Pubblichiamo
molto volentieri queste preziose riflessioni sulla Sanità 4.0, scritte da una
compagna che da trent’anni si occupa di salute (in senso professionale e non
solo) ispirandosi alla medicina tradizionale cinese. Dai corpi ai campi, dai
laboratori alle strutture sanitarie, l’intreccio tra digitalizzazione e
biotecnologie ci sta portando verso un “nuovo ordine sociale” in cui l’umanità
stessa viene concepita e trattata come un “prodotto difettoso”. Diventa allora
sempre più urgente, secondo l’autrice del testo, pensare e praticare percorsi
di autorganizzazione anche in ambito medico. Uno stimolo, insomma, ad aprire
un’ampia discussione che coinvolga sia compagne e compagni sia quella parte del
personale sanitario che è ancora e vuole restare umana.
PNRR: Piano
Nazionale di Radiazione di ogni Resistenza (umana)
È ormai
evidente che un’emergenza sanitaria reale è diventata il cavallo di Troia
attraverso cui limitare in modo sempre più accelerato le libertà individuali e
plasmare un nuovo ordine sociale, in cui il valore di ogni specie, compresa
quella umana, e del pianeta diventano esplicitamente secondari rispetto alla
sopravvivenza ed al funzionamento adattato del sistema.
Premetto che
per me è importante in questo momento sottolineare che non si tratta di un
banale virus; che si tratti di un prodotto di laboratorio o che sia conseguenza
della devastazione ambientale nel suo complesso, è un dato di fatto che esso
richiede di essere trattato per tempo ed in modo appropriato, specifico e da
persone competenti (ovvero che hanno studiato e praticato la medicina) e che il
cosiddetto “long Covid” riguarda il 14% dei contagiati, in proporzione maggiore
nelle fasce più giovani, con conseguenze sul lungo termine ancora ignote.
Sminuirne la gravità è a parer mio un errore, sia perché esso è l’ennesima
dimostrazione di quanto il sistema in cui viviamo sia inaccettabile, sia perché
“saltare le curve” corrisponde alla tendenza diffusa in questo periodo ad
isolare le critiche ed i fenomeni, perdendo di vista il rapporto fra ciò che si
produce e le cause che lo generano. Forse è proprio la portata della situazione
a determinare questa difficoltà nella lettura globale di quanto sta accadendo.
La pandemia
(la definisco tale in senso letterario, ovvero come qualcosa che ha coinvolto
la popolazione dell’intero pianeta) ha mostrato tutte le conseguenze delle
scelte operate negli ultimi 30 anni nel servizio sanitario nazionale; la
privatizzazione di servizi, i tagli delle strutture e del personale, la
trasformazione delle unità sanitarie locali in aziende sanitarie locali in nome
delle regole dell’economia e del profitto, hanno ridefinito l’accesso oltre che
l’approccio alle cure.
A precedere
e stimolare queste prassi vi è da un lato la direzione assunta dalla medicina
nel suo complesso a partire dagli anni ’50; la scelta di investire tempi e
risorse nell’investigazione e la classificazione dei sintomi, limitando via via
l’indagine e la rimozione delle cause dello squilibrio, ha prodotto una visione
nuova della malattia. Ogni segnale di squilibrio va rimosso attraverso
l’utilizzo di farmaci e protocolli, senza alcuna considerazione del contesto
individuale ed ambientale in cui si producono. In questo modo le scelte
collettive ed individuali (i perché causali) sono state
private di ogni rilevanza, permettendo l’accrescersi indisturbato di situazioni
pericolose (Ilva, Tav, uso massiccio di pesticidi…); nel contempo si sono
creati i presupposti per la generazione di una società di malati cronici (in
Italia si parla del 40% della popolazione).
In
concomitanza, il potere economico e politico assunto dalle case farmaceutiche,
diventate “big” attraverso processi di fusione – sarebbe forse più appropriato
parlare di inglobamento delle imprese più limitate – di realtà similari (ad
esempio Pfizer) e/o di aziende di alto interesse tecnologico (ad esempio
Bayer), il potere appunto delle case farmaceutiche è aumentato
esponenzialmente; il paziente (colui che sente), dopo essere classificato come
malato (colui che ha una malattia), diventa infine consumatore fidelizzato, in
virtù di quanto sopra, ovvero una mancata ricerca, denuncia e risoluzione delle
cause dello squilibrio, ma anche dell’approccio espressamente commerciale utilizzato
dai produttori sia verso i destinatari dei farmaci, sia verso quella fetta,
ahimè consistente, di medici e ricercatori compiacenti.
La visione
meccanicistica della vita è stata cavalcata quindi da un approccio
farmacologico e specialistico ed il ruolo della medicina di base, quella per
cui un individuo si rivolge al medico di fiducia, si è progressivamente ridotto
fino a diventare nei fatti un ambito burocratico, ovvero il punto di accesso
per le necessarie prestazioni mirate.
Ne sono la
riprova le strategie che lo Stato ha attuato nel corso dell’ultimo ventennio,
sovvenzionando i medici di medicina generale che decidevano di associarsi;
questa scelta, oltre ad essere funzionale a sopperire alla carenza di queste
figure (sul “Sole 24 ore” di qualche giorno fa, un’indagine palesa la mancanza
di questa figura sanitaria per 1,5 milioni di italiani, prendendo in
considerazione solo 8 Regioni), comporta anche un graduale adattamento all’idea
che non è fondamentale una figura di riferimento nella cura, svuotando di
contenuto la presa in carico e traducendola in mera erogazione di servizi,
peraltro sempre più frequentemente su basi prestabilite.
Sostanzialmente
si è giunti ad affrontare questa situazione con una medicina claudicante,
svuotata di qualsiasi intervento rivolto alla salute e cioè della sua (della
medicina) rilevanza politica, in cui la prevenzione coincide con la capacità di
diagnosi precoce, avulsa dal contesto specifico umano e territoriale.
Alla luce di
ciò tutto ciò la gestione nel suo complesso di quanto è accaduto a partire da
marzo 2020 sul piano sanitario diventa forse più comprensibile; non stupisce da
parte della maggioranza di medici né l’adesione alle indicazioni e ai
protocolli imposti, né l’abbandono dei pazienti a casa, né la ritrosia verso un
confronto pubblico sul territorio, né, oggi, la mancanza di prese di posizione
rispetto a quanto si verificherà se verrà attuata la linea prevista nel Piano
Nazionale di Ripresa e Resilienza.
Il primo
paragrafo del PNRR recita così: «La pandemia da Covid-19 ha colpito l’economia
italiana più di altri Paesi europei. Nel 2020, il prodotto interno lordo si è
ridotto dell’8,9 %, a fronte di un calo nell’Unione Europea del 6,2. L’Italia è
stata colpita prima e più duramente dalla crisi sanitaria. Le prime chiusure
locali sono state disposte a febbraio 2020, e a marzo l’Italia è stata il primo
Paese dell’UE a dover imporre un lockdown generalizzato. Ad oggi risultano
registrati quasi 120.000 decessi dovuti al Covid-19, che rendono l’Italia il
Paese che ha subito la maggior perdita di vite nell’UE».
L’esordio
quindi è spudoratamente riservato all’economia; d’altro canto il piano riguarda
la ripresa (dell’economia) e la resilienza (termine che fino a cento anni fa si
accostava solo ai materiali e che poi è stato ampiamente utilizzato nell’ambito
della psicologia per indicare la capacità della persona di resistere; più
letteralmente, di contrarsi e “barricarsi” di fronte ad un evento). Fa specie
anche il riferimento, sempre nella premessa, al miracolo economico nel secondo
dopoguerra; ogni azione individuale e collettiva deve da marzo 2020 tener conto
della guerra in corso contro il virus, in primis appunto per indurre la ripresa
economica, sacrificando le vite di troppi e le libertà degli altri.
Il PNRR è il
testo programmatico che consente di avviare concretamente la partecipazione
al Next generation EU; i contributi ammontano a 191,5 mld da
impiegare nel periodo 2021-2026, di cui 68,9 mld a fondo perduto (quindi oltre
120 miliardi di debito che ricadranno sulle teste dei lavoratori nell’arco di
poco tempo, elemento anche questo non trascurabile).
Questi fondi
sono stati concessi previa approvazione della loro destinazione e non hanno di
fatto nulla a che vedere con la tutela della popolazione e dell’ambiente, ma,
al contrario, favoriscono la tendenza alla digitalizzazione di ogni aspetto
della realtà a discapito dei territori e delle specie viventi. Ne è una
conferma il fatto che a fine settembre la stessa UE ha stanziato 6 miliardi
complessivi spendibili entro il 2026 per fronteggiare le future pandemie che,
dal loro punto di vista, ineluttabilmente si presenteranno.
A riprova
della prassi consolidata di utilizzare un linguaggio volto a mistificare e ad
offuscare i contenuti, oltre agli anglicismi di cui questo testo è infarcito –
quasi a mostrarne la modernità e quindi il valore – ,ci si riferisce nel titolo
alla salute (non alla sanità), istillando l’idea che lo Stato, come un buon
padre autorevole, a seguito di quanto accaduto voglia prendersi cura in modo risoluto
e capace del benessere della popolazione. È evidente che favorire condizioni e
pratiche che consentano ad ogni individuo di esprimere liberamente le proprie
potenzialità va nella direzione esattamente contraria al progresso del sistema,
che per riprodursi efficacemente ed indisturbatamente necessita del prolificare
di malattia e disagio, di fatto il terreno attualmente più fertile per il
controllo sociale ed per il mantenimento di una società gerarchica.
Le
restrizioni e l’isolamento sociale radicale imposti a partire da marzo 2020
stanno ridefinendo le relazioni nel loro complesso; la percezione del contatto
– fisico e non – con l’altro – o con altro – è stata facilmente manipolata,
traducendo il valore dei rapporti in potenziale minaccia; gioco facile,
agevolato per esempio da decenni di pratiche e di propaganda razziste. In una
dimensione di dubbio, impotenza e paralisi generalizzata, lo Stato ha
approntato una campagna mediatica per spingere alla vaccinazione e per
introdurre il green pass, basata su slogan legati al senso di responsabilità
civile, di solidarietà, facendo leva sulla mancanza di senso di appartenenza,
strumentalizzando così anche la solitudine e la sofferenza dei più.
Ecco che
anche nel PNRR questa tendenza trova espressione, nella scelta di termini quali
“casa della comunità” e “ospedale del territorio”, per indurre adesione a
questo grande progetto di riforma sanitaria e sociale.
I fondi
destinati alla «missione 6: salute» sono 15,63 mld, così ripartiti: 7 mld per
reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria
territoriale e 8, 63 mld per innovazione, ricerca e digitalizzazione del
Sistema Sanitario Nazionale.
Nel
dettaglio:
2 mld per
case della comunità e presa in carico della persona
4 mld per
casa come primo luogo di cura e telemedicina
1 mld per
rafforzamento dell’assistenza intermedia e delle sue strutture (ospedali di
comunità)
7,36 mld per
aggiornamento tecnologico e digitale
4,05 per
ammodernamento parco tecnologico e digitale ospedaliero
1,64 per un ospedale
sicuro e sostenibile
1,67 per
rafforzamento dell’infrastruttura tecnologica e degli strumenti per la
raccolta, l’elaborazione, l’analisi dei dati e la simulazione
1,26 per
formazione, ricerca scientifica e trasferimento tecnologico
0,52 per
valorizzazione e potenziamento della ricerca biomedica del SSN
0,74 per
sviluppo delle competenze tecniche, professionali, digitali e manageriali
La “casa
della comunità” rappresenta il fulcro della nuova medicina territoriale e sarà
una «struttura in cui opererà un team multidisciplinare di medici di medicina
generale, pediatri di libera scelta, medici specialistici, infermieri di
comunità, altri professionisti della salute e potrà ospitare anche assistenti
sociali».
Mesi fa
erano state definite “ufficio unico del malato”, aperte dalle 8 alle 20. In
questo modo la medicina del territorio verrà completamente smantellata nel suo
significato; intanto perché i servizi di base diventeranno fisicamente
raggiungibili con più difficoltà (considerando 60 milioni di abitanti, la media
è di 1 casa della comunità ogni 46000 abitanti). Ma soprattutto preoccupa il
fatto che è previsto entro il 2024 un numero elevatissimo di pensionamenti dei
medici di medicina generale (intorno ai 20000; 32500 se consideriamo il 2027).
Quindi si fa strada la possibilità concreta che verrà di fatto eliminata la
figura del medico di fiducia; il paziente dovrà affidarsi a medici turnisti che
si occuperanno del sintomo o del quesito contingente.
In questa
direzione si muove l’attuale dibattito volto a rendere i medici di base, ora
convenzionati, dipendenti pubblici a tutti gli effetti; ciò comporterebbe
infatti implicitamente l’impossibilità di una libera scelta del medico di
fiducia. Ma non solo; probabilmente istituzionalizza il sodalizio tra case farmaceutiche
(che sovvenzionano buona parte delle specializzazione dei medici di medicina
generale attraverso i sindacati più forti degli stessi) e Stato, togliendo ogni
autonomia di espressione e di pratica a chi di loro volesse dissentire.
In questo
contesto di carenza di personale e di perdita di relazione, ben si spiega la
destinazione di fondi alla telemedicina; nelle dichiarazioni contenute nel
paragrafo specifico il suo utilizzo è previsto specificamente per i malati
cronici, «fino ad una percentuale del 10% della popolazione
ultrasessantacinquenne al fine di agevolare le cure domiciliari». In realtà
l’ultimo anno e mezzo ha sdoganato l’utilizzo di questo strumento anche
nell’ambito della medicina di base e diventerà di fatto, implementando l’utilizzo
del fascicolo sanitario elettronico, una prassi. Ne è riprova il fatto che
proprio in questi giorni viene data comunicazione dell’introduzione di
piattaforme specifiche e relative app che utilizzano
l’Intelligenza Artificiale per aiutare il medico nella scelta terapeutica non
solo dei pazienti cronici (vedi ad esempio OPeNet che utilizza l’IA di IBM).
Certo è che, tolto il valore delle relazioni, tolto il senso delle loro
peculiarità, tolto il peso specifico di memoria ed intuito, come può essere
paragonata la capacità di analisi di un medico, di un umano, con quella di un
algoritmo? Da qui a delegare ad una “macchina efficiente” e per ora obbediente
il compito, oltre che di risolvere le anomalie, anche di decidere modalità e
requisiti per l’accesso alle cure in base ai dettami del potere, il passo non è
poi tanto lungo.
Non lo è
neppure per prospettare l’utilizzo massivo di chip per il monitoraggio delle
condizioni cliniche prima dei “cronici” e poi di tutti indistintamente (in
Svezia già 10000 persone hanno volontariamente scelto l’impianto di almeno uno
di questi aggeggi – «nel corpo c’è tanto spazio» – per il controllo di battito
cardiaco, temperatura, ma anche per aprire le porte dell’ufficio…); e un
domani, potendo controllare in tempo reale l’adesione o meno alle indicazioni
prima sanitarie e poi comportamentali dei singoli, stabilire chi ha diritto
alle cure e chi no.
Un’ultima
conferma viene dalla realizzazione di 381 ospedali di comunità, strutture
intermedie dotate di 20 (fino a 40) posti letto «destinate a pazienti che
necessitano di interventi sanitari a media/bassa intensità clinica e per
degenze di breve durata…. A gestione prevalentemente infermieristica». Saranno
dunque gli infermieri, nella migliore delle ipotesi, a relazionarsi con i pazienti,
mentre i medici del territorio staranno davanti a degli schermi.
Per
realizzare questo progetto che spersonalizza tanto il paziente quanto il medico
è necessario implementare l’utilizzo del fascicolo sanitario elettronico,
istituito una decina di anni fa e ad oggi ancora poco operativo. La maggioranza
dei fondi vengono spesi per la digitalizzazione di ogni dato sanitario, che
deve diventare consultabile in tempo reale attraverso la meraviglia del 5G in
qualsiasi contesto. La concretezza del corpo evapora insomma e restano solo un
flusso di dati e la lettura del loro funzionamento.
Senza
entrare nel merito della sicurezza dei dati (quanto accaduto l’estate scorsa in
Lazio ed in Lombardia dimostra quanto essi siano in balia di chicchessia, fermo
restando che la loro rilevanza riguarda soprattutto gli ambiti del controllo
sociale), non è un caso il progetto di realizzare un documento di identità
digitale che comprenda, oltre al tracciamento e al controllo attivo degli
aspetti finanziari, anche i dati sanitari; l’accesso alle cure sarà subalterno
all’accettazione di ogni dettame sotto l’imperio di quella “brutta bestia” che
è il bisogno.
Tornando al
PNRR, quasi tutti i fondi vengono di fatto spesi per la digitalizzazione e per
la tecnologia: il resto sono fondi per la sostituzione di apparecchiature
sanitarie (1,19 mld), per il potenziamento della dotazione di posti letto di
terapia intensiva (+ 3500) e sub-intensiva (+ 4225) e messa in sicurezza delle
strutture (1,64 mld).
È coerente
con quanto sopra il riferimento nella “missione 4” del PNRR – istruzione e
ricerca – che, fra gli altri, si pone come obiettivo quello di «incrementare il
numero di iscritti e diplomati negli ITS», con il potenziamento dei laboratori
con tecnologie 4.0; già dal 2015 in diversi Paesi, tra cui Italia, Germania,
Canada, sono stati avviati progetti sovvenzionati negli istituti ad indirizzo
tecnico STEM che prevedono la formazione nell’ambito delle biotecnologie
applicate all’agroalimentare e alla medicina.
Sintetizzando
potremmo pensare ad una nuova classe da un lato di tecnici, istruiti ad hoc in
giovane età verso un approccio acritico alle scienze, dall’altro di burocrati
laureati in medicina generale, che avranno già fatto atto di fede al momento
dell’iscrizione all’università sottoponendosi senza alcuna possibilità di
discussione per ora a vaccinazioni e domani si vedrà (come accade già da tempo
nell’esercito).
Un elemento
che merita di essere affrontato con attenzione riguarda infatti le
biotecnologie: la “deroga temporanea” dell’UE all’utilizzo degli OGM per poter
autorizzare la produzione e la somministrazione dei “vaccini” anti-Covid, ha
permesso, nell’arco di pochi mesi, di “sdoganare” l’utilizzo di tecniche basate
sull’editing genetico senza trovare alcuna ostacolo né concreto, né di critica.
Ogni giorno,
da qualche mese, vengono presentate studi in vari settori sia
dell’agroalimentare, sia della medicina, che utilizzano – a detta di lorsignori
con risultati straordinari – i benefici del sistema CRISPR (in Giappone è già
sul mercato il succulento “sicilian rouge high gaba”, un pomodoro che contiene
quantità potenziate di gaba, un neurotrasmettitore inibitorio presente nel
sistema nervoso centrale dei mammiferi con effetto calmante e sedativo).
Questo
significa che l’opposizione al siero anticovid tra poco tempo, davvero poco
tempo, in termini di salute individuale potrebbe diventare del tutto
irrilevante, se attraverso l’alimentazione o le proposte terapeutiche (ad
esempio quelle per le patologie tumorali) viene introiettato lo stesso tipo di
prodotto.
D’altro
canto, come si leggeva a maggio su www.nature.com: «I vaccini per il covid19 sono stati i primi farmaci approvati basati
sull’acido ribonucleico messaggero (mRNA), ma non saranno gli ultimi. La
pandemia ha messo sotto i riflettori una tecnologia studiata da oltre un
decennio, che ora potrebbe essere applicata a malattie che vanno dalle
infezioni virali al cancro e le malattie autoimmuni. In particolare, l’ondata
di interesse e gli investimenti in questa tecnologia stanno favorendo
un’accelerazione della ricerca italiana sulle malattie metaboliche ereditarie,
causate da geni difettosi…»; così accade per esempio che l’ospedale di Padova,
che collaborava con Moderna già precedentemente al marzo 2020, ora non ha più
ostacoli nel testare questa tecnologia relativamente all’acidemia
metilmalonica, (una malattia rara che impedisce all’organismo di elaborare
alcuni aminoacidi, con gravi conseguenze).
Se in questo
caso il test è su un numero limitato e già ammalato di soggetti, Moderna ha
annunciato lo sviluppo di un vaccino unico che contrasta contemporaneamente
covid19 e influenza stagionale, ma anche studi per bronchiolite e melanoma,
patologie queste molto più diffuse e con altre possibilità terapeutiche. Pfizer
sta lavorando al vaccino anti-Covid unito a quello per lo pneumococco, BioNtech
ha avviato la sperimentazione sui topi di una terapia mRna per la sclerosi
multipla. Nei laboratori della Penn University, sono allo studio vaccini contro
l’Hiv e contro l’herpes genitale. Attraverso le biotecnologie vogliono in
sintesi realizzare nuovi «vaccini antinfluenzali universali, capaci cioè di
garantire protezione una volta per tutte contro virus che mutano». 50 anni fa
propagandavano il latte artificiale, da preferire a quello materno; oggi come
evoluzione di quella logica il sistema immunitario (il sistema di relazioni
interne di un individuo) viene valutato meno efficiente delle
istruzioni tecnologiche impartite da scienziati al soldo di capitalisti intenzionati
a dare forma ad un nuovo concetto di uomo, in tutto e per tutto assimilabile ad
un prodotto difettoso e manipolabile.
Se
l’intenzione della vaccinazione di massa fosse stata solo quella di
sperimentare tecnologie che fino a poco tempo fa non avevano i requisiti di
sicurezza per essere sdoganate, i paesi più poveri sarebbero stati i primi
della lista. La salute dei popoli più affamati non ha alcun valore, mentre ne
hanno parecchio le materie prime indispensabili per la digitalizzazione, che provengono
per lo più da quei luoghi; a loro sono riservati, oltre al saccheggio ed alla
devastazione, espulsione e schiavitù.
La portata
dell’attacco è titanica e la medicina gioca un ruolo politico cruciale in
questo momento e nel futuro prossimo; milioni di persone non hanno potuto
“causa Covid” avere accesso alle cure, milioni di persone sono diventate più
vulnerabili fisicamente e psicologicamente a causa del vissuto e dell’indotto
di quest’ultimo periodo. A ciò si aggiunge il ricatto del controllo che diventerà
esplicito e totale a breve su ogni azione, la cui base dovrebbe essere la
libertà che ha sua volta è correlata alla salute.
Se in alcuni
ambiti della salute è possibile provare a costruire percorsi di
autorganizzazione che però richiedono impegno e tempo per diventare
significativi, senza medici e strutture liberi c’è ben poca via di scampo (una
caduta dalle scale può capitare a chiunque).
Una cosa
certa è che senza 5G tutto ciò diventa concretamente più arduo da realizzare. E
qui la partita è ancora tutta da giocare.
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