Mariella Mehr mi raccontò la sua storia di poetessa ‘zingara’ tolta alla madre e reclusa - Pino Petruzzelli
Il 5 settembre è morta Mariella Mehr. Per
alcuni era semplicemente una “zingara”, per
il mondo della cultura era una straordinaria poetessa.
La conobbi, ne scrissi in un libro e inserii il suo racconto in uno
spettacolo. Ricordo il nostro incontro al tavolino di un bel bar all’aperto. Le
casse acustiche diffondevano una musica conosciuta: The dark side of the moon dei Pink Floyd. Mariella
era con Uli, suo marito, un ingegnere svizzero in pensione che, dopo avere
letto il romanzo Steinzeit di Mariella, se ne
innamorò a tal punto da rivoltare l’intera Svizzera pur d’incontrarla. Ci
riuscì e da allora divennero inseparabili.
Mariella l’avevo vista solo in fotografia, ma dal vivo, mi apparve diversa.
Un incedere lento. Un grosso paio di occhiali scuri mettevano al riparo dalla
luce la poca vista che le era rimasta. Anche la schiena, troppo rigida, portava
i segni di un cattivo rapporto con la medicina.
Non era di corporatura gracile, ma ugualmente risultava delicata, fragile,
sensibile come una ferita aperta. Solo all’età di
dieci anni cominciò a scrivere poesie trovando conferma che un altro mondo
esisteva. Magari nella letteratura. All’epoca fu considerata troppo stupida per
poter essere iscritta ad un ginnasio e venne internata in un istituto gestito
da suore. Fu lì che trovò una biblioteca con volumi rilegati in pelle.
Bellissima. Dei libri così belli non potevano che contenere cose belle. Li
aprì. Nietzsche, Sartre.
Mariella, appena nata, fu strappata dalle braccia della madre e portata via
con la forza. Fu un’organizzazione, la Pro Juventute, che
la rubò.
Nel 1912 in Svizzera, per contrastare la mortalità
infantile, fu creata una fondazione: la Pro Juventute.
Venne subito riconosciuta di pubblica utilità e beneficiò di contributi da
parte della Confederazione Elvetica.
Nel 1926 le fu affidato l’alto compito di proteggere i bambini dall’abbandono e dal vagabondaggio e
così ideò il progetto Bambini di strada. Il
fondatore e direttore, dottor Alfred Siegfried, si fece personalmente carico di
“sradicare il male del nomadismo” dalla società svizzera. Cardine della sua
filosofia era la conversione di tutti gli jenisch, gli zingari
svizzeri, da nomadi a sedentari. Così la Pro Juventute sottrasse con la forza,
alle rispettive famiglie jenisch, i figli. Da appena nati fino alla maggiore
età. Il dottore, che definiva gli zingari geneticamente “inferiori e mentalmente ritardati”, collocò i bambini,
anche quelli in fasce, presso famiglie affidatarie svizzere o in ospedali
psichiatrici. Ogni contatto con la precedente famiglia era categoricamente
vietato.
“Ogni qualvolta, vuoi per nostra bonarietà, vuoi per uno sfortunato e
casuale incontro, uno di questi bambini, ancora disadattati e instabili, entra
in contatto con i propri genitori, tutto il nostro lavoro è vanificato.”
Anche i cognomi furono cancellati per impedire possibili e futuri
ricongiungimenti. Molte bambine sterilizzate. Mentre
per bambine e bambini con problemi di linguaggio era pronto un metodo speciale:
furono infilati in vasche e bloccati al collo con delle assi per impedire ogni
movimento. Questa teoria scientifica asseriva che i problemi di linguaggio di
un bambino zingaro, strappato alle braccia della propria famiglia, potevano
essere risolti immergendolo anche per venti ore in acqua fredda. Le teorie naziste
non erano né sconosciute né avversate dalla Pro Juventute che al contrario
intrattenne stretti e proficui rapporti con i medici nazisti.
E così dal 1926 al 1972 la
civilissima Svizzera rubò agli zingari
2000 bambini. Solo a tredici anni Mariella iniziò a rendersi conto di quello
che le stava accadendo. Ma oramai, cosa fare? Di suo padre e di sua madre non
c’era più traccia.
Dopo avermi raccontato tutto questo Mariella sorseggiò la bevanda ordinata
al bar e volse il capo in direzione di Uli che delicatamente le accarezzò la
mano.
“Era quello il metodo: lo sradicamento, l’isolamento,
la separazione. Il vagabondaggio andava estirpato piantando i bambini nella
terra buona. Sì – ricordò Mariella – Nella terra buona. Proprio così dicevano.
Oggi sono solo ciò che ho subito nell’infanzia. La vita è una ferita che non si rimargina mai.”
Si fece silenzio. Intorno la vita della piazza continuava. Mariella si
scusò e si assentò per qualche minuto. Restai solo con Uli:
“A sedici anni, dopo l’affido in quella famiglia e i successivi ospedali
psichiatrici, Mariella fu obbligata dalla Pro Juventute a firmare un foglio in
cui s’impegnava ad andare a Lucerna, cercare
lavoro e condurre una vita autonoma. Mariella andò e trovò da lavorare in un
bar per omosessuali. Fu assunta, in nero, come cameriere. Il proprietario aveva
pensato che poteva, con i giusti ritocchi e vestiti, farla passare per un uomo.
Lavorò lì per un anno circa. Nel bar un giorno arrivò un uomo. Era un ingegnere
francese di madre rom e di padre ebreo che durante il nazismo fu deportato
a Dachau e che, finita la guerra, arrivò in Svizzera
dove trovò lavoro come portiere d’albergo.
Quel giorno entrò per caso nel bar e s’accorse subito che Mariella era una
donna.
Presero a frequentarsi e lei gli rivelò di essere sotto tutela della Pro
Juventute.
Qualche tempo dopo Mariella rimase incinta. La notizia
era doppiamente bella perché oltre alla felicità per la futura nascita sembrò
portare anche la possibilità di liberarsi della Pro Juventute. Mariella trovò
lavoro presso una famiglia di professori universitari: si sarebbe dovuta
occupare dei loro figli.
La situazione si era solo in apparenza regolarizzata perché appena la Pro
Juventute seppe che una loro ragazza era rimasta incinta, fece scattare un’indagine in cui accusò Mariella di essere
fuggita, raggirando la tutela, con uno zingaro e di voler mettere al mondo un
nuovo zingaro. Mariella fu arrestata e condannata a trentasei mesi di carcere e
senza nemmeno un processo. In questi casi bastava la sentenza della Pro Juventute.
Dopo sei mesi di prigione Mariella fu condotta in ospedale dove partorì il
bambino che subito dopo le fu tolto e
dato in affido a una famiglia di svizzeri.”
Ero senza parole. Mariella ritornò al tavolino.
“Volevo dire al nostro amico di quando tu e quel giornalista faceste
emergere quello che stava facendo la Pro Juventute.”
“Si – riprese Mariella – il giornalista scrisse degli articoli su un’importante
rivista svizzera, basandosi su informazioni raccolte da me e da altre quattro
donne jenisch. In seguito a queste denunce scoppiò lo scandalo e
nel 1972 la Pro Juventute chiuse il progetto Bambini di strada.”
“Io, come ingegnere sono un esempio di civilizzato che, in giacca e
cravatta, ha rovinato questo pianeta inquinando aria e acqua. In un anno
soltanto riusciamo a bruciare risorse che potrebbero bastare per i prossimi
cento. Eppure il bersaglio principale sono i rom. A volte mi chiedo perché
abbiamo creato una società così?”
“Perché siamo pazzi.” Gli fece eco
Mariella. “Sai cosa resta oggi, dentro di noi vittime del programma Pro
Juventute? Traumi, lesioni, vergogna. Vergogna per me
stessa perché vivo con l’impressione di essere sempre colpevole. Tutti questi
pensieri sono troppo per me. Alla sera, a letto, non riesco a sopportarli. Sono
come un film che mi fa impazzire. Allora scrivo, se posso. Ora sono due mesi
che ogni mattina, alle cinque, vado al computer per cercare di mettere giù
qualche pensiero, ma non riesco. Mi blocco. Devo aspettare. Devo aver pazienza.
Passerà, forse. Sono passati tanti momenti, passerà
anche questo. Sì, passerà.”
“Ma la popolazione jenisch da dove arriva? C’è chi dice dall’India e chi vi
ritiene figli di minatori tirolesi.” Domandai.
“E’ lo stesso.” Disse Mariella con dolcezza. “Sono soltanto teorie. La verità è che abitiamo tutti questo
pianeta.”
Nessun commento:
Posta un commento