L’11 luglio scorso il GIP ha chiesto alla Procura di Torino di riformulare le accuse contro gli attivisti del centro sociale Askatasuna, escludendo il reato loro contestato di associazione sovversiva. Sulla base di migliaia di ore di intercettazioni, il 29 luglio 28 attivisti sono stati rinviati a giudizio per reati contro le forze dell’ordine, le istituzioni e il Tav Torino-Lione; 16 sono accusati di associazione per delinquere: avrebbero costituito un gruppo criminale dedito a una serie indeterminata di delitti a scopo di lucro in Val di Susa. Su tutti pendono provvedimenti cautelari in attesa del processo il 20 ottobre prossimo.
Askatasuna significa in lingua basca “libertà”. È il nome scelto dal centro
sociale più noto di Torino, la cui storia cominciò – spiega il sito Infoaut –
“il 16 novembre del 1996, quando con un corteo studentesco autorganizzato, i
compagni e le compagne autonome si staccarono da una manifestazione
istituzionale per liberare l’ex Asilo degli Gnomi, in corso Regina Margherita
47”. L’etimo arriva dal passato profondo: è probabile la radice accadica di
“scaturire”, che letteralmente è “sfuggire dalle mani”, “rinascere” dopo una
prigionia o, per stare sulla stessa etimologia, dopo una “cattività”.
Il termine “cattività” a sua volta rimanda a un lucido testo di Claudio
Novaro: Costruire il nemico: Askatasuna, i No Tav, il conflitto sociale,
apparso dopo le notifiche di luglio su un sito di attivismo molto noto a
Torino: Volere la Luna. Novaro ha raccolto
la lezione dell’avvocata dei poveri Bianca Guidetti Serra, ed è il più noto
difensore dei dissidenti valsusini nei tanti processi che li vedono coinvolti:
si contano ormai più di cento procedimenti giudiziari legati al TAV in valle.
“In questo cattivo presente – è il suo incipit –
con una guerra che imperversa nel cuore dell’Europa, può sembrare residuale
continuare a ragionare sulla repressione giudiziaria del conflitto sociale.
Eppure l’ennesimo procedimento aperto a Torino, questa volta contro gli
esponenti del centro sociale Askatasuna, merita una riflessione,
perché evidenzia esemplarmente un cambio di passo dei dispositivi repressivi”.
Novaro prosegue con una disamina degli avvenimenti giudiziari riguardanti Askatasuna,
i No Tav e l’antagonismo torinese. Non torniamo sulla consistenza delle accuse
della procura, che Novaro ha analizzato spostando l’attenzione sulle derive
giudiziarie e democratiche che potrebbero sottendere alla loro origine;
aggiungiamo solo che parlando di cattivo presente, ha offerto una
riflessione anche etimologica sulla vicenda ricollegandola al concetto di
“cattività”, ovvero di “prigionia del presente” in opposizione alla sua pretesa
libertà correlata con i principi della democrazia.
Come Centro Studi dedicato a un disobbediente torinese, Domenico Sereno
Regis, abbiamo già ricordato che laddove valgono i principi delle libertà
democratiche vige il “primato della partecipazione” garantito dall’articolo 3
della Costituzione, che non corrisponde alla semplice cattura di consenso da
parte dei partiti e va inteso: “non come un tranquillante per creare meno grane
agli amministratori, e ancora meno come mezzo di gestione del consenso popolare
o come forma di compromesso cogestionale, bensì sarà quel modo nuovo di fare
politica, in cui il cittadino, acquisita una sua maturità politica, rifiutata
la delega in bianco e a tempi lunghi, tenderà a rivitalizzare gli attuali
strumenti di democrazia, superando i momenti deteriori del parlamentarismo e
della partitocrazia, esigendo una gestione sempre più diretta, cosciente,
comunitaria dei problemi della società in cui opera” (D. Sereno Regis, Relazione
Conferenza Nazionale sul Decentramento, in C. Bassis, “Domenico Sereno
Regis”, Beppe Grande Edizioni, Torino 2012, p. 201).
Libertà, democrazia e partecipazione formano una triade inseparabile: non
si dà l’una senza le altre due. Purtroppo, sembra che non sia questo il punto
di vista dominante. Dura da tempo, ma nelle scorse settimane il paradigma
repressivo anti-democratico, anti-libertario e anti-partecipativo si è reso più
visibile anche in altri ambiti. Più in piccolo, sempre a Torino il 25 luglio,
giorno di apertura del meeting europeo Climate social camp di Fridays
for future, durante lo svolgimento di una manifestazione nonviolenta per il
clima, la questura di Torino ha emesso un’altra trentina di denunce e 5 fogli
di via contro attivisti di Extinction Rebellion. Nel primo
giorno del meeting, due ragazze poco dopo l’alba si sono arrampicate e
incatenate al balcone della Regione in pieno centro città, Piazza Castello, per
sottolineare l’inadeguatezza della maggioranza che governa il Piemonte di
fronte alla evidente crisi climatica. Nel giro di poche ore, assieme agli altri
attivisti presenti per dare volantini o fare foto, sono stati tutti denunciati
per invasione di terreni o edifici e per manifestazione non preavvisata. Le
forze dell’ordine hanno notificato fogli di via fino a due anni sia ad
attivisti arrivati in città per il Climate social camp, sia a
persone che vivono e studiano a Torino. Questo nella settimana in cui centinaia
di giovani si erano riuniti da tutta Europa per discutere e confrontarsi, ma
anche per esprimere il proprio dissenso di fronte al vuoto politico contro le
emissioni climalteranti. L’insussistenza delle accuse è subito apparsa chiara non
solo a moltissimi osservatori che hanno espresso solidarietà ai ragazzi colpiti
dai provvedimenti ma anche alla Procura che il 19 agosto, dopo la presentazione
dei ricorsi al TAR degli accusati, ha iniziato a revocare i primi tre fogli di
via.
Lontano dal capoluogo piemontese, martedì 19 luglio su mandato della
procura di Piacenza, la polizia ha messo agli arresti domiciliari e disposto
misure cautelari – rimosse dopo pochi giorni – per otto dirigenti nazionali e
locali del SI Cobas e della USB operanti nella logistica. A questi si
aggiungevano decine di lavoratori e attivisti messi sotto accusa: 350 pagine di
ordinanza hanno costruito un teorema giudiziario sulla scorta di fatti
criminosi quali picchetti, scioperi, occupazioni dei magazzini, assemblee. Le
accuse sono simili a quelle contro Askatasuna, compresa
l’associazione a delinquere – già disconosciuta per i sindacalisti ai primi di
agosto dal Tribunale del riesame di Bologna. Restano le accuse di violenza
privata, resistenza a pubblico ufficiale, sabotaggio e interruzione di pubblico
servizio. Paradossalmente, la stessa procura afferma che le lotte condotte nei
magazzini della logistica dal 2014 al 2021 sarebbero state attuate per
motivazioni pretestuose e con intenti “estorsivi”, al fine di ottenere per i
lavoratori condizioni di miglior favore rispetto a quanto previsto dal
contratto nazionale: come se da un’organizzazione sindacale ci si dovesse
attendere qualcosa di diverso.
I principi democratici non sono messi in pericolo da spazi occupati come Askatasuna,
dalle associazioni sindacali di base o dai presidi in Val di Susa: tutte
esperienze che favoriscono, cercano e certamente non ostacolano la
partecipazione. Il vero problema è che queste realtà sono capaci di
associazione non sovversiva o a delinquere ma
contro leggi discriminatorie e fratricide che impediscono perfino il soccorso
ai bisognosi, contro grandi opere sovra-dimensionate e inutili, contro lo
spreco di risorse per la produzione di tecnologie militari insostenibili. E
sanno “socializzare i problemi e unire le lotte” oltre i confini nazionali: a
fine agosto c’è stato un boicottaggio dei cantieri del TAV con arresti e
denunce anche a St. Jean de Maurienne, sul lato francese del tunnel.
Piuttosto i principi democratici sono messi in pericolo – la citazione è di
un torinese illustre: Primo Levi – da “tutte quelle forme di concentrazione del
potere che negano al cittadino la possibilità e la capacità di esprimere ed
attuare la sua volontà. A questo si arriva in molti modi, non necessariamente
col terrore dell’intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo
l’informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in
molti modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l’ordine, e
in cui la sicurezza dei pochi privilegiati riposava sul lavoro forzato e sul
silenzio forzato dei molti” (Primo Levi, Un passato che credevamo non
dovesse tornare più, Corriere della sera, 8 maggio 1974).
In Val Susa è repressa perfino l’arte: Blu, un writer italiano
che secondo il Guardian è fra i migliori artisti di strada contemporanei, è
finito sotto processo per “imbrattamento” perché nel 2015 aveva dipinto su un
cavalcavia un treno-serpente che si mangia la coda. I carabinieri l’hanno
identificato e denunciato assieme ad altre quattro persone. Lo scorso 8 maggio
si è concluso a Torino il processo contro Blu e i suoi correi, assolti perché
il fatto (l’imbrattamento) non sussiste il bene pubblico (il cavalcavia) era
stato non deturpato ma arricchito dal murale.
Preoccupano gli esiti di una ricerca diffusa a fine 2020 da Alessandro
Senaldi dell’Università di Genova con il supporto dell’Associazione Bianca
Guidetti Serra, i quali dimostrano come la repressione giudiziaria del
movimento NoTav abbia lavorato – questa sì – ad alta velocità: udienze
velocizzate, rapporti Digos copia-incollati senza filtro, utilizzo a man bassa
del concorso morale e delle misure cautelari. Preoccupano tali risultati,
perché l’ultima iniziativa della procura torinese si inserisce in un solco di
repressione che, nel caso del movimento NoTav, riporta a procedimenti
giudiziari contro giornalisti, scrittori, perfino nei confronti della tesi di
una studentessa di sociologia che aveva usato il pronome “noi” per raccontare
un’esperienza interna al movimento valsusino.
Alle vicende di repressione e censura fanno da contraltare esclusioni
sistematiche della cittadinanza non omologata da ogni possibile forma di
partecipazione da parte alla vita libera e democratica a Torino e in Piemonte.
Dallo scorso maggio la stessa procura di Torino ha introdotto restrizioni al
diritto di cronaca: in tema di arresti, prima di darne notizia, ora occorre il
permesso. Dopo l’entrata in vigore delle disposizioni della ministra della
Giustizia, Maria Cartabia, che ridisegnano i rapporti tra informazione e
giustizia, a Torino è stato adottato un documento di indirizzo inasprendo i
divieti di comunicazione con la stampa per magistrati e forze di polizia,
prevedendo che sia il procuratore della Repubblica ad autorizzare il rilascio
di informazioni, o a negarle quando necessario per la prosecuzione delle
indagini e quando ricorrono altre ragioni di interesse pubblico. Solo il
procuratore della Repubblica sarà quindi titolato a decidere cos’è di interesse
pubblico e ad autorizzare o meno la diffusione della notizia. I testi dei comunicati
stampa verranno raccolti presso la segreteria della procura e annotati in
apposito registro; il comunicato deve arrivare con almeno 48 ore di anticipo,
la richiesta di conferenza stampa almeno cinque giorni prima.
Dello scorso anno (DL 121/2021, comma 9-ter, articolo 3) sono i
provvedimenti che, dopo il cantiere della Maddalena di Chiomonte, hanno ridotto
a “Siti Strategici di Interesse Nazionale” – soggetti pertanto all’autorità
militare e inaccessibili perfino a giornalisti e parlamentari – i comuni di
Bruzolo, Bussoleno, Giaglione, Salbertrand, San Didero, Susa e Torrazza
Piemonte, dove dovrebbero sorgere i cantieri della nuova linea TAV Torino
Lione.
Ciliegina sulla torta della non-inclusione è stata a fine luglio la nomina
nell’Osservatorio del governo sul TAV di Antonio Rinaudo, pubblico ministero in
pensione, già facente parte del cosiddetto Pool anti No Tav costituito dal
Procuratore aggiunto Gianfranco Caselli a inizio millennio. Rinaudo fu poi
rimosso dal Pool assieme al collega Andrea Padalino nel 2014, ai tempi del
maxi-processo contro i No Tav, da Armando Spataro, successore di Caselli alla
Procura torinese. Ritorna ora come coordinatore del Tavolo Legalità,
trasparenza e anticorruzione, mentre le richieste di ascolto e le
denunce della popolazione sono ignorate
Non si comprendono questi teoremi giudiziari, queste scelte selettive di
ostacolo alla partecipazione democratica se non come un tentativo di impedire
che nei magazzini della logistica, così come nei territori inquinati o soggetti
a sfruttamento di risorse, si rafforzino esperienze di consapevolezza,
soggettività, coscienza di classe – o come ognuno preferisce chiamarle – capaci
di non cedere sui diritti dell’ambiente, della salute e del lavoro. Si vuole
negare legittimità al sindacalismo conflittuale e alle sue pratiche, così come
si vuole negare il diritto alla difesa del proprio territorio e della propria
salute a un’intera popolazione, o il diritto a rivendicare spazi di futuro per
il proprio destino alle nuove generazioni, approfittando di ogni conflitto per
dare un’ulteriore spinta repressiva, contro il diritto di sciopero come contro
quello di manifestare o di prestare solidarietà e aiuto in modo autorganizzato
a chi, migrante o malato o disoccupato, è in difficolta.
L’attivista No Tav Emilio Scalzo sottolinea sovente che un tempo era reato
il comportamento opposto: “l’omissione di soccorso”. La sua storia è esemplare:
67 anni, estradato in Francia con l’accusa di aver colpito un gendarme durante
una manifestazione a sostegno dei migranti che attraversano il confine fra
Italia e Francia: uno dei luoghi più pericolosi da varcare per chi proviene
soprattutto dalla rotta orientale, anche a causa della brutalità della gendarmerie francese.
Fu prelevato in casa a Bussoleno da un plotone della Digos e della celere,
internato nel carcere di Aix en Provence dal 3 dicembre 2021 fino al 12
febbraio 2022. Rilasciato ma costretto prima all’obbligo di firma e dimora in
Francia, mai processato, è stato infine espulso il 21 aprile 2022 con l’obbligo
di abbandonare la Francia, e divieto di dimora, entro 24 ore. Scalzo è sotto
processo in Italia – e per questo non avrebbe potuto essere estradato – per
l’occupazione della ex casa cantoniera di Oulx, struttura dismessa che fino
allo sgombero, nel 2018, fu trasformata in centro di accoglienza per i
migranti.
Questo mentre è chiaro che solo le mobilitazioni dal basso, il sindacalismo
di base, i movimenti, le combattive associazioni a tutela dei migranti sono
riuscite prima a rivoltare il paradigma della legalità e poi a svelare a quali
orrori occorra abituarsi oggi per rimanere entro i suoi confini, celati dietro
giungle di super-sfruttamento, caporalato, precarietà e salari da fame, resi
possibili da connivenze e silenzi perfino sulle infiltrazioni della malavita
organizzata. Dispiace la disattenzione complice, a Torino almeno, dei media
locali: Repubblica, che come ricordava Luca Rastello “quando si
convince di una cosa, non gli fa cambiare idea nemmeno la realtà”, e La
Stampa, giornale “No Soul” che ha approfittato perfino dell’imbrattamento
della propria sede con una scritta No Vax “Il vostro silenzio uccide” per fare
di tutt’erba un fascio ed accusare di ciò il movimento valsusino e perfino il
pacifismo.
Questo è il “cattivo presente” a cui rimanda l’articolo di Novaro: una
realtà “catturata”, imprigionata da un immaginario di crescita economicamente e
ecologicamente insostenibile, che per affermarsi non può che ricorrere a forme
di violenza strutturale e culturale anacronistiche, e che non potrà generare
altro che nuove contrarietà e nuove ribellioni.
Torna alla mente Herbert Marcuse – uno dei massimi esponenti con Max
Horkheimer e Theodor Adorno della Scuola di Francoforte – maestro della nuova
sinistra negli anni ‘60 del Novecento che mise a disposizione dei giovani del
‘68, con L’uomo a una dimensione (1964), gli argomenti per
parlare delle democrazie europee come di società bloccate sul piano politico,
culturale e ideale: una delle piú radicali disamine e contestazioni della
condizione umana nelle società industriali avanzate, che non ha mai esaurito la
forza del suo impatto critico e polemico.
Vale la pena di riprendere quanto scrisse un altro illustre torinese, il
sociologo Luciano Gallino che con la moglie Tilde Giani nel 1967 curò la
traduzione di L’uomo a una dimensione per Einaudi e che
nell’introduzione alla riedizione del libro nel 1991 così osservava:
“L’attualità di L’uomo a una dimensione non è soltanto legata
al persistere delle stesse distorsioni, nelle società industriali avanzate, che
il suo autore intravvide all’epoca con lucidità. È la storia più recente che si
è incaricata di restituire al libro una inquietante presa diretta (…). Una
società non può continuare a incivilirsi; non può produrre individui consapevoli
e autodeterminati; non può applicare la ragione all’arte di vivere, se non sa
dialogare al proprio interno, o all’esterno, con qualche forma di opposizione
radicale; se non sa interagire con forze che rappresentano un rischio perenne e
una sfida, perché mettono in forse la sua identità, le strutture psichiche e
culturali latenti che ne assicurano la persistenza, col risultato positivo che
in tal modo codeste entità forzano una società a non bloccarsi, a continuare a
crescere”.
Non so quanto sia rimasto nell’odierno Askatasuna di
riferimenti alla tragica storia del braccio armato del partito nazionalista
basco, l’ETA: Euskadi Ta Askatasuna (Nazione basca e libertà),
nato nel 1958/59 in epoca franchista. Un movimento antifascista ma sempre in
bilico fra diventare un esercito di liberazione o una banda di disperati capaci
di attentati efferati. Bisognerà discuterne, perché si trattò di un movimento
represso duramente, con metodi sudamericani, anche dopo la caduta di Franco e
che iniziò a scomporsi nel 1981 dopo la ritrovata democrazia in Spagna, ma una
sua frangia rimase attiva, purtroppo anche militarmente contro la popolazione,
fino al definitivo scioglimento nel 2010. Tuttavia, va rilevato che le
posizioni politiche e culturali coltivate oggi da Askatasuna, così
come dai sindacati di base, dai movimenti ambientalisti e per il clima nascono
anche da una esperienza quotidiana di esclusione dal sistema e da una profonda
consapevolezza delle dinamiche di trasformazione dell’economia, del lavoro,
dell’ambiente e del clima. È importante recuperare e condividere le fila di
tutti questi pensieri, che si devono intrecciare con il lavoro scientifico e
culturale. Sono questioni che riguardano i diritti di tutti noi, come
lavoratrici e lavoratori, esseri umani liberi ed eguali, cittadini e soggetti
di diritti, sul lavoro che – come ricordava Gallino – non è una merce, così
come sull’integrità del territorio abitato e sulla propria salute. Per una vera
transizione, per il cambiamento di cui abbiamo disperatamente bisogno, occorre
non reprimere ma liberare, occorre che “scaturiscano” energie più giovani che
sono già spontaneamente partecipative e impegnate nella trasformazione del
presente in direzione maggiormente creativa, ecologista e solidaristica.
Dobbiamo rinunciare a ogni illusione di continuità con le “magnifiche sorti e
progressive” del recente passato, il cui orizzonte è breve, ormai legato solo
più a occasioni di opportunismo politico e economico, destinato inesorabilmente
a tramontare.
“Si dovrebbero aggiungere mutamenti ben più impegnativi – concludeva Gallino nella prefazione a L’uomo a una dimensione – quali una nuova razionalità tecnologica, fondata anziché sulla separazione storica tra scienze naturali e scienze umane, sulla loro intenzionale rifusione; un diverso ordine di priorità nei consumi individuali e collettivi; la diffusione di un’etica della responsabilità in ogni settore di attività economica ed amministrativa; una concezione innovativa di ciò cui occorre dar priorità nella formazione dei giovani; una dissociazione tra avere ed essere che pur non sacrificando troppo il primo (…) non subordini ad esso il secondo. Con un’espressione di Marcuse, l’Europa potrà far fronte alle sfide che provengono da Est e da Sud soltanto se riuscirà ad operare un mutamento qualitativo e quantitativo del suo tenore di vita, riassumibile in una “riduzione del sovrasviluppo”, con tutte le conseguenze – o per meglio dire le premesse – economiche, sociali e culturali che ciò comporterebbe. E tutti codesti mutamenti non si potrebbero imporre, ma soltanto ottenerli dai cittadini mediante forme di democrazia partecipata, delle quali nei sistemi politici europei, e men che mai nel nostro, non si intravede per ora nemmeno il presagio”.
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