(da “il manifesto” del 13 settembre 2022)
Orrore giudiziario. Il simbolo della resistenza nativa è rinchiuso da 46
anni in un carcere negli Stati uniti dopo un processo-farsa. Il comitato che ne
chiede la liberazione ora porterà la sua lotta all’Onu.
Leonard Peltier è chiuso in carcere da ormai 46 anni ed è l’emblema dei
prigionieri politici e delle minoranze indigene negli Stati uniti. Di ascendenza
Ojibwa Lakota, è tra i fondatori dell’Aim (American Indian Movement) e simbolo
di una resistenza che dura da più di 500 anni. La sua vicenda giudiziaria è
ormai arcinota, raccontata in svariati libri, film e anche in molti articoli
dedicatigli da questo giornale.
NEI PRIMI 10 GIORNI di ottobre di quest’anno è previsto l’arrivo in Europa di
una delegazione dell’International Leonard Peltier Defense Committee, storico
comitato che da tempo si batte per la sua causa, composta da Jean Roach, Lona
Knight e Carol Gokee, che saranno presenti anche in diverse città italiane, a
partire da Milano. Il ciclo delle manifestazioni di sostegno vedrà il suo
culmine a Ginevra, in un incontro con le Nazioni unite.
Per chi non la conoscesse, la storia di Peltier vale la pena di essere
ricordata. Tutto ebbe inizio il 26 giugno 1975, a Pine Ridge, territorio degli
Oglala Lakota, una delle Riserve indiane più grandi e povere degli Stati uniti.
Erano tempi di forti tensioni e scontri, di continue aggressioni alle comunità
indigene, soprattutto da parte dei “Goons”, bande armate formate in parte da
nativi stessi, comprati dal governo statunitense per reprimere le lotte di
rivendicazione dell’Aim.
Quel giorno, senza alcun preavviso, irruppe nella riserva un’automobile priva
di targa con due uomini a bordo che diedero inizio a un conflitto armato. In
seguito si scoprirà che erano agenti dell’Fbi e che il pretesto per l’irruzione
fosse la ricerca di un indiano che avrebbe rubato un paio di stivali.
Ovviamente erano palesi bugie e, più probabilmente, l’irruzione fu una sorta di
provocazione che portò sul teatro dello scontro, nel giro di pochi minuti,
centinaia di agenti.
LA SPARATORIA CHE NE SEGUÌ fu caotica, lasciando a terra i due agenti
provocatori e un nativo. Sul nativo nessuno si prese la briga di indagare, come
avveniva regolarmente anche per la gran quantità di indigeni uccisi in quegli
anni, ma per i due agenti qualcuno doveva pagarla cara. In quanto attivista
dell’Aim, il trentunenne Leonard Peltier divenne così il capro espiatorio
perfetto.
In una successiva intervista Peltier rivelò: «Sono stato minacciato con le
pistole in faccia quando ho cercato di filmare un blocco stradale di una
squadra Goon; in un’altra occasione sono stato sbattuto contro un muro dai
Goon, che tendevano a percepire l’intero corpo della stampa come simpatizzante
dell’Aim. I freni della mia macchina furono tagliati e, in un’occasione, un
fucile ad alta potenza fece un buco in un’automobile su cui viaggiavo. Ma le
mie esperienze impallidiscono in confronto ai pestaggi, le bombe incendiarie e
le sparatorie in auto durante quel periodo, dove almeno 28 omicidi di indiani
rimangono ancora irrisolti e la tribù Oglala Sioux ha ripetutamente presentato
petizioni al governo federale per riaprire questi casi».
L’ARRESTO DI PELTIER avvenne in Canada, il 6 febbraio successivo, ma
l’estradizione fu ottenuta con prove così fasulle che, in seguito, il governo
canadese protestò formalmente col governo statunitense. Peltier venne
condannato nel 1976 a due ergastoli, dopo un processo segnato da
discriminazione e pregiudizio, dove venne accusato dell’omicidio dei due agenti
Ronald A. Williams e Jack R. Coler. Nonostante un accurato rapporto balistico
della stessa Fbi rivelasse che i proiettili non potevano essere stati sparati
dall’arma del leader dell’Aim, il destino dell’imputato Ojibwa Lakota era
segnato. Il processo infatti fu una farsa che ricalcò un copione già scritto:
la giuria era composta esclusivamente da bianchi.
NEL 2003 I GIUDICI del 10° Circuito dichiararono: «Gran parte del comportamento
del governo nella riserva di Pine Ridge su quanto è accaduto a proposito del
Signor Peltier è da condannare. Il governo ha trattenuto delle prove ed ha
intimidito testimoni. Questi fatti sono incontestabili».
Centinaia di singoli cittadini, associazioni e comitati in tutto il mondo hanno
sostenuto la causa di Peltier, raccogliendo milioni di firme e sottoscrivendo
migliaia di appelli. Si sono occupate del suo caso anche personalità come
Desmond Tutu, il Dalai Lama, papa Francesco, David Sassoli, istituzioni come il
Parlamento europeo, organizzazioni come Amnesty International, artisti come
Robert de Niro, Robbie Robertson, Bruce Springsteen e tanti altri. La sua
tragica vicenda è stata dettagliatamente raccontata dal regista Michael Apted,
nel film documentario del 1998, Incident a Oglala.
In una delle tante lettere scritte dal carcere Peltier denunciava: «Nelle terre
indiane e in tutto il mondo ci sono uomini che lottano ogni giorno per la
libertà. L’America ha più gente in prigione di ogni altro Paese e il nostro
sistema giudiziario è ormai un’industria, non un mezzo per cercare la
giustizia». Alla soglia degli ottant’anni, Peltier è duramente provato e
malato. Lo scorso gennaio è anche risultato positivo al Covid, fenomeno molto
frequente nelle carceri americane, così la sua salute è diventata ancor più
precaria.
IN UN COMMOVENTE MESSAGGIO spedito ai sostenitori della sua causa, Leonard
scrisse: «Ho sacrificato tutti questi anni di vita al mio popolo. Sono stanco. Per
anni ho nascosto le mie sofferenze. Ho sorriso quando volevo piangere. Ho riso
quando mi sentivo morire. Ho dovuto guardare le fotografie dei miei bambini per
vederli crescere. Ho perduto il piacere di stare con gli amici. Ho perduto la
gioia di passeggiare nei boschi. Ho perduto la mia libertà. Vi prego, non
dimenticate che in tutto il mondo i popoli indigeni sono oppressi. Vi prego,
non vi dimenticate di me, domani».
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