Roma, un tempo detta caput mundi,
ancor’oggi conosciuta come “la città eterna” è capitale di uno Paese, il
nostro, che nella sua Costituzione si impegna a <rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e
l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona
umana>. Ebbene,incredibile ma vero, proprio a Roma avviene che una
anziana donna dorma (ad oggi che scrivo) da 233 giorni al posto di
guida di un furgone, per consentire ai suoi due figli, un maschio e una
femmina, ambedue adulti e con non lievi disturbi psichici, di dormire sdraiati
sul pianale del mezzo.
Solo un paio di mesi fa, questa donna si
diceva “proprio contenta” perché, dopo essere riuscita a
riportare nel furgone la figlia che in una crisi del suo male aveva girovagato
dormendo in strada per diverse settimane,era riuscita a trovare un posto, sotto
un ponte, da dove <nessuno li cacciava > e dove c’era anche
un lampione che le dava luce di notte.
Ora però non ce la fa più. Con il
volante che le preme sullo stomaco. non riesce più a dormire e nel
furgone con il caldo si sta anche peggio di quando faceva
freddo.
Si dirà che casi del genere non ci sono
solo a Roma e che i “senza tetto” ci sono pressoché in tutte le
grandi città. E’ vero. Ma la particolarità di questo caso, come di molti
altri simili che esistono a Roma, è che a ridurre questo piccolo nucleo
familiare in condizioni tanto miserevoli non è stato un matrimonio
finito male, un lutto grave, una malattia disabilitante né la perdita del
lavoro, ma proprio l’Istituzione più prossima alla popolazione che
per questo, prima e più di ogni altra, ha l’obbligo di dare attuazione al
dettato dell’art, 3 della Costituzione, appena citato.
A “buttare per strada” questa come tante
altre famiglie è stato infatti il Comune di Roma che ha sgomberato manu
militari – tanto per citare solo alcuni casi – la Cartiera di Via
Salaria (2016) i “campi nomadi”, – ribattezzati con scarso senso
dell’opportunità – “villaggi della solidarietà”, River (2018), La Monachina
(2021) La Barbuta (2021)
L’aspetto paradossale di tali sgomberi è
che La Cartiera di Via Salaria non era stata occupata abusivamente ma era un
Centro di Accoglienza istituito dal Comune e i suoi abitanti vi erano stati
immessi dallo stesso Comune; anche i tre “campi” erano stati
istituiti dal Comune adattando container in “moduli abitativi”, ognuno
dei quali, contrassegnato da un numero identificativo, era stato assegnato ad
un nucleo familiare con tanto di “determina dirigenziale” dell’apposito Ufficio
Comunale.
Si tratta dunque di una paradossale
assurdità che segna il punto di arrivo di una ininterrotta sequenza
di assurdi, paradossi ed illegalità che parte da molto lontano.
A Roma i primi “campi”
furono allestiti negli anni ottanta dello scorso
secolo, come campi di sosta per accogliere piccole immigrazioni di Rom
che fuggivano da condizioni di miseria.
A tali piccole immigrazioni per fame
seguirono, nel ’91-’92, consistenti ondate di profughi provenienti
dalla Bosnia divenuta teatro degli scontri etnici serbo-bosniaci e,
a partire dal ’99, nuove ondate di profughi dalla
guerra del Kossovo.
Molti degli attuali residenti nei
campi sono dunque profughi di guerra o loro discendenti, ai quali
si sono aggiunti a partire dal 2000 altri profughi dalla miseria che
devastava paesi come la Romania.
La complessità e la delicatezza dei
problemi nuovi posti dalla consistente presenza di queste minoranze
linguistiche non fu colta dalle nostre istituzioni. La maggiore preoccupazione
delle Giunte Rutelli (1993-2001) e Veltroni (2001 -2006), per non
dire delle gestioni commissariali, fu quella di
spostare i “campi” fuori dal centro della città, possibilmente al di là
del raccordo anulare.
Il culmine dell’incomprensione di questo
fenomeno lo si raggiunse non a caso con il Governo Berlusoni che
nel 2008 dichiarò l’esistenza di un’ “emergenza nomadi” ed emanò
direttive ai Prefetti per fronteggiarla con misure speciali.
In ottemperanza a tale Dichiarazione,
nel 2009 a Roma la Giunta Alemanno adotta il “Piano Nomadi”.
Il Consiglio di Stato però nel 2011
dichiarò inesistente un’ emergenza nomadi ed illegali i
provvedimenti conseguenti, compresi gli stessi “campi”.
Il Governo ricorse contro la sentenza del
Consiglio di Stato, ma la Corte di Cassazione nel 2013 dette torto al
Governo e ragione al Consiglio. Nello stesso anno il Tribunale
Civile di Roma riconobbe a un cittadino rom di essere stato vittima di
discriminazione su base etnica in occasione del foto segnalamento ed ordinò al
Ministero dell’Interno di distruggere tutti i documenti contenenti i dati
sensibili di quel cittaddino, raccolti impropriamente.
Nel 2015, il 30 maggio, il Tribunale
Civile di Roma afferma in sentenza che i campi hanno carattere di
“discriminazione su basi etniche” sentenziando che «il carattere
discriminatorio di natura indiretta della complessiva condotta di Roma Capitale
[…]si concretizza nell’assegnazione degli alloggi del villaggio attrezzato La
Barbuta» ed impone da subito al Comune di Roma di far cessare gli effetti
discriminatori.
Ma nulla succede. I “campi”restano e con
il loro progressivo degrado assumono sempre più il carattere di
luoghi di segregazione. Per di più un nuovo fenomeno insorge
aggravando la situazione: con la dissoluzione della Jugoslavia i
documenti di molti degli abitanti dei i “campi” non hanno più valore
essendosi dissolto lo Stato che li aveva emanati. I loro intestatari restano senza
cittadinanza e divengono , apolidi di fatto. Di ciò e delle conseguenze anche
per i loro figli nati nei campi non si cura alcuno.
Appare assodato dunque che ad essere fuori
Legge non sono i Rom, anche se a volte sono costretti a rubacchiare per
sopravvivere, ma le Istituzioni.
Nal 2012 il Governo Monti prova a mettere
riparo a questa incredibile situazione, approvando la Strategia Nazionale
per l’Inclusione Sociale dei Rom Sinti e Caminanti 2012 – 2020 che l’UNAR
– Ufficio Nazionale Antidiscriminazione Razziale del Dipartimento per le
Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio – aveva predisposto sulla
scorta di direttive della U’nione Europea. Si basa su quattro direttrici:
abitare, lavoro, istruzione, salute.
Purtroppo resta un bel libro di
sogni.
Le Istituzioni di prossimità, Comuni e
Regioni, che avrebbero dovuto attuarla, vengono totalmente meno al loro compito
per mancanza sia di volontà, a livello politico, sia di competenza,
a livello tecnico-amministrativo. Ai politici fa da freno l’antiziganismo di cui
è pervasa l’opinione pubblica, antiziganismo che è una subdola forma di
razzismo paragonabile solo all’antisemitismo. Si pensi alle persecuzioni
naziste sfociate negli abomini che gli Ebrei chiamano Shoa (6 milioni di
morti) ed i Rom Porrajmos (500mila morti su di una popolazione di poche
centinaia di migiaia di persone).Si pensi che nel Parlamento Italiano, per fare
approvare la Legge sul riconoscimento delle minoranze linguistiche si
dovette eliminare dal loro elenco quella dei Rom.
Quanto al livello tecnico-ammiistrativo si
consideri quale cultura e quali professionalità occorrano per
attivare percorsi che portino le migliaia di persone che abitano nei “campi”
dalle attuali condizioni di apartheid, ”in cui sono state segregate per
decenni o addirittura sono nate, al godimento dei diritti di
cittadinanza dai quali sono state sinora escluse. Perché è questo
che si intende quando si parla di inclusione sociale
La mancanza, da una parte, di
volontà politica e, dall’altra, di cultura e di professionalità ha
costituito una miscela devastante che ha portato al travisamento
della Strategia di Inclusione Sociale: il “superamento dei campi” è stato
inteso come obiettivo a sé stante invece che effetto
dei percorsi di inclusione che, per aver inserito nella
società le minoranze, avessero resi inutili quei luoghi di segregazione.
E poiché la chiusura dei campi in vista della scadenza elettorale
era spendibile come soluzione di problemi di ordine pubblico e di decoro
urbano, il loro svuotamento è divenuto obiettivo da raggiungersi ad ogni
costo.
Per tanto gli sforzi dell’Amministrazione
Comunale si sono concentrati su uno solo dei quattro indirizzi suggeriti
dalla Strategia: l’abitare. Ma non nel senso di realizzare un modello abitativo
adatto alle circostanze, ma semplicemente come trasferimento dei nuclei
familiari che rientrassero nelle apposite graduatorie dai “campi”ai casermoni
dell’edilizia pubblica senza alcuna preparazione né dei trasferendi, né dei
contesti che li avrebbero .dovuti accogliere.
Delle conseguenze di questa
improvvida operazione si sono occupati ampiamente i media ed anche
diverse Stazioni dei Carabinieri che hanno dovuto raccogliere le denunce delle
donne Rom minacciate con i loro bambini e malmenate da coinquilini che
non gradivano averle come vicine.
Ma le abitazioni di proprietà pubblica
disponibili non erano sufficienti ad accogliere tutte le famiglie rom da
trasferire per svuotare i campi ; ed allora si è fatto
ricorso ad unastuto stratagemma. Si è chiesto alle famiglie dei campi in
chiusura di sottoscrivere il Patto di Solidarietà, un atto in cui
esse si impegnavano a trovarsi un‘abitazione da fittare ed
il Comune si impegnava a pagarne i canoni mensili dei
primi due anni. Ma chi fitterebbe a Roma un’abitazione ad un
Rom e per giunta privo di busta paga e spesso anche di documenti? E cosa
sarebbe avvenuto al terzo anno? Il tranello era evidente: chi, firmato il
Patto, non fosse riuscito a trovare un appartamento da fittare
sarebbe risultato non più meritevole delle misure di sostegno in
quanto inadempiente; così chi, avendo capito l’inganno, non lo avesse
sottoscritto, sarebbe apparso non collaborativo. In ambedue i casi sarebbe
apparso che quelle famiglie Rom avrebbero rifiutato l’alternativa
abitativa offerta dal Comune e gli sgomberi avrebbero avuto una
parvenza di legalità.
E così è stato. Alla Seconda Sezione
Civile del Tribunale di Roma presso cui pendeva un ricorso contro lo sgombero
del camo La Barbuta un avvocato del Comune poté affermare che nessuno dei
suoi abitanti sarebbe rimasto senza un’alternativa abitativa. Il ricorso non
venne accolto e decine di famiglie alla data fatidica fissata per
la chiusura del campo sono state letteralmente messe in
strada, come era avvenuto alcune settimane prima con le famiglie che
ancora erano nel campo de La Monachina..
Ad alcune – le più fortunate – del Campo
La Barbuta, nel mentre erano già in corso le operazioni di sgombero è stato
assegnato provvisoriamente (cioè per due) un appartamento in condizioni
ininmaginabili.Per darne un’idea: 13 persone in co-housing in tre stanze
con un bagno pressoché inutilizzabile; una mamma anziana con un figlio
costretto su di una sedia a rotelle, dopo un’ odissea rimbalzata sulle pagine
de il manifesto, è stata immessa in un appartamento
senza riscaldamento ed acqua calda, al 7° piano di uno stabile nel
cui ascensore la carrozzina non entra. Altri nuclei familiari
per strada.
La continuità istituzionale imporrebbe
alla Giunta Gualtieri di porre rimedio ai disastri compiuti dalla
Giunta Raggi, ma sinora non c’è chi se ne occupi,nonostante ripetute e
documentabili sollecitazioni all’Assessorato alle Politiche Sociali e
all’Assessorato alle Politiche Abitative che amministra i dirupati appartamenti
assegnati per due anni.
Tutto ciò accade a Roma con buona pace
della Costituzione più bella del mondo che è anche assai poco attuata.
Di fronte a tutto questo c’è da chiedersi
che fa l’UNAR nel suo ruolo di punto di raccordo e coordinamento della
Strategia Nazionale di Inclusione e se, per evitare che vicende
del genere continuino ad accadere, non sarebbe il caso di portarle
all’attenzione della Magistratura perché indaghi se nell’ac-caduto non si
rilevino responsabilità da perseguire sia a livello politico che al livello
amministrativo.
Intanto l’apartheid dei Rom e dei Sinti, a
Roma (e non solo) continua.
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