I pedagogisti sono utili? - Vincenzo Costa
Non bisogna fare di ogni erba un fascio. Il mondo della pedagogia italiana
è vario, ci sono pedagogisti con un buon senso della realtà, dentro la cosa
stessa. Ma la pedagogia nel suo insieme è diventata un problema, teorico e
pratico.
Teorico perché pesca e si fa guidare di volta in volta dalle mode: il
marxismo, la psicanalisi, le scienze cognitive, le neuroscienze. Usa di volta
in volta categorie che durano una stagione per elaborare modi di affrontare il
problema scolastico. I risultati da trent’anni sono devastanti.
Stiamo perdendo la capacità di formare, di trasmettere, travolti dalla
didattica, da questa idea, opinabile e controversa, secondo cui il problema
dell’insegnamento si supera con la tecnica, sia un problema tecnico, e la
tecnica qui si chiama “didattica”: la classe rovesciata e gli infiniti altri
metodi escogitati per aggirare il problema semplice: la scuola non coinvolge,
ha perso la propria capacità di formare, cioè di permettere alla vita di
prendere forma.
Il problema è la necessità di una riflessione pedagogica che metta in
discussione tutti questi assunti, cioè se stessa. Difficile che lo faccia, la
situazione è sclerotizzata in “scuole”, persa nel politicamente corretto
accademico. L’esigenza resta.
I pedagogisti possono non cogliere la sfida, ma a studenti, insegnanti e
famiglie le cose sono chiare: la pedagogia e la didattica (come disciplina
accademica) sono ormai il problema della scuola.
Come possono essere utili se sono il problema? La pietra di inciampo? Se
sono ciò che produce malfunzionamento? Se invece di eliminare le disfunzioni
sono esse per prima ad essere disfunzionali?
Poi c’è un problema pratico. Il ministero è praticamente occupato dai
pedagogisti, una sorta di occupazione militare. Il ministro Bianchi non è
caduto dal cielo, si sviluppa entro una logica. E a guidare questa occupazione
è un’impostazione demenziale, aziendalistica. I peggiori sono quelli che fanno
capo alla fondazione agnelli.
Alcuni di questi campioni si sono distinti durante il lockdown, che per
loro fu un’occasione ghiotta per imporre il loro mito (e la loro fonte di
introiti): la dad.
Non c’era verso di farli ragionare. Loro sono il progresso, la tecnica.
Sappiamo che fu follia, che ha prodotto danni gravi su una generazione, e
non solo dal punto di vista dei contenuti formativi, ma della crescita e della
salute mentale.
Sono quelli delle competenze, quelli che trasformano esigenze anche in
parte condivisibili, ma da usare con prudenza, in bandiere per lotte di potere,
come strumenti ideologici.
In una società della conoscenza la formazione è il nucleo della società,
quello formativo diviene un sistema-guida rispetto agli altri sottosistemi. Non
lo stiamo capendo, mentre lo capiscono i ragazzi, gli insegnanti.
Stiamo perdendo su vari fronti, nel trasferimento di conoscenza, nella
capacità di tramettere contenuti e l’abilità di orientarsi nel mondo.
Soprattutto stiamo perdendo le nuove generazioni.
Bisogna cambiare, e non solo ministro, che è pessimo di suo. Bisogna
cambiare l’intera struttura ministeriale. Va azzerata.
Se non si fa questo lo sfacelo non avrà fine.
“Riforma Bianchi,
un’umiliazione per gli insegnanti” -
Gruppo La nostra Scuola Associazione Agorà 33
Appello di un gruppo di
docenti ai sindacati: “Vi chiediamo di fare fronte unico contro questo ennesimo
scempio della scuola e del lavoro dei docenti italiani, per il bene dei futuri
cittadini”.
Cari sindacati,
scriviamo questo appello affinché l’ennesima apodittica e improvvisata riforma
della scuola non si trasformi in una vera e propria umiliazione per i docenti
italiani e, cosa ancor più grave, in una catastrofe educativa e culturale per
gli studenti.
La bozza della riforma prevede, tra le altre
cose, la cosiddetta “formazione continua incentivata”, che vorrebbe legare la
progressione stipendiale dei docenti alla loro volontaria partecipazione a
percorsi di formazione professionale i cui contenuti e le cui procedure di
superamento sono rigidamente stabiliti a livello centrale o a livello di
istituzione scolastica. La riforma prevede anche la modifica delle modalità di
reclutamento del personale docente, dove l’unica vera novità introdotta è
l’ulteriore squalifica della preparazione culturale dei docenti a vantaggio del
loro precoce indottrinamento alle metodologie didattico-aziendalistiche di
Stato. Entrambe le misure sarebbero in continuità e funzionali agli obiettivi
previsti dal PNRR, che è il vero motore di questa scellerata riforma.
Noi riteniamo che una simile impostazione sia
un insulto rispetto a tre questioni di centrale importanza: l’ampio dibattito
parlamentare ed extraparlamentare su cui si deve fondare una qualsiasi riforma
di un’istituzione così importante come la scuola; la libertà di scelta delle metodologie
didattiche, in coerenza con l’articolo 33 della Costituzione; il diritto dei
docenti ad avere uno stipendio più dignitoso indipendentemente da qualsiasi
ulteriore requisito, in coerenza con tutta la retorica (vuota) che da tempi
immemori informa questo tema.
La prima questione si pone poiché in realtà
questa riforma è stata furbescamente inglobata all’interno del PNRR che è
figlio di un’emergenza che nulla ha a che vedere con la scuola; si è soppressa
così ogni possibilità di dibattito pubblico su un tema che invece ne dovrebbe
usufruire ampiamente, visto che riguarda tutta la società e il suo stesso
futuro democratico.
La questione della libertà di insegnamento si
pone prepotentemente poiché, dopo decenni in cui la riduzione dei contenuti
culturali nei programmi scolastici a vantaggio di metodologie spesso vuote e
fini a se stesse è stata imposta de facto (attraverso la riduzione del tempo
scuola dovuta alle classi pollaio e alla messe di attività extracurricolari che
invadono i PTOF), ora questa degenerazione viene imposta su basi ancora più
esplicite. L’anticipazione della formazione professionale già al periodo
universitario e la successiva formazione continua incentivata, determineranno
inevitabilmente la riduzione della preparazione culturale dei futuri docenti –
poiché i contenuti culturali saranno sostituiti dall’indottrinamento su
metodologie astratte di insegnamento – e mineranno alla base la loro
possibilità di porsi agli studenti come figure di riferimento culturali,
motivate e motivanti allo studio e alla crescita culturale e umana; con la
triste (e voluta) conseguenza che i docenti non potranno che fondare la loro
identità professionale su un cumulo di attestati che certificheranno solo la
loro capacità di scimmiottare metodologie didattiche decontestualizzate e il
loro grado di sottomissione ideologica alla non-scuola aziendalista, da
esecutori passivi di metodologie burocratizzate più che da intellettuali ed
educatori in grado di guidare gli studenti con umanità e cultura.
Riteniamo che la metodologia didattica da
adottare in ciascuna lezione non possa e non debba essere imposta da regole
astratte e scollegate dalla disciplina e dalla realtà educativa in cui opera il
docente; piuttosto, essa deve essere di volta in volta scelta, nell’ambito
dell’esercizio della libertà di insegnamento, in modo consapevole e
responsabile dal docente tra l’ampio ventaglio delle metodologie utilizzabili,
proprio allo scopo di garantire che il diritto all’istruzione degli studenti
sia esercitato pienamente e in modo ottimale, anche attraverso la scelta della
metodologia più adatta al contesto educativo reale. Si deve riconoscere al
docente l’autonomia professionale di scegliere le metodologie su cui formarsi e
attraverso cui lavorare.
La questione stipendiale è strettamente
collegata alla precedente: laddove non arriverà la coercizione ideologica
precoce, si confida che arriverà lo stato di necessità. Tra i docenti peggio
pagati d’Europa, quelli italiani saranno facilmente spinti ad abbracciare i
nuovi percorsi formativi che garantiranno loro una progressione stipendiale
accelerata.
Ma non ci saranno solo motivazioni economiche.
La non obbligatorietà dei nuovi percorsi creerà di fatto una discriminazione
etica (quando non addirittura professionale) tra docenti “allineati” e “non
allineati”, che causerà in alcuni un’ulteriore spinta ad aderire anche
ideologicamente ai dettami della didattica astratta e aziendalistica. Un’altra
distorsione di questa misura è che si lega lo stipendio a una “formazione
continua” eterodiretta senza però nessun riscontro sui risultati che tale
formazione avrà sugli apprendimenti (risultati d’altra parte difficilissimi da
verificare dall’esterno della relazione educativa). La formazione così intesa
diventerebbe quindi un fine e non un mezzo, con il conseguente rischio di
spreco di denaro pubblico, che nella migliore delle ipotesi sarà destinato ad
alimentare un indotto di aziende private ed enti preposti alla erogazione di
una formazione di incerta utilità destinata ai docenti, e nella peggiore
potrebbe alimentare un vero carrozzone burocratico destinato a produrre
inefficaci attestazioni di attività formative. Paradossalmente, si arriverebbe
a premiare un docente che si è profuso nei corsi di formazione ma che ha scarsa
cultura e scarsa capacità didattica, rispetto a un docente che non ha aderito
ai corsi ma che ha un’ottima interazione con gli alunni e un’ottima capacità di
trasmettere contenuti e passione. In tal modo si incentiverebbe il docente a
mettere al centro dei suoi impegni il suo stipendio e non il suo servizio agli
alunni e la sua libertà di insegnamento, nella peggiore tradizione del New
Public Management in cui si realizza la sostituzione della motivazione
interiore, idealistica, con l’incentivazione economica. Il docente diventa
così, più o meno consapevolmente, complice dell’indottrinamento aziendalistico,
spinto a tradire la natura della sua professione.
Per tali ragioni, noi docenti del Gruppo La
nostra Scuola, vi chiediamo di fare fronte unico contro questo ennesimo scempio
della scuola e del lavoro dei docenti italiani, per il bene dei futuri
cittadini.
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