi crea un po' di pensieri negativi. Liliana Segre, come giusto
che sia, sarà accolta dagli applausi dell'aula, sarà doveroso, scontato e pure
giusto. A preoccuparmi è proprio questo: sarà l'ennesima occasione in cui,
attraverso facili simbolismi esposti in pubblico e mai nella pratica
quotidiana, l'estrema destra più forte di sempre in Italia potrà ancora una
volta dirci di essere lontana da quella storia di odio, di sterminio e di
razzismo del Novecento. Eppure restano gli stessi che, nel Ventunesimo secolo,
hanno concretamente promosso politiche d'odio e di allontanamento, anche dalle
scuole, perfino negando i pasti alla mensa ai bambini.
La Shoah non è la stessa cosa delle politiche razziste di oggi,
dal punto di vista storico è pure vero, ma attenzione ad usare la memoria della
Shoah allontanandola dalle domande sul presente, perché diventa un simbolo
vuoto, a quel punto utile solo come una fetta di prosciutto sugli occhi, per
far finta che tutto procederà tranquillamente (ci siamo talmente abituati che è
diventata un'abitudine bipartisan piangere per i crimini passati, ma
giustificare sempre quelli del presente). L'esposizione pubblica del simbolo
"Liliana Segre" in questa occasione, seppur azione dovuta per
consuetudine istituzionale, porta con sé anche questa seconda faccia della
medaglia, meno scontata e comunque presente. Mi pare piuttosto il segno
dei tempi.
Riflessione "a
tiepido" - Francesco Filippi
E se fosse meglio così?
Il prossimo governo, probabilmente, gestirà la migrazione come un
reato; chiuderà mille occhi sulle violenze ai confini della Festung Europa e
anzi le favorirà; affosserà i progetti sull'allargamento dei diritti a tuttə;
interverrà con leggi sul concepimento ma non sul fine vita; tratterà il diritto
di cittadinanza come un privilegio; smonterà coscientemente le tutele che
difendono i diritti del lavoro; negherà lo sviluppo democratico dell'apparato
di sicurezza dello stato, dai numeri sui caschi degli agenti alla protezione
degli individui dall'invasione delle multinazionali dei dati; favorirà il
privilegio di rendita rispetto al diritto al salario giusto; si occuperà di
opere cementizie strategiche concepite anni fa trascurando l'infrastruttura
sociale e culturale del paese di oggi; taglierà la sanità pubblica lasciando
campo libero alla privata, ecc. ecc...
Rimarrà, insomma, nel solco di TUTTI i governi degli ultimi dieci
anni.
Solo che almeno sarà "sincero": non racconterà favole sulle
necessità contingenti, sulle opzioni limitate di breve termine, sulle
difficoltà interne allo schieramento. Farà quel che ha sempre detto di voler
fare.
E questo costringerà ad essere noi pure sincerə nell'opporci, o
nell'accettare.
Ci costringerà a scegliere.
Finalmente.
Che fare dopo il voto? È ora di scelte radicali contro
gli apparenti “padroni della storia” - Lorenzo Guadagnucci
La fine, stavolta,
era nota. Chi ha corso per vincere (la destra) ha vinto, chi ha corso per non
vincere (Partito democratico e possibili alleati) ha perso. Tutto come
previsto, dunque, nelle elezioni politiche più scontate della storia recente,
in virtù di un sistema elettorale non proporzionale e delle scelte compiute
prima del voto (allearsi a destra, non allearsi nella non destra). Ora la
parola la prenderanno i politologi (che passeranno in rassegna i flussi
elettorali e i nuovi “colori” di città e Regioni) e gli editorialisti, che come
al solito consiglieranno la linea politica ai vari leader di
riferimento. Poi si insedierà il nuovo governo, che in Europa è già definito
-seguendo gli standard internazionali- di estrema destra,
invece del pudico e conciliante, nonché fuorviante, “centrodestra” in uso
sui media italiani.
Poi c’è tutto il
resto, ossia le cose più importanti, visto che queste surreali elezioni hanno
eluso i temi cruciali del momento e del futuro più prossimo. Si è votato nel
pieno di una guerra europea e nei giorni della sua escalation.
Nessuno, in campagna elettorale, ne ha fatto davvero menzione ma mentre
mettevamo le schede nelle urne, a Mosca, Kiev e Washington si discuteva e
tuttora si discute, con sconcertante leggerezza, del possibile -se non probabile-
uso di armi atomiche “tattiche” in Ucraina da parte di Vladimir Putin e del
tipo di risposta che l’Occidente (cioè gli Stati Uniti) eventualmente
sceglierà: una bomba “tattica” su una città russa o sulla capitale? Una bomba
non tattica, o altro ancora? E mentre fingevamo di partecipare a una
competizione (che, come detto, non c’è mai stata), tra cosiddetto centrodestra
e cosiddetto centrosinistra, si contavano ancora morti e dispersi
nell’alluvione delle Marche e scattavano in mezza Italia allarmi meteo sempre
più allarmanti. Senza che, ovviamente, si parlasse davvero e seriamente di
mitigazione degli effetti del disastro climatico in corso, del dissesto
idrogeologico del Paese, dell’urgenza di riorganizzare la vita collettiva in
modo da ridurre i consumi di energia, di suolo, di risorse scarse.
Possiamo dire,
insomma, che abbiamo avuto elezioni menzognere (per il falso dibattito su una
competizione che non c’è mai stata) e anche anacronistiche, poiché le questioni
più pressanti e cruciali del nostro tempo ne sono rimaste incredibilmente
fuori. Non c’è da sorprendersi, in questo quadro, se il numero degli
astensionisti ha superato un terzo degli elettori, e nemmeno del successo di
forze politiche che si rifanno al nazionalismo novecentesco, all’eterna fascinazione
per il fascismo, a una vocazione identitaria vicina al suprematismo bianco
statunitense: è il frutto, tutto ciò, del progressivo sgretolamento della
cultura democratica, socialista e antifascista, minata al suo interno -ormai da
un trentennio- dall’avvento dell’ideologia neoliberista. Nel rifiuto di
un’analisi onesta della crisi profonda di un intero modello di sviluppo e di
sistemi democratici che a quel modello hanno legato la propria sorte (vale
ancora per tutti il motto di Margaret Thatcher “There is no alternative”, non
ci sono alternative), la regressione verso una visione difensiva, suprematista
e conservatrice del mondo non può essere una sorpresa.
Alcuni politologi
già propongono una ridefinizione dello spazio politico istituzionale italiano
ed europeo, secondo la quale ci sarebbero ormai tre poli: una destra
neoliberista nazionalista con venature suprematiste (la destra al potere in
Ungheria, Polonia e ora in Italia; il partito di Marine Le Pen in Francia; i
neofranchisti di Vox in Spagna); un centro ugualmente neoliberista ma
europeista e con venature progressiste sui diritti individuali (il partito di
Emmanuel Macron in Francia; il binomio Spd-Verdi in Germania; il cosiddetto
centrosinistra in Italia); infine una sinistra erede delle idee socialiste e
aperta al nuovo vento ecologista, con venature populiste (qui si portano le
esperienze della France insoumise di Jean-Luc Mélenchon e degli spagnoli di
Podemos, mentre in Italia si attende una possibile evoluzione del Movimento 5
stelle o almeno del suo elettorato, con nuove organizzazioni da costruire).
Osservato sotto questa lente, l’esito elettorale del 25 settembre risulta in
effetti più chiaro e può far pensare a un astensionismo giovanile e di sinistra
dovuto alla sommatoria di una campagna elettorale fuori dal tempo presente e di
una proposta politica -quanto al polo di sinistra- ancora opaca e
insufficiente.
In un quadro così
bloccato, torna la domanda di sempre, l’assillo di chi vuole dare un senso al
proprio impegno civile e politico guardando a un orizzonte di giustizia sociale
e alle future generazione; la domanda è: che fare? La risposta è semplice a
ardua allo stesso tempo: quello che si è sempre fatto, ma con più forza, con
più lungimiranza, con l’urgenza imposta da avvenimenti sconvolgenti come la
minaccia nucleare, l’annunciata recessione globale, gli effetti sempre più
incombenti del disastro climatico: quindi studiare, organizzarsi, agire. È il
tempo, questo, delle scelte radicali; è l’ora di mettere in discussione il
modello di sviluppo e i sistemi politici che lo sostengono, avviati -lo abbiamo
visto- verso una regressione illiberale; è l’ora di pretendere dagli apparenti
padroni della storia -potenziali apprendisti stregoni- di indicare vie di
uscita dalla guerra in Ucraina prima che sia troppo tardi (c’è sempre una via
d’uscita ed è incredibile che le diplomazie e le istituzioni sovranazionali
siano state messe in un canto); è l’ora di mettere la giustizia climatica, che
è anche giustizia sociale globale, al centro delle scena, politicizzando
l’ondata ecologista, rimasta finora sulla superficie delle cose; è l’ora di
impegnarsi, di contestare e partecipare, è l’ora di organizzarsi avendo come
orizzonte una trasformazione profonda dei modi di produrre, di consumare, di
vivere, di stare insieme e una conseguente, altrettanto profonda trasformazione
di sistemi politici che si stanno rivelando obsoleti, incapaci di affrontare le
sfide del nostro tempo, se non proponendo illusorie scorciatoie destinate a
moltiplicare ingiustizie, sopraffazioni e guerre.
È una sfida
enorme, ma non deve spaventare: cambiare il corso apparentemente ineluttabile
della storia si può, è già successo e può accadere di nuovo.
Le prime considerazioni economiche sull’esito del
voto. E su quello che ci attende - Alessandro Volpi
Non è semplice
trarre considerazioni chiare, in termini economici, sugli esiti dell’ultima
tornata politica. Tuttavia tre mi sembrano più evidenti di altre. La prima ha a
che fare con le ragioni della sconfitta del centrosinistra nel suo insieme ed è
riconducibile alla fantomatica “agenda Draghi”. Provo a spiegare il perché
penso abbia influito, e molto.
L’agenda Draghi è
stata il paradigma della volontà di alcune forze politiche di trasformare le
elezioni in un plebiscito su Mario Draghi: volete ancora Mario Draghi? Votate
per noi. Questa semplificazione ha determinato la composizione degli
schieramenti nel centro sinistra e il loro programma, generando tuttavia, una serie
di paradossi a cominciare dal fatto che neppure le forze a favore di Draghi
hanno composto un’unica coalizione, rompendo subito l’alleanza in nome della
maggiore o minore “ortodossia” nei confronti dell’agenda. C’è stato poi il
paradosso che la coalizione di centrosinistra ha aperto subito ai cosiddetti
“avversari” dell’agenda Draghi, creando un “certo” disorientamento. Ma i limiti
veri dell’agenda Draghi erano altri.
Intanto, non
esisteva un’agenda Draghi in quanto tale ma esisteva solo Draghi come garante,
in pratica senza vincoli, del futuro italiano. In questo senso si configurava
un altro limite di quell’agenda: se si trattava di un mero artificio narrativo
per sostenere Draghi, allora diventava ben poco credibile che centrosinistra e
“terzo polo” non avessero avuto la capacità, anche separatamente, di esprimere
un proprio leader in grado di aspirare a ricoprire la carica di presidente del
Consiglio.
C’era poi un
ultimo, decisivo limite: un Paese piegato, con disuguaglianze sociali in
continua crescita, con una povertà dilagante resa drammatica dall’inflazione
non aveva bisogno di rigorosi custodi dell’equilibrio finanziario che si
traduceva inevitabilmente nella riproposizione di un modello adottato dal 2011
in avanti. L’inesistente agenda Draghi è stata percepita come un mantenimento
dello status quo sociale, con la conseguente ulteriore polarizzazione dei
redditi e con una fiducia davvero cieca nell’Europa in quanto tale, nel momento
in cui proprio l’Europa sta cambiando profondamente pelle. Come era possibile
pensare che reggesse i termini elettorali un ceto politico, impegnato
unicamente a ricandidarsi, limitandosi a ergere Mario Draghi a sola icona
politica e abbandonando ogni rappresentazione sociale e ogni capacità critica
verso la Nato, verso l’Unione europea e verso un liberalismo moderato da anni
Novanta? L’inesistente agenda Draghi, a mio parere, ha fatto perdere il senso
della complessità della democrazia popolare.
La seconda
considerazione guarda in prospettiva futura. La recente audizione di Christine
Lagarde, presidente della Banca centrale europea, presso la Commissione affari
economici del Parlamento europeo è la dimostrazione che in Europa è in corso
una pericolosa involuzione monetarista. In estrema sintesi la presidente della
Bce ha dichiarato, in sequenza, che l’inflazione durerà a lungo e che
l’economia europea sta per entrare in recessione. Di fronte a ciò -ha
continuato Lagarde- la ricetta è molto chiara: aumenti dei tassi d’interesse,
drastica riduzione degli acquisti di titoli del debito pubblico, contenimento
salariale e scudo anti-spread applicabile solo con onerose
condizionalità. Siamo tornati all’era Trichet, con la differenza non banale che
ora l’inflazione può davvero fare male in termini sociali e aggravarla con
soluzioni inefficaci e, al contempo, destinate a peggiorare le disuguaglianze
sarebbe devastante. Per l’Italia, il messaggio è chiaro: basta debito per
coprire la futura Legge di Stabilità. Si ha l’impressione, in tale ottica, che
il governo Draghi fosse comunque finito vista l’impossibilità di fare una
riforma fiscale e una certa diffidenza a mettere mano alle regole finanziarie.
La nuova stagione
della sinistra dovrebbe partire da un europeismo critico, da un filologico
appello all’articolo 53 della Costituzione, da una valorizzazione del risparmio
diffuso e dalla restituzione di un carattere politico alle strategie monetarie,
quantomeno per fronteggiare la politicissima Federal Reserve statunitense e per
difendere il welfare. Nel frattempo l’esecutivo Meloni dovrà trovare le tante
risorse che mancano -una quarantina di miliardi- non facendo troppo
affidamento al suo programma, dai chiari tratti prociclici: concepito cioè solo
per un’economia che va bene, dalla flat tax incrementale
allo stralcio fiscale fino alle tante, maggiori spese, non copribili solo con
l’auspicio di una ripresa.
La terza
considerazione individua il limite con cui il nuovo governo dovrà misurarsi.
L’inflazione ci sta riportando velocemente indietro, con pericoli antichi e
nuovi al tempo stesso. Il debito pubblico italiano è esploso a partire dagli
anni Ottanta, quando è diventato insostenibile il peso degli interessi da
pagare per collocarlo. In pochi anni si è passati da un rapporto debito-Pil del
50% a uno del 120%, sulla spinta del debito secondario. Tali interessi dovevano
essere pagati dal Tesoro italiano per reggere la concorrenza di altri titoli di
Stato, a cominciare da quelli americani che beneficiavano della copertura del
dollaro come moneta di scambio e di riserva internazionale. Oggi sta
riproponendosi una situazione in parte simile. I tassi di interesse delle
banche centrali sono saliti e i rendimenti dei titoli di Stato dei vari Paesi
sono cresciuti per far fronte al loro deprezzamento, in parte dettato
dall’inflazione. I Bund tedeschi hanno perso in pochi mesi il 18% del loro
valore, i Btp italiani il 20% e questo ha spinto i rendimenti al rialzo. In
tale ottica lo spread non cresce perché sia Italia sia
Germania sono costrette ad alzare i tassi e dunque non sarà lo spread a
determinare il quadro di riferimento, anche in termini politici.
Pesa invece, come
negli anni Ottanta, la concorrenza dei titoli di Stato americani che rendono,
sul decennale, il 4,5% e dunque sono molto appetibili. Ancora una volta, come
allora, il Tesoro degli Stati Uniti può permettersi una simile operazione
grazie alla forza del dollaro che sta schiacciando l’euro a 0,96 e sempre più
giù. In altre parole, la politica economica degli Stati Uniti viene costruita,
come in passato, scommettendo sulla debolezza degli altri Paesi e
sull’aspettativa che la Cina non abbia intenzione, almeno nel breve periodo, di
sganciarsi dal dollaro. Solo se l’Europa avesse una vera credibilità
internazionale questa pesante rendita di posizione si indebolirebbe, in caso
contrario ci troveremo a fare i conti con un nuovo decollo del debito soltanto
per gli interessi da pagare; e gli appelli alla nazione rischiano di ricordare
i famigerati “prestiti del littorio”.
ALLA LUPA, ALLA LUPA - Gian Luigi Deiana
la favola di esopo in quota rosa
tutti i bambini sanno che non è bene esagerare nel dire bugie: poi infatti
si finisce per non essere creduti nemmeno quando si dice la verità, soprattutto
se le situazioni sono davvero serie; la favola antica del greco esopo, che
narra di un pastore che lanciava per scherzo l'allarme sul lupo, insegna ai
bambini esattamente questo: quando il lupo comparve davvero, nessuno più
credette all'allarme, e il lupo ebbe campo libero sugli agnelli;
gli antichi romani ebbero la genialità di redimere in quota rosa il temuto
animale: inventarono la lupa e ne fecero la mammina pagana della romanità; mito
per mito, in tempi a noi più vicini se ne è fatta la mammina dell'italianità,
per di più cristiana; a parte il discutibile gusto di dichiarazioni simili,
gusto peraltro generalmente pessimo in tutto il linguaggio pubblico attualmente
in voga tra i leader politici, sta di fatto che l'allarme sull'arrivo del lupo,
immancabile da trent'anni in qua, si è man mano rivelato come stupida
furbetteria, e alla fine la simpatica bestiola è sopraggiunta davvero: in
variante romana, italiana, e cristiana; per un poco, quindi, ecco i figli della
lupa;
le questioni che a questo punto si aprono sono molte e sono complesse, ma
soprattutto sono indecidibili da parte del popolo elettore; sono invece
decidibilissime, quanto al giudizio politico, le questioni che si chiudono: ma
chiuderle bene, con un giudizio ponderato, è fondamentale per non ricascarci di
nuovo;
le principali questioni oggi in chiusura sono due: primo, se il pd sia un
partito di sinistra, e con ciò un baluardo della democrazia; secondo, se fdl
sia un partito semifascista, e con ciò un pericolo per la democrazia;
il primo interrogativo deve trovare la risposta interpretando
l'orientamento che il pd ha seguito da quando ha assunto questo nome di
battesimo, partito democratico, ad oggi; cioè dal dopo prodi al naufragio
draghi; rafforzando l'inchinamento totale alla dogmatica neoliberista, ai suoi
culti e ai suoi sacerdoti, il pd è diventato un partito di chierici
dell'ignavia; per vent'anni si è mascherato su verbosità vuote: il richiamo ai
diritti e l'allarme sul lupo; verbosità vuote, che nel tempo hanno danneggiato
la ragion d'essere di quei serissimi valori, in quanto troppo gratuitamente
essi sono stati evocati nelle campagne elettorali, a corredo di liturgie
sostanzialmente bugiarde; quindi, il pd, a ragion veduta, non è un partito di
sinistra;
quanto poi questo ex partito di sinistra sia un baluardo della democrazia e
dei diritti che la sostanziano, va misurato su dati fattuali grandi e piccoli,
e non su stupidaggini come "scegli" , "o noi o loro", e via
declamando; i dati fattuali sono per esempio l'oltranzismo atlantista, quindi
l'esposizione alle ritorsioni nella vanteria delle sanzioni; le conseguenze
delle privatizzazioni sui prezzi dell'energia, quindi extraprofitti selvaggi di
grandi monopoli e crisi occupazionali nelle piccole aziende; l'emergenza ospedaliera,
e l'insistenza sul numero chiuso a medicina; i peana sulla giustizia, e il
silenzio atroce sui suicidi nelle carceri; la legge elettorale, più di tutto, è
la corona di questo tripudio, e il chiodo più profondo inferto sulla
costituzione della repubblica; insomma non sembrano buone credenziali per un
baluardo della democrazia;
il secondo interrogativo, se il partito della lupa sia un partito
semifascista, o al contrario una plausibile espressione politica di destra, è
tutto da vedere; prima che si possa verificare nei fatti, l'allarme sul lupo
fascista è peggio che vano; tra vedere e non vedere, la gente che è andata a
votare, e più ancora quella che non vi è andata, è stata motivata non dal
desiderio messianico del lupo, ma proprio dall'esaurimento della bugia sul suo
terribile avvento, e dalla triste presa d'atto che dietro il lupo fasullo ci
sarebbe stato invece di nuovo il drago vero; il popolo elettore ha dato la
chance alla lupa non per una condizione di incoscienza, ma in obbedienza a una
logica che non poteva più essere ingannata; l'ignavia è sempre vuota, e il
vuoto viene inevitabilmente colmato per altra via, anche negli ordinamenti
democratici;
per chi si troverà, probabilmente o necessariamente, a dover contrastare il
governo di destra che si accinge a governare l'italia, sarà davvero dura;
infatti dovrà produrre l'opposizione in una condizione nella quale non esiste
quasi più l'organizzabilità del dissenso; ma questo black out, cioè
l'insabbiamento del dissenso da parte del ceto politico, non può essere
attribuito propriamente alla destra secondo la sua prerogativa consueta: il pd
infatti, nell' illusione suicida di potersi rafforzare liquidando il dissenso
organizzato a sinistra (e persino quello organizzato nel movimento cinque
stelle), ha finito per dissolvere anche l'organizzabilità del consenso, persino
il consenso su cui si basa esso stesso; la legge elettorale stessa testè
sperimentata consiste in questo capolavoro: per liquidare gli altri, il pd,
riducendosi in modo irreversibile a ceto politico autoreferenziato, ha
suicidato se stesso;
è storicamente normale che il dissenso radicale venga contrastato e che i
modi della sua organizzazione siano difficili; ma qui, col naufragio di questo
partito di lunga storia e di larga base sociale, è l'organizzazione del
consenso che è stata buttata alle ortiche: questo, e non la lupa, è ora per la
sinistra il vero problema
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