Vorremmo sottoporre ai lettori alcune riflessioni a partire da un piccolo “caso di studio”: il tema elettorale della Flat Tax. Ma il nucleo vero del nostro ragionamento è più ampio – dare qualche spunto su come affrontare questo ed altri temi da sinistra. Per inciso: non iniziamo a discutere se esistono ancora destra e sinistra prima di aver finito l’articolo, per favore.
A metà articolo troverete una cesura, che separa radicalmente due prospettive:
laddove infatti la disamina dettagliata di una politica è un momento necessario
per capire se rigettarla, non è detto che questo approccio
analitico sia poi il modo migliore di contrastarla. In questa seconda sezione
faremo pertanto qualche riflessione su come combattere
politiche ingiuste ed indigeste.
Sia chiaro: non vogliamo dire la parola definitiva sulla Flat tax;
men che meno risolvere i (tanti) problemi della sinistra in questo banale
articoletto. Non abbiamo le “istruzioni per l’uso”, sebbene questa sia la forma
che provocatoriamente abbiamo adottato. Non vogliamo insegnare niente a
nessuno. Vorremmo discutere – assieme – qualche spunto, eclettico, di
riflessione.
Atto primo
Come affrontare un tema, dal punto di vista analitico, passo dopo passo.
1. Definire concettualmente l’oggetto
Cosa vuol dire Flat Tax, nelle sue accezioni?
Essenzialmente, per Forza Italia e Lega, un’aliquota unica per
tutti coloro che sono soggetti a imposizione fiscale (cittadini e imprese), che
stanno al di sopra di una “no tax area”. Ad esempio, si può decidere che sopra
gli 8 o i 12mila euro di reddito annuo, si applichi una aliquota fissa del 23%
su quanto supera questa soglia (proposta di Forza Italia).
Per questo viene definita “flat tax“, ossia letteralmente “tassa
piatta”, o meglio tassa “fissa”. Come le offerte “flat” delle nostre
compagnie telefoniche.
Si tratta quindi di un sistema proporzionale (ognuno paga in proporzione a
quanto guadagna), ma non progressivo (ognuno paga la stessa identica
percentuale, vale a dire che i ricchi non pagano percentualmente più dei
poveri).
2. Analizzare il tema e la proposta
Analizzare la proposta vuol dire sviscerarne gli effetti pratici, le
ricadute, le coperture finanziarie.
Le differenze con la situazione odierna sarebbero per sommi capi queste:
scomparirebbero le aliquote attuali superiori al 23%; la “no tax area”
rimarrebbe fino alla soglia definita, poniamo 12mila euro come da vecchia
proposta di Forza Italia. Sopra ad essa: 23%. E in questi sistemi non si
prevede probabilmente nessuna detrazione e deduzione per i lavoratori (anche se
si potrebbe, per renderla minimamente progressiva in qualche aspetto): tutto
dovrebbe essere ricondotto a questa unica percentuale di tassazione, uguale per
tutti.
Abbiamo detto che la “tassa piatta” è una tassazione proporzionale, ma non
progressiva. Banalizziamo e semplifichiamo, per capire meglio. Al di sopra
della “no tax area”, diciamo 12mila euro, si paga sempre il 23%. 230 euro di
tasse su 13mila euro di reddito, cioè il 23% di 1000 euro (13mila meno 12mila,
uguale 1000 euro), ad esempio. 230mila euro di tasse su un milione e 12 mila
euro. Sono “conti della serva”, per capire il concetto. La proposta della Lega
ha delle differenza nell’impianto, ma concettualmente non sono così rilevanti,
come vedremo.
Il Corriere della sera – giornale sicuramente non di sinistra – riporta un’analisi del centro studi
della UIL secondo cui essa sarebbe addirittura penalizzante per i redditi
medio-bassi (a causa dell’eliminazione delle detrazioni e deduzioni, potrebbero
pagare anche di più di ora). Mentre le tasse diminuiscono in maniera
“clamorosa” sopra i 50mila euro di reddito lordo: -43% rispetto ad oggi.
3. Mettere criticamente il punto 2 alla prova dei fatti
Lo stesso quotidiano evidenzia un punto problematico: le coperture
(complicate) sarebbero importanti, 30 o 50 miliardi (ma c’è chi dice di più)
con la proposta di Forza Italia o quella della Lega. Tanto che Fratelli
d’Italia ha fatto inserire nel programma del centrodestra non la prima proposta
o la seconda, quelle degli alleati, ma la propria, che prevede una sorta di
flat tax sull’incremento di reddito rispetto a quello degli ultimi anni (di
nuovo, non è utile entrare nei dettagli).
Queste risorse andrebbero trovate con ulteriori tagli alle detrazioni e
deduzioni, riduzioni della spesa pubblica e, secondo le intenzioni, almeno
nella prima fase con condoni fiscali. Dopodiché l’evasione che emergerà dovrà
coprire i costi grazie ad un aumento delle entrate si cui scommette la destra.
Meno tasse, moltiplicato un bel po’ di gente, significa meno
entrate nel bilancio pubblico. E in tutto questo, la proposta elettorale
trascura volutamente alcuni possibili vincoli (il vincolo del pareggio di
bilancio che il Governo Monti inserì in Costituzione; il vincolo del rapporto
del 3% tra deficit e Prodotto Interno Lordo – i famosi parametri di Maastricht
– cui non si potrebbe derogare per queste riforme fiscali; infine, ricordiamo
una prescrizione costituzionale che dice che il sistema tributario deve essere
impostato alla progressività).
Sono tutti e tre vincoli ideologici (non dovuti a una
qualche legge scientifica di natura), certo. Come tali, non sono immutabili.
Soprattutto se si hanno i numeri per cambiare la Costituzione.
Il principio di progressività della tassazione è frutto di un compromesso
ideologico, in chiave popolare, tra le forze che hanno fondato la repubblica
italiana: tassazione progressiva significava politiche popolari,
redistribuzione della ricchezza prodotta, solidarietà sociale, sviluppo sociale
ed economico. Parole che nel contesto del compromesso keynesiano del dopoguerra
potevano piacere tanto ai democristiani quanto ai comunisti. I tempi sono
cambiati, ma si spera che questa prescrizione di progressività possa creare
qualche problema a chi vuole una “tassa piatta”.
Ma non sono solo questi i problemi concreti della fantomatica “flat tax“.
Anche se il problema delle coperture ha già bloccato una riforma fiscale
berlusconiana basata su due aliquote nel 2003 (con
la flat tax enormi costi a beneficio di pochi), la sfida politica
vera è proprio definire “chi vince? E chi perde?”
4. Leggere i contenuti ideologici sottesi alla proposta (per combatterli)
I tempi sono cambiati, dicevamo. Ripetiamo: meno soldi per un bel po’ di
gente, vuol dire meno entrate fiscali; e meno entrate fiscali
evidentemente significa meno servizi pubblici.
Chi utilizza i servizi pubblici? I ceti medi e bassi, tendenzialmente.
Quindi per finanziare il risparmio per chi guadagna più di 50mila euro di
reddito annuo, verranno tagliati mezzi di trasporto, chiusi ospedali e presidi
sanitari pubblici, impoverite le scuole in cui i privilegiati non mandano i loro
figli. Un’enorme opera di redistribuzione verso l’alto: rubare ai poveri
e ai meno ricchi, per dare a ricchi e ricchissimi. Questo è il vero punto,
quello che conta per le persone, non gli astratti costi (che ne sanno le
persone normali di quanti sono 30 miliardi?) o le giuste, ma lontane,
prescrizioni costituzionali (chi si ricorda della Costituzione e di come vada
interpretata?).
La replica da destra è sempre la stessa: “meno soldi in tasse permette di
far ripartire l’economia, i consumi dei privati e gli investimenti delle
aziende, che – ingrandendo la “torta” dell’economia – porteranno a entrate
maggiori per lo Stato”.
Dobbiamo avere la forza di dire che ciò è in gran parte falso e del
tutto ideologico. Ci sarebbe molto da discutere sul ruolo dello Stato,
che è il primo (e unico) attore capace di: contrastare un ciclo economico
negativo, ampliare l’attività economica tramite investimenti pubblici,
rassicurare i privati rispetto ai consumi e agli investimenti, sostenere
l’attività delle aziende con le infrastrutture appropriate.
I privati lasciati a loro stessi, se ricchi, continueranno a investire in
attività finanziare: più rischiose, ma con una possibile rendita molto alta. I
privati non così tanto ricchi, invece, avranno qualche soldo in più da spendere
presso le strutture sanitarie private che i ricchissimi mettono gentilmente a
disposizione, per ovviare alle disfunzioni della sanità pubblica impoverita.
Come insegnava Keynes, i poveri hanno una propensione al consumo maggiore
dei ricchi: per vivere decentemente devono spendere un’alta percentuale di
quanto guadagnano. E questa riforma “piatta” darebbe ai subordinati cifre
ridotte, ben poco decisive nel rilanciare i loro consumi. Soprattutto perché,
come dicevamo, quei soldi risparmiati in tasse i poveri (e il ceto medio
impoverito) li dovranno spendere per supplire alle carenze del pubblico:
trasporti, sanità, scuola, sopra tutte le altre cose.
Una geniale operazione (indiretta e più subdola) di redistribuzione a
favore dei ricchi.
Come insegnava sempre Keynes, le aspettative sono fondamentali in economia,
anche per gli imprenditori: non aprirò fabbriche di ombrelli se sono convinto
che per almeno dieci anni non pioverà. Anche se mi regalassero dei soldi, non
li userei per la fabbrica di ombrelli, ma per altro. Quindi se mancano le
infrastrutture perché lo Stato non ha soldi, se non c’è spazio di business per
un certo settore o manca un piano industriale per l’attività economica del
Paese, ben difficilmente l’imprenditore impiegherà quei soldi risparmiati sul
suo reddito per investirli in attività produttive. Li investirà in borsa o in
beni di lusso (che hanno ricadute occupazionali molto ridotte).
È quindi evidente a chiunque voglia interessarsene che la proposta di “flat
tax” è un crimine sociale, una scandalosa redistribuzione da
basso verso l’alto. Rubare a tutti per dare alle élite.
Interludio
Ora, svolto questo semplice esercizio analitico sulla flat tax, dimenticatelo.
Quel che abbiamo fatto adesso è smascherare la proposta di qualcuno,
sperando così di bloccarla. Ma la proposta era già stata lanciata nell’agone
politico e, soprattutto, mediatico. Nulla si dice, quando si parla di “flat
tax“, dell’impressionante elusione fiscale dei grandi colossi; della
piccola evasione (a volte, consentiteci di dirlo, legata alla sopravvivenza) di
tantissimi attori economici medi e piccoli; della rendita finanziaria; delle
delocalizzazioni delle imprese; del ritardo nell’innovazione tecnologica; per
non dire del silenzio sulla catastrofe ecologica in corso…
Il problema è definito in modo semplice e appetibile al grande pubblico: le
tasse. La soluzione è evidente a chiunque (non si fermi a riflettere): abbattere
le tasse.
Il mezzo è semplicissimo, immediato da veicolare: un’aliquota unica, bassa.
È un capolavoro comunicativo.
Una volta che la boutade (vera o falsa, intelligente o
idiota) è stata fatta, occupa il centro della scena, conquista
l’immaginario, orienta l’attenzione degli oppositori, li
costringe a usare quel linguaggio. Inoltre, la “scandalosa redistribuzione
per impoverire i poveri e arricchire i ricchi” non rappresenta nulla di nuovo
rispetto a quanto costantemente avvenuto negli ultimi 30-40 anni.
La nostra posizione, da sinistra, è stata, nella prima sezione, analitica,
reattiva e difensiva.
Tre volte debole. Finirà come negli ultimi 30-40 anni.
Il salto di qualità che la sinistra deve fare è essere capace di passare
all’attacco.
Trascureremo volutamente dettagli come le definizioni di cosa sia sinistra,
di cosa voglia dire fare politiche di sinistra, di discutere della sua stessa
esistenza.
A volte bisogna andare al concreto delle cose e da qui trarne concetti,
piuttosto che il contrario. Inoltre, in un momento come questo, addentrarsi in
discussioni sottili su purezze ideologiche è più controproducente e dispersivo
che utile.
Non è detto che per immaginare un mondo migliore di questo si debba
determinare in ogni dettaglio quello che sarà (e, nel mentre, morire attendendo
la perfezione). Primum vivere, deinde filosofari.
Atto secondo
Dalla tassa piatta al re-framing: piccole regole per passare
all’attacco.
A. La verità non rende liberi
È l’assioma da cui discende tutto il discorso che segue. I fatti e gli
argomenti razionali sono necessari: vengono prima (come analisi preliminare)
rispetto all’azione politica. Ma non sono ciò che conta di più: nella società
della comunicazione quello che è centrale è come un messaggio viene
veicolato nella sfera pubblica.
Gli argomenti spesso sono un problema; quali gestire e come comunicarli?
Abbandonarli significherebbe giocare con le armi (sporche) del nemico,
sarebbe incoerente e inutile; tuttavia, essi devono perdere la posizione
preminente. Il motto evangelico per cui “La verità rende liberi” (Gv, 8, 32)
non deve più essere il mantra della sinistra: non è infatti (solo) con le
statistiche (vere) sulla criminalità in calo che si contrasta un senso di
insicurezza diffuso (vero o percepito).
Come evidenziato tra gli altri da Peter Sloterdijk, la coscienza moderna
sembra sancire il divorzio tra ciò che si sa e ciò che si fa. Agire contro ciò
che pur si sa, caratterizza oggi la situazione generale. È il passaggio da “non
lo sanno e lo fanno”, a “lo sanno… e lo fanno lo stesso”.
Nei confronti di questo fenomeno le armi dell’illuminismo si rivelano
spuntate. Non si può più agire con un intento razionalizzatore-illuministico
all’insegna del “se solo sapessero….”. Perché questo stato di coscienza
non può essere scalfito da alcun invito a vivere consapevolmente, ad avere il
coraggio di conoscere (sapere aude!). Ed è illusorio credere che a
partire da un sapere (vero) discenda necessariamente un fare (giusto).
Bisogna prenderne atto e operare uno spostamento dei pesi e degli accenti
su facoltà, capacità, virtù che l’ideale illuminista non aveva mai preso in
considerazione.
B. Fine utopico, mezzi realistici
L’uomo politico deve sapere che gli impulsi che danno il là all’agire
politico originano da pulsioni scomode. Questa consapevolezza consegna alla
riflessione politica – come materia prima da trattare – non le istituzioni, le
Costituzioni, gli apparati normativi, ma le pulsioni e le passioni, un
materiale infiammabile e intrattabile.
Più che i fatti e le verità, per portare le persone dalla propria parte
serve qualcosa che trascini. Un’emozione, una morale, un’utopia. L’utopia è
affascinante, complessa, motivante. Ma inviluppata nell’indefinitezza e nella
complessità. La sua definizione sfugge alle stesse persone che la sognano.
Come contagiare, allora, altre persone con la propria utopia?
Con la semplicità, l’immediatezza. Le armi della persuasione devono
veicolare messaggi complessi in maniera semplice, perché devono raggiungere
tutti.
Più un messaggio è grezzo, più funziona: questo è il primo dei segreti
della destra neoliberista (e anche di quella social-nazionalista). Hanno una
visione dell’uomo semplice, gretta e piatta – ma non del tutto fraudolenta. Da
lì discende una politica del consenso che funziona.
Bisogna iniziare con slogan e battute a effetto, dopodiché spiegarli nella
maniera più semplice possibile. Infine, passare all’analisi, che chiarisce solo
alla fine, quando già sei stato persuaso, come mai ti sei sentito
istintivamente d’accordo con quello slogan.
L’esatto contrario di quello che la sinistra fa oggi: essa analizza tutti i
risvolti di una situazione, poi cerca di spiegarla con linguaggio perlopiù
tecnico a persone sprovviste di competenze tecniche, infine conia slogan poco
appetibili e del tutto “fuori fase” col contesto.
C. Le paure rivelano bisogni reali
Una visione grezza dell’uomo è parziale, ma non falsa: le persone hanno
bisogni reali (sopravvivere, vivere in sicurezza, autorealizzarsi). Non c’è
bisogno di studiare la piramide di Maslow per condividere questa affermazione.
I bisogni delle persone sono quindi il punto di partenza per ogni
interlocuzione politica. Non le nostre idee, ma le loro esigenze,
sono al centro.
Mettersi al servizio delle persone è profondamente di sinistra. Ma
purtroppo molta sinistra ormai vive ai Parioli e non capisce la rozzezza delle
proteste anti-immigrati della provincia veneta.
Questo deve cambiare. Non nel senso che ci si deve adeguare, appiattire. Si
deve però ascoltare, comprendere. Considerare le vive percezioni di
insicurezza, e non solo le fredde statistiche sui furti in calo. Immedesimarsi
in persone che non hanno le nostre barriere psicologiche, ne hanno altre (e sia
chiaro, noi abbiamo le nostre, spesso ancor più subdole e pietrificanti).
Parlare al nostro sistema emotivo, rapido, istintivo, frutto della nostra
natura biologica, non solo a quello freddo, razionale, lento (e pigro) che
abbiamo sviluppato nell’evoluzione (si legga Kahneman).
Ripartire dalle paure legate ai temi concreti ci aiuterebbe a fare quanto
al punto G e al punto H.
D. Dobbiamo smettere di disprezzare le paure delle persone
Quando le opinioni e le paure delle persone medie non ci piacciono, o sono
irrealistiche o oggettivamente stupide, non di meno sono vere per loro.
Addirittura aspettative irrealistiche potrebbero realizzarsi: è la profezia
che si autoavvera di Merton. Ciò implica che dobbiamo trattarle
con rispetto, perché possono essere vere o comunque sono percepite come
vere. E non è detto sia utile impiegare argomenti esclusivamente razionali
(vedi punto A) per confutarle.
Questo è il secondo punto forte della destra: cavalcare i bisogni inevasi e
le paure dei cittadini è più redditizio che intercettarli e dialogare con loro.
Paga dal punto di vista elettorale. Dal punto di vista sociale porta alla
distruzione che abbiamo sotto gli occhi. “Sciacalli d’Italia” di enorme
successo.
La sinistra, al contrario, ha ritenuto questi bisogni poco più che
vaneggiamenti idioti e senza senso. “Se i partiti non rappresentano più gli
elettori, cambiamoli questi benedetti elettori!” diceva Corrado Guzzanti. A
sinistra dobbiamo smettere di ragionare così.
E. Prendere sul serio i bisogni delle persone non significa rinunciare a
una proposta
Anzi. La politica è innanzitutto un mestiere di proposta, nel suo
senso più nobile, per permettere la convivenza civile delle persone (dal
compromesso, al cambiamento utopico). I bisogni vanno intercettati, poi
problematizzati e dialettizzati.
Non è sempre facile. Ma rispondere a bisogni reali significa guadagnare
affidabilità. Quindi, divenire un punto di riferimento e andare al concreto,
tutti assieme (vedi oltre i punti H e L).
Certo, se si vive alle Vallette o a Quartoggiaro è più facile essere
credibili nel proporre questo ragionamento; se si abita a Milano in Via
Montenapoleone o a Torino in collina, è più difficile capire i bisogni delle
persone, fare proposte realistiche, essere considerati interlocutori credibili.
Iniziare a prendere i mezzi pubblici potrebbe già essere un inizio. Soprattutto
in un momento di crisi economica, energetica, climatica.
F. La proposta è il re-framing
Qui siamo alla chiave di volta della strategia che proponiamo.
Senza abbandonarsi a scemenze psicologiste (sullo stile della
programmazione neurolinguistica), definiamo il re-framing come
capacità di cambiare il modo di percepire una situazione, e quindi
cambiarne il suo significato, attribuendogli una diversa immagine.
In questo caso dobbiamo usare l’inglese, poiché è la lingua con cui
tecnicamente è stato definito il concetto di framing, traducibile
in italiano come “cornice concettuale” o “cornice cognitiva”. Tversky e
Kahneman ci hanno vinto un Nobel per l’economia (il solo Kahneman, in verità).
Il professor Lakoff ci ha costruito un’intera teoria della comunicazione
politica.
È provato che la cornice definisce il contenuto. Ce lo dicono gli
esperimenti di psicologia sociale. Uno degli esempi classici è questo: una
malattia provocherà la morte di circa 600 persone. A due campioni di persone
viene sottoposta la scelta tra due programmi per fronteggiare l’epidemia.
Al primo campione si dice: il programma A, salverà 200 persone; il
programma B, ha 1/3 di probabilità che 600 persone vengano salvate e 2/3 di
probabilità che non si salvi nessuno. Il 72% delle persone sceglieva il
programma A.
A un secondo campione, veniva presentato lo stesso problema, ma con una
diversa formulazione dei programmi d’intervento: col programma C, 400 persone
moriranno; con il programma D, c’è 1/3 di probabilità che nessuno morirà e 2/3
di probabilità che muoiano 600 persone. Il 78% preferiva la soluzione D.
Basta riflettere un momento per capire che i piani terapeutici A e C sono
identici e così pure B e D: essi inducono frame diversi per
effetto della differente formulazione. Dire che si salvano 200 persone su 600 è
diverso da dire che ne muoiono 400 su 600!
Dobbiamo quindi disinnescare le “bombe” che sono nascoste dietro l’uso
di parole-chiave che definiscono le situazioni. “Carico fiscale” o
“pressione fiscale” hanno un senso di pesantezza intrinseco, pre-razionale.
“Contributo fiscale” dà già un taglio diverso, legato alla partecipazione
comunitaria del cittadino e non al balzello che grava sul povero contribuente.
Iniziamo ricordandoci, per esempio, che è bene usare l’italiano per
togliere fascino alle proposte, dato che siamo un popolo da sempre esterofilo.
“Tassa piatta” suona decisamente meno accattivante di “flat tax“, non
trovate? Per gli anglofoni: potremmo dire sempre che noi preferiamo la “fair
tax“, la tassa giusta.
Fuor di battuta, uno dei piani su cui esercitare il re-framing è
proprio quello lessicale, come abbiamo visto. Non vogliamo arrivare a dire che
le tasse sono “una cosa bellissima” (citando Padoa Schioppa)… però sono ciò che
rende possibile avere ospedali, scuole, autostrade, ferrovie. Che altrimenti
non ci sarebbero, perché i privati senza Stato non sarebbero capaci di
rispondere a questi bisogni sociali.
Un’opportunità di re-framing si è presentata nel 2009,
quando in Europa infuriava la polemica tra cicale (i paesi del sud Europa in
crisi per i debiti…) e le formiche (i paesi “sani”, come la Germania). Yannis
Varoufakis ha esercitato bene il re-framing, anche se sempre
con complicazioni tecniche necessarie in quel contesto:
La storia dominante in Europa oggi è che, nelle notti ghiacciate di questo
terribile inverno, le cicale meridionali bussano alle porte delle formiche del
nord, col cappello in mano, in cerca di un piano di salvataggio dopo l’altro.
[…] è meglio mettere le formiche e le cicale al posto giusto! Le Formiche
Greche: coppie che lavorano duro, con due lavori a bassa produttività […] ma
che tradizionalmente trovavano difficoltà a far quadrare il bilancio a causa di
bassi salari, sfruttamento delle condizioni di lavoro, […] forti pressioni da
parte delle banche e altri a prendere prestiti in modo da poter dare ai loro
figli quello che la TV raccomanda [….] Le Formiche Tedesche: lavorano duro ma
sono relativamente povere […] Il loro lavoro sempre più produttivo e i salari
bassi stagnanti, hanno fatto sì che i tassi di profitto in Germania siano
saliti alle stelle e siano stati convertiti in surplus […] Una volta creati,
questi surplus hanno ricercato rendimenti più elevati altrove, a causa dei
tassi di interesse bassi indotti in Germania dalle stesse eccedenze. E’ stato a
quel punto che le cicale Tedesche (gli inimitabili banchieri il cui scopo era
quello di massimizzare i guadagni nel breve periodo con uno sforzo pari a zero)
hanno guardato a sud per buoni affari. […] Cosa succede quando le inondazioni
di soldi fluiscono inaspettatamente? Si formano le bolle. […] Arrivata la
crisi, alle formiche Tedesche è stato detto che dovevano stringere la cinghia
ancora una volta. Gli è stato anche detto che il loro governo stava mandando
miliardi al governo Greco. Dal momento che non gli è mai stato detto che al
governo Greco non è consentito usare questo denaro per attutire il colpo alle
formiche Greche […] sono rimasti fortemente perplessi: perché stiamo lavorando
più duro che mai, e portando a casa meno che mai? Perché il nostro governo
invia il denaro alle cicale Greche e non a noi? […] La nostra unica
opzione: sovvertire la storia dominante. Riconoscere la coesistenza
di formiche trascurate e cicale troppo viziate in tutta la zona euro è un buon
inizio.
G. Dal re-framing al framing?
Al punto F però siamo ancora su un piano reattivo (e dobbiamo ancora
semplificare la comunicazione). Come costruire un frame, per usare
un linguaggio gramsciano, egemonico?
Probabilmente il nostro non è il momento storico giusto per poterlo fare
compiutamente (vedi punto N); tuttavia, cerchiamo come riferimento un
modello a modo suo vincente. Se infatti prendiamo a modello un vincente, e
alla fine perdiamo, saremo sconfitti, ma non perdenti. Se non abbiamo nessun
modello (perché a sinistra ci piace essere critici nichilisti) allora saremo
perdenti a priori, emarginati che non si sono mai battuti.
Barack Obama veniva da un’onda lunga conservatrice che durava dai tempi di
Reagan (forse Nixon?) e non è stato in grado di contraddire lo “spirito dei
tempi”: da Presidente non ha concluso molto, se non aver rappresentato (grazie
a un talento impareggiabile) il miglior ragazzo immagine a cui il complesso
militare-industriale USA potesse ambire. Ma è indubbio che abbia suscitato
forze nuove e genuine, che in qualche modo hanno alimentato anche le successive
campagne elettorali di Bernie Sanders. Ha inoltre conquistato il potere,
costruendo consenso intorno a un framing rivoluzionario per
gli Stati Uniti del XXI secolo, basato su una parola semplice: “Hope”. Speranza
in risposta alla più grave crisi economica di tutti i tempi e alla minaccia
terroristica, congiuntura che mai gli USA avevano vissuto.
Lakoff, a proposito proprio dell’Italia, disse realisticamente che ” i
politici che vincono sono coloro che controllano le menti, e gli esseri umani
non sono razionali. Oggi ciò che conta è far condividere agli altri la propria
morale”. “Ragionamenti molto complessi” sono inefficaci se non propongono “un
sistema morale alternativo”.
Quindi bisogna tenere in conto l’abilità oratoria e di re-framing di
Obama per spiegarne il successo, senza dimenticare una azione dal basso che lo
ha sostenuto sia a livello digitale (con un buon uso dei nuovi media), sia a
livello tradizionale: la chiamano grass-roots politics o, come
piace a noi, movimento di base. Potremmo parlare di altri modelli, ognuno con
chiari e scuri: Occupy Wall Street, Podemos, Syriza,…
H. La risposta all’altezza dei tempi forse è un nuovo populismo, ma non un
populismo qualsiasi
Bensì un populismo di sinistra, i cui cardini principali siano
la capacità di costruire un framing coerente intorno a
poche proposte operative. Un buon inizio è probabilmente ricostruire la
lotta di classe a partire dalla contrapposizione tra classe lavoratrice (in cui
includere autonomi e piccoli e medi imprenditori che sudano i loro guadagni?)
e rentiers (coloro che vivono di rendita sul capitale
finanziario e sull’occupazione di posizioni elitarie). Riprendere lo slogan del
“noi siamo il 99%”. Quella stagione non è sopita, quelle esigenze non sono
scomparse. Vanno coniugate con un contesto di emergenza ambientale che dovrebbe
riguardarci tutti e che par smuovere (almeno loro) le generazioni più
giovani.
Non sarà facile nemmeno mettersi d’accordo tra noi su quattro o cinque
semplici misure con cui rispondere alle sfide del nostro tempo. A sinistra
parliamo tanto di solidarietà, ma spesso siamo degli egocentrici settari. Ad
esempio, contrapponiamo lavoro e reddito: cosa intendiamo per reddito
universale (inteso come basic income)? Il reddito universale si
contrappone alla dignità, assicurata solo dal lavoro? O ancora, a proposito
della sovranità nazionale: “più stato” è davvero garanzia di una politica
sociale inclusiva? Lo è invece la piccola comunità, e quindi bisogna frantumare
la sovranità? O, al contrario, l’Europa unita è l’unico possibile spazio
geopolitico in cui agire?
Non è detto che proposte apparentemente contrapposte si escludano: ridurre
l’orario di lavoro è in perfetto accordo con il concetto che ispira il reddito
di base, ed entrambe le proposte non contraddicono una politica ambientalista
per ridurre l’impronta ecologica.
È possibile che, una volta tolte le lenti dell’ideologia più becera, del
personalismo, del settarismo, della ripetizione scolastica della propria Weltanschauung, le
differenze tra noi siano più tattiche che non strategiche o ontologiche.
Dobbiamo smetterla con la gara machista a chi ha il marxismo più lungo.
I. Dividersi i compiti e muoversi coordinati
Sarà la difficoltà più grande, ma viene dalle trasformazioni richieste
prima. Le guerre si vincono con i grandi strateghi, o con i valenti generali? O
con un esercito numeroso? O con pochi soldati, motivati e disposti al
sacrificio? O magari solo con la corretta pianificazione della logistica?
Come ricondurre la discussione (a noi di sinistra piace perderci nelle
discussioni sul sesso degli angeli) a un movimento coordinato, non
personalistico ed efficace, è un’avventura tutta da scrivere. Per il
momento, facciamo che decidere poche regole del gioco: chi deve fare analisi,
faccia analisi; chi deve comunicare comunichi (se a sinistra c’è qualcuno
capace si faccia avanti, please!); chi deve facilitare le
discussioni, le faciliti. Ognuno si metta a disposizione, sia disposto a
mettere in comune le proprie convinzioni e rispettare decisioni altrui.
Le energie ci sono già. Sono frammentate e forse disperse. Ma non perse.
Vanno riattivate.
L. La vita reale sostiene il framing al pari della
strategia comunicativa
Dare prova di coerenza aiuta a essere presi sul serio nel re-framing e
nel framing. Nel quartiere periferico di Roma come sul palcoscenico
politico nazionale. Costruisce il successo elettorale di formazioni prima
marginali (vedi Alba Dorata e Syriza), ma soprattutto costruisce legami
sociali reali e veri, non social network digitali. Se ci
sono risorse relazionali, è più facile aumentare e usare al meglio quelle economiche
e di ogni altro tipo.
Quale risposte dare alle persone? Dipende dai loro bisogni reali (vedi
punto D). C’è bisogno di casse di mutuo soccorso per i lavoratori autonomi
(vedi la cooperativa SMart?). C’è ormai bisogno di poliambulatori popolari (vedi
l’ambulatorio popolare di Napoli dell’ex Opg). C’è bisogno di risposte di tipo
sindacale che i sindacati, rinchiusi come gruppi di potere, non danno più. C’è
bisogno di iniziative culturali, di integrazione, di convivialità. Servono
scuole di politica orientate, tanto quanto spazi di discussione aperta.
C’è bisogno di tante cose che già facevamo nell’ 800 – e di altre da
inventare in forma nuova. È una sfida aperta, rifondare le une e immaginarsi le
altre.
M. Essere coscienti delle asimmetrie di potere (e non lasciarsi
abbattere)
La sproporzione delle forze economiche, mediatiche e politiche in campo è
impressionante; il nostro modello dovrebbe dunque essere la vittoriosa
resistenza vietnamita ben più della dirompente invasione del D-day. Un processo
di erosione del capitalismo, piuttosto che la Rivoluzione, piuttosto che una
vertiginosa transizione a un nuovo modo di produzione; accettando di dover
fronteggiare – come evidenziato da Erik
Olin Wright – “un orizzonte temporale imprecisato, ma che punta nella giusta
direzione, che abbia dinamiche che generino nel tempo più solidarietà e non
meno, più democrazia e non meno, più uguaglianze e non meno”.
La società si sta decostruendo in un turbinio di delegittimazione e
disgregazione sociale. E la mancanza di autorità non è una cosa buona di per
sé. Qui abbiamo una società in cui manca l’autorità ma il potere c’è, è
ben vivo, e paradossalmente diventa più forte quanto più perde di legittimità.
Nella guerra di tutti contro tutti che si scatena quando le persone non
riconoscono più punti di riferimento (scientifiche, politiche, gerarchiche, spirituali),
le elezioni possono essere definite come “quella cosa in cui fake news e
fatti oggettivi sono indistinguibili, e alla fine vince Meloni (o Trump)”.
Quest’ultimo risulta vincente perché ha più denaro, più risorse
relazionali, più affinità con le logiche mediatiche. Ma vince anche perché
parla direttamente alla “gente”, e ne strumentalizza le paure profonde.
N. Avere pazienza
Bisogna prendere atto che siamo in una fase di reflusso democratico,
sociale e culturale. Persino la crisi economica più grave di sempre, la prima
pandemia dell’era globale, la catastrofe ambientale non ci hanno ancora smosso
dal nostro stile di vita “standard”. Quindi nessuno si illuda che quanto appena
illustrato sia facile; o si culli all’idea che nel giro di qualche anno si
possa tornare a dare l’assedio ai palazzi d’inverno. Tuttavia abbiamo una
posizione di snodo fondamentale: in una società fluida, siamo la
generazione della transizione.
È il tempo di una “pazientissima semina”. Questo è stato il terzo segreto
della destra neoliberista: lo stato sociale non è stato abbattuto in un giorno,
ci hanno messo decenni; e nonostante i loro sforzi, non ci sono ancora riusciti
del tutto.
O. Fare un profondo respiro
e ripartire dal punto A.
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